XII
La nebbia non volle saperne di diradarsi quel giorno.
Nel buio fitto, ai margini della notte, Heinrich tremava
dentro il suo cappotto striminzito. La notte intabarrata in un manto
untuoso si stendeva viziosa sulla coperta della nave nel più
profondo dei silenzi. Un suono di sirena lacerò l’etere, funesto
come l’annuncio della fine dei tempi. Heinrich si riscosse dal
torpore. La nave profetizzava con infauste trombe di Gerico il
distacco dalla terra.
La Redden
sciolse gli ormeggi, la sua libertà improvvisa gli provocò
turbamento. Un marinaio inciampò in una cima e maledisse le divinità
del mare. Egli rise pensando all’ironia della sorte, all’ennesimo
tiro che gli giocava un destino infido e perverso, che gli aveva
fatto trovare sulla sua strada una donna bellissima, la rovina e una
nave di nome Salvezza (1), proprio quando credeva di non avere più
scampo.
In altri tempi, in altri luoghi, avrebbe potuto amare
quella donna, come fosse la cosa più naturale del mondo. L’avrebbe
potuta avere in moglie e vivere accanto a lei giorno per giorno e
notte dopo notte, ma quelli non erano tempi adatti all’amore. Era
il tempo dell’odio e del terrore, era il tempo di vite provvisorie
appese alla punta delle baionette. Anni luridi e corrotti su cui la
morte si strofinava il vello come una vecchia in calore.
La nave scivolava sulle acque calme, dentro un’atmosfera
spessa e ovattata. La notte gravida impallidiva, molto vicina a
concepire il giorno. Non era possibile intuire alcun moto, i motori
brontolavano nel buio della sala macchine e il fumo saliva dritto dai
fumaioli in un flusso d’inchiostro verso il cielo. Certo, poteva
udire lo sciabordio dei flutti e intuire onde infrangersi contro la
prua e le murate e anche permettersi l’illusione di avere la sua
vita saldamente in pugno. Ma tutto questo non aveva alcun valore.
Non avrebbe saputo dire se stessero ancora vagando nella
rada o avessero già guadagnato il largo. Nulla si muoveva in
quell’alba buia e assurda, paralizzata in un arcano sortilegio.
Decise di resistere al freddo che gli mordeva il viso e avanzò verso
la prora. La nave era ingombra di casse ed egli si faceva strada a
fatica fra contenitori dalle forme inusitate e scatole di ogni
grandezza, ammassate alla rinfusa. Esistevano pochi dubbi, o almeno
questa era l’impressione che ne aveva ricavato discorrendo con il
signor Van Diemen, sul fatto che il comandante e il suo equipaggio
fossero invischiati in bizzarri traffici con l’Inghilterra. Ma non
era certo il momento di farsi troppe domande. Era già un caso
fortunato che la lettera che preannunciava la partenza l’avesse
raggiunto, e un miracolo che fosse sopravvissuto.
Raggiunse il punto più elevato, in cima alla prora e si
mise a sedere sul cordame. Intabarrato nel suo cappotto, come un re
senza corona in partenza per l’esilio, si dispose a piangere
lacrime amare al vento e alle acque scure.
Perché l’avevano lasciato partire? Loro dunque
sapevano, sapevano tutto, fin dall’inizio? Sapevano che era solo
questione di tempo e avrebbe capitolato portando in dono il cadavere
di Josefine? Perché non avevano preso anche lui?
In quel momento gli parve di scorgere un tenue chiarore
all’oriente, la nebbia s’impreziosiva di gocce di luce dorata e,
se i suoi occhi non lo ingannavano, stava per sorgere il sole. In
breve, l’orizzonte e il mare, ovunque potesse spingersi il suo
sguardo, avevano assunto la radiosa tonalità dello zolfo. Heinrich
si sentì al sicuro, sicuro come mai era stato negli ultimi tempi.
Il comandante venne a portargli una tazza di caffè. I
galloni cuciti sulle maniche brillavano nella penombra del castello
di prora.
«Dove siamo?»
«Siamo in cammino» rispose l’ufficiale dietro i suoi
baffi macchiati di nicotina. Nei suoi occhi scintillavano ondate
miste di ironia e disprezzo.
«Lo sapeva lei, caro signore, che il nord della carta
geografica non corrisponde affatto al nord indicato dalla bussola?»
«No, non lo sapevo, capitano» disse Heinrich con
scarso entusiasmo. «E come si fa allora a non perdersi?»
«È semplice. Basta correggere la rotta del numero di
gradi indicato sulla mappa, dal momento che la declinazione magnetica
della Terra non è costante in ogni luogo» disse il comandante,
grato della domanda.
«E sa qual è la rotta più breve fra due punti?»
«Quella che li unisce in linea retta.»
«Non è corretto, signore» disse il comandante.
«Ah no?» chiese Heinrich con straordinaria calma, ma
dentro fremeva e avrebbe voluto dare una sonora lezione di arte
nautica a quello spocchioso individuo. Decise tuttavia di contenersi
per non destare sospetti.
«No, signore.» Il comandante represse un’evidente
nota di disappunto. «Vede, la Terra è una sfera e per accorciare la
rotta può essere conveniente seguirne la curvatura, puntando prima a
nord e poi ridiscendendo a sud, se ci si trova nell’emisfero
boreale, o viceversa, se si naviga nell’emisfero australe.»
Il comandante continuò ad aggiungere dati tecnici e a
fornire spiegazioni sempre più accurate, ma egli si mostrò così
poco interessato che ben presto si stufò e se ne tornò in plancia,
lasciandolo solo all’aria pungente del mattino. Heinrich ripensò
ai mesi passati a solcare i mari nella pancia d’acciaio di una
nave, la sua chiglia affilata a fendere le acque del mondo.
Risponda rosso al rosso, verde al verde,
avanti pur, la nave non si perde…
Gettò un rapido sguardo all’acqua nera, nel punto in
cui svaniva sotto lo strato di foschia. Niente da fare, la nebbia non
voleva saperne di disperdersi e scivolava pigramente sulla superficie
delle acque.
… se sulla rotta rosso e verde appare,
mano al timone e tieni a dritta il mare…
La tazza era molto calda, se la rigirò fra le mani,
finendo per scottarsi ugualmente. Affondò il naso nella cavità
d’alluminio e l’aroma gli punse le narici. Gli tornò in mente
l’odore del surrogato di caffè in altri giorni di freddo, così
simili a quello che era appena sorto, quando il sole lottava per
prevalere sulle ombre.
«Comandante, ha mai letto Conrad?»
Un’ombra si affacciò dalla passerella di dritta.
«Conrad?»
Heinrich sospirò. «Lasci perdere. Non ha alcuna
importanza.»
«Ma no, aspetti, or mi par di ricordare. Non ha forse
scritto una guida al carteggio nautico?»
Heinrich stavolta non rispose.
La sua mente tornò a quei giorni così confusi, privi
di spiegazioni, mancanti di ogni logica. Erano i giorni di un mai
nato e malgrado ciò riteneva di essere stato fortunato, perché
nulla sapeva e nulla poteva sapere. Negli anni che gli restavano da
vivere non avrebbe goduto della stessa buona sorte. Perché ora
ricordava tutto. La città indolente adagiata sulle acque e il buio e
l’angoscia, gli scialbi mattini di Koningstraat, il Café De Vrjie
dall’altra parte della strada, l’oscura camera d’albergo. E il
dolore.
Ecco perché l’avevano lasciato andare. Il dolore. Era
quella la sua condanna, era quello il suo destino. Il dolore era la
linea d’ombra da attraversare.
Quella notte, aveva messo Josefine in valigia e in
quella stessa valigia aveva rinchiuso anche il suo cuore. Aveva
chiamato un taxi come un assassino qualunque e il conducente l’aveva
aiutato a caricare il pesante bagaglio senza sospettare nulla. Si
erano diretti al porto.
La nebbia e l’oscurità l’avevano per una volta
favorito ed era riuscito a trascinarla fino all’acqua. Guardandola
distesa sulla sabbia fredda e soffice, egli credette di impazzire.
Non l’aveva mai vista più bella, nel suo vestito azzurro, la veste
dell’amore e della morte.
La prese fra le braccia un’ultima volta, la condusse
fino all’orlo delle acque e ve la depose. I flutti lambirono voraci
il suo volto, le sue spalle e i suoi fianchi. I suoi capelli
fluttuavano nell’acqua verdastra, nei suoi occhi il riflesso di
acque morte. La corrente la esortava a prendere il largo, lei voleva
seguirla, ma lui la teneva per mano e non voleva lasciarla andare.
Non gli era mai appartenuta. Era una creatura del mare,
non aveva nulla a che vedere con la terra, con il mondo degli uomini,
così saturo di violenza e dolore, intriso di sangue, fradicio di
morte.
Lasciò la sua mano e la rese alle acque.
Heinrich rimase a fissare il mare finché scomparve tra
i flutti. Sapeva di non aver più diritto ad alcuna compassione, ad
alcun misero avanzo di speranza, ad alcun futuro per i prossimi dieci
milioni di anni.
Lei ora apparteneva al mare.
La nave si dispose prua al vento e si diresse verso il
mare aperto. L’Olanda si allontanava mesta, oltre il giardinetto di
poppa, sepolta sotto una coltre di nebbia.
… non incrociar la rotta a un veliero
se dubbio v’ha d’abbordo pur leggero…
Il vento rinforzò e la nebbia si disperse, lasciandolo
avvolto nel blu totale del mare e del cielo, liquefatti in un
silenzio inevitabile, e onde invidiose vennero a infrangersi in
ventagli di spuma contro lo scafo.
Cosa avrebbe fatto una volta sbarcato in Inghilterra?
Cosa sarebbe stato di lui, della sua vita, nei numerosi anni a venire
senza lei?
… tu dagli eventi prenderai consiglio
pronto e sicuro in subito periglio.
D’un tratto, davanti a lui vi fu solo mare e silenzio
e ogni cosa gli fu chiara, come se avesse all’improvviso
riacquistato la vista, sottrattagli per qualche oscuro maleficio. E
il mare era ovunque, alla sua destra come alla sua sinistra, davanti
e alle sue spalle. Non si scorgeva più il profilo della costa, non
vi era più alcun segno di terra, l’Olanda era sparita. Come se non
esistesse più. Come se non fosse mai esistita. E la nave si arrese
all’amplesso delle acque infinite.
Era solo al mondo.
Avvertì il respiro salato del vento fra i capelli ed
era un’aria gentile, non minacciosa, né ostile, era un alito puro,
fresco e cristallino che penetrava nelle sue narici per farsi respiro
e vaporizzarsi di rimando nell’aria salmastra.
Heinrich portò le mani alle narici e inspirò
profondamente. Perfino in quel momento, sulla coperta della nave, in
mezzo al mare, poté sentire il suo odore sulla punta delle dita, nel
cavo delle mani si era impresso il suo profumo, esotico e dolce.
Chiuse gli occhi per poterla vedere ancora, per
smarrirsi ancora una volta nel suo sorriso, per vederla planare e
sprofondare, dolcemente, negli abissi.
(1) Il nome della nave, tradotto dall'olandese.
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