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Era domenica mattina. Presto, molto presto, a giudicare
dalla debole luce che filtrava dalle imposte. Heinrich era sospeso in
uno stato di sopore, aleggiava fra dormiveglia e sogno. Josefine gli
dormiva addosso, con la testa riversa sul suo petto. Un lontano
orologio suonò l’ora. Si svegliarono insieme, sorpresi e
imbarazzati come se fosse la prima volta.
Heinrich andò alla finestra e si accese una sigaretta.
Augurò il buongiorno alla città, ma la città non rispose. Quel
giorno, cinque pianeti allineati esercitavano il loro misterioso
influsso sulla Terra, generando un’attrazione invincibile.
Josefine uscì dal bagno. Heinrich colse un guizzo
azzurro con la coda dell’occhio. Era il suo vestito nuovo, l’aveva
comprato giurando che l’avrebbe indossato solo per amore. Sorrise.
Era bella e fresca come la primavera.
Non ti muovere…
Non ti muovere, ti voglio guardare. Ti ho ammirata a
lungo, ma tu non mi appartenevi.
Ora mi appartieni, ora posso guardarti.
Non aprire gli occhi, sei così bella.
Non aver paura, ci sono qua io. Nessuno ci può
vedere.
Heinrich si fece da presso, il vestito scivolò
frusciando sulle spalle nude e cadde ai suoi piedi. La strinse a sé.
La sua pelle era fresca e calda al tempo stesso. I
capelli le sfioravano le spalle, i suoi seni erano colmi come ghirbe
e aveva le gambe sottili di una gazzella. Le sue dita scivolarono
lievi sul suo corpo, seguendone i contorni. Egli sentì il vuoto
dentro di lei e volle colmarlo.
Sentì l’anima bruciare. L’amava, l’aveva amata in
tutte le vite passate e l’avrebbe amata in tutte le vite a venire.
Si rammaricò del buio che gli impediva di vedere chiaramente il suo
volto.
Heinrich aprì gli occhi. Gli parve di aver sognato. Non
ricordava esattamente i particolari del sogno, solo sensazioni,
lievi, eteree, inconsistenti. Ma si sentiva bene, gli parve di aver
nuotato in un fiume di miele. Cercò la sua mano. Lei era sveglia e
lo osservava. Se ne stupì, egli che non dormiva mai, egli che
vegliava sempre sul suo sonno. Josefine non si era mai addormentata,
aveva vegliato tutto il tempo, come Asherah sul sonno di El, il dio
che non dormiva mai.
Avvertirono dei borborigmi e scoprirono di avere
appetito. Era passato da molto il mezzogiorno. Il furore del sole sui
loro corpi nudi li turbò e si affrettarono a rivestirsi. Heinrich
scese da basso a cercare da mangiare.
«E così si è messo cattivo tempo.»
Sgranò gli occhi. Il portiere ripeté la frase, poi
aggiunse: «Tuttavia, due passi all’aria fresca giovano
all’appetito». Heinrich capì che doveva uscire. Forse ci siamo,
pensò. Corse di sopra a cercare Josefine e insieme filarono via.
Per le strade si udiva un brusìo, sormontato da
un’agitazione crescente. Si sentiva sibilare, sussurrare,
borbottare e infine rombare un solo gigantesco fragore. Era come lo
scrosciare di un torrente impetuoso. Milioni di gocce d’acqua
collidono le une contro le altre e generano quel suono spaventoso.
Heinrich fermò il primo passante che gli capitò a portata di voce,
ma non riuscì a farsi udire, tant’era il fracasso, e fu costretto
a urlargli nelle orecchie.
«Stanno arrivando, stanno arrivando!» disse costui con
il viso stravolto dalla paura.
Heinrich lo teneva per tutt’e due le braccia.
«Stanno per entrare in città! Capite?» Si divincolò
dalla presa e sgusciò via, incespicandogli fra i piedi.
Heinrich e Josefine si scambiarono un’occhiata piena
di sgomento.
«L’esercito tedesco sta per entrare in città!» urlò
l’uomo, sgomitando per rientrare nella massa umana che sciamava per
strada. Tutta Amsterdam ne era invasa, la stessa Koningstraat ne era
colma fino ai piedi dei palazzi.
Heinrich e Josefine si fermarono a guardare stupiti, ma
non fecero in tempo a riprendere fiato, che furono spinti dalla
corrente. La folla odorava d’acqua e di fango. Da una finestra
veniva l’aroma di pane abbrustolito, ma era un odore acre,
sgradevole, come se l’avessero dimenticato nel forno e fosse arso
insieme alla legna. L’aria era densa di fumo.
I volti della moltitudine avevano tutti la stessa
espressione folle e disumana. Su di essi si alternavano risa e
pianto. La marea umana era come ricoperta da una patina di follia. Vi
era chi si strappava i capelli, chi pronunciava parole
incomprensibili con lo sguardo assente e chi, seduto sui marciapiedi,
stringeva i propri cari aspettando la fine. Alcuni si tuffavano nei
canali. Per le strade aleggiavano echi di parole trasportate dalla
gran fiumana. Si sentivano frammenti di discorsi, spezzoni di
racconti orribili. Le storie più assurde, minuterie d’inferno,
mozziconi d’incubi.
Secondo alcuni, i soldati avevano sterminato senza
motivo un’intera famiglia, avevano fatto a pezzi i loro corpi e li
avevano dati in pasto ai cani. Si narrava poi, di altre famiglie
rinchiuse nelle case e date alle fiamme e di interi quartieri
incendiati. Dicevano che alcuni disperati avevano cercato scampo
buttandosi dalle finestre, ma erano morti prima di sfracellarsi al
suolo, falciati in volo dalle raffiche delle mitraglie. Giuravano che
le grida e i lamenti di quelli che bruciavano vivi all’interno
delle case erano insopportabili.
Josefine trasecolò, chiuse gli occhi e cercò di
tapparsi le orecchie per non ascoltare. Si sentì sopraffare dal
rombo della marmaglia, povere anime derelitte in un orrido carnevale
di mostri, una ridda metafisica di persone terrorizzate a tal punto
da aver perso il senno.
Il tempo stava cambiando. Il sole ardeva fioco, velato
da una cortina di foschia e, mostrando il suo volto pallido e
bucherellato come un pezzo di limburger,
si scioglieva nel cielo bianco e pesante. L’azzurro era svanito
sotto uno strato di nubi dai bordi sfilacciati come brandelli
d’ovatta.
Un passante lo urtò. Heinrich lo guardò male, ma
questi chiese subito scusa levandosi il cappello. Rimase a guardarlo
mentre si allontanava. Aveva avuto la sensazione che lo sconosciuto
gli avesse infilato le mani in tasca, come un abile borseggiatore.
Nelle sue tasche ormai vi era ben poco da rubare. Tuttavia, non seppe
dire se la sua impressione corrispondesse alla realtà, finché non
fu vinto dalla tentazione di infilare una mano in tasca. Sentì
allora con la punta delle dita qualcosa che gli sembrò una palla
ruvida. La palpò meglio e si accorse che era un foglio di carta
appallottolato. Si rifugiò nell’androne di un palazzo tirandosi
dietro Josefine e, nella penombra dell’atrio tirò fuori la palla
di carta, la spiegò per bene e lesse.
Signor D.,
il cargo è fermo in porto, in attesa degli eventi.
Le autorità non sanno ancora da che parte stare. A quanto pare,
questa invasione ha scombussolato un bel po’ di piani e di
equilibri. E intanto tutto è fermo, nessuno arriva, nessuno parte e
non so fino a quando.
Sono desolato.
Felix V.D.
Heinrich scosse Josefine, la prese per le braccia e la
portò via. Risalirono a fatica Koningstraat e rientrarono
precipitosamente in albergo.
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