martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Capitolo XII






XII


La nebbia non volle saperne di diradarsi quel giorno.

Nel buio fitto, ai margini della notte, Heinrich tremava dentro il suo cappotto striminzito. La notte intabarrata in un manto untuoso si stendeva viziosa sulla coperta della nave nel più profondo dei silenzi. Un suono di sirena lacerò l’etere, funesto come l’annuncio della fine dei tempi. Heinrich si riscosse dal torpore. La nave profetizzava con infauste trombe di Gerico il distacco dalla terra.

La Redden sciolse gli ormeggi, la sua libertà improvvisa gli provocò turbamento. Un marinaio inciampò in una cima e maledisse le divinità del mare. Egli rise pensando all’ironia della sorte, all’ennesimo tiro che gli giocava un destino infido e perverso, che gli aveva fatto trovare sulla sua strada una donna bellissima, la rovina e una nave di nome Salvezza (1), proprio quando credeva di non avere più scampo.

In altri tempi, in altri luoghi, avrebbe potuto amare quella donna, come fosse la cosa più naturale del mondo. L’avrebbe potuta avere in moglie e vivere accanto a lei giorno per giorno e notte dopo notte, ma quelli non erano tempi adatti all’amore. Era il tempo dell’odio e del terrore, era il tempo di vite provvisorie appese alla punta delle baionette. Anni luridi e corrotti su cui la morte si strofinava il vello come una vecchia in calore.

La nave scivolava sulle acque calme, dentro un’atmosfera spessa e ovattata. La notte gravida impallidiva, molto vicina a concepire il giorno. Non era possibile intuire alcun moto, i motori brontolavano nel buio della sala macchine e il fumo saliva dritto dai fumaioli in un flusso d’inchiostro verso il cielo. Certo, poteva udire lo sciabordio dei flutti e intuire onde infrangersi contro la prua e le murate e anche permettersi l’illusione di avere la sua vita saldamente in pugno. Ma tutto questo non aveva alcun valore.

Non avrebbe saputo dire se stessero ancora vagando nella rada o avessero già guadagnato il largo. Nulla si muoveva in quell’alba buia e assurda, paralizzata in un arcano sortilegio. Decise di resistere al freddo che gli mordeva il viso e avanzò verso la prora. La nave era ingombra di casse ed egli si faceva strada a fatica fra contenitori dalle forme inusitate e scatole di ogni grandezza, ammassate alla rinfusa. Esistevano pochi dubbi, o almeno questa era l’impressione che ne aveva ricavato discorrendo con il signor Van Diemen, sul fatto che il comandante e il suo equipaggio fossero invischiati in bizzarri traffici con l’Inghilterra. Ma non era certo il momento di farsi troppe domande. Era già un caso fortunato che la lettera che preannunciava la partenza l’avesse raggiunto, e un miracolo che fosse sopravvissuto.

Raggiunse il punto più elevato, in cima alla prora e si mise a sedere sul cordame. Intabarrato nel suo cappotto, come un re senza corona in partenza per l’esilio, si dispose a piangere lacrime amare al vento e alle acque scure.

Perché l’avevano lasciato partire? Loro dunque sapevano, sapevano tutto, fin dall’inizio? Sapevano che era solo questione di tempo e avrebbe capitolato portando in dono il cadavere di Josefine? Perché non avevano preso anche lui?

In quel momento gli parve di scorgere un tenue chiarore all’oriente, la nebbia s’impreziosiva di gocce di luce dorata e, se i suoi occhi non lo ingannavano, stava per sorgere il sole. In breve, l’orizzonte e il mare, ovunque potesse spingersi il suo sguardo, avevano assunto la radiosa tonalità dello zolfo. Heinrich si sentì al sicuro, sicuro come mai era stato negli ultimi tempi.

Il comandante venne a portargli una tazza di caffè. I galloni cuciti sulle maniche brillavano nella penombra del castello di prora.

«Dove siamo?»

«Siamo in cammino» rispose l’ufficiale dietro i suoi baffi macchiati di nicotina. Nei suoi occhi scintillavano ondate miste di ironia e disprezzo.

«Lo sapeva lei, caro signore, che il nord della carta geografica non corrisponde affatto al nord indicato dalla bussola?»

«No, non lo sapevo, capitano» disse Heinrich con scarso entusiasmo. «E come si fa allora a non perdersi?»

«È semplice. Basta correggere la rotta del numero di gradi indicato sulla mappa, dal momento che la declinazione magnetica della Terra non è costante in ogni luogo» disse il comandante, grato della domanda.

«E sa qual è la rotta più breve fra due punti?»

«Quella che li unisce in linea retta.»

«Non è corretto, signore» disse il comandante.

«Ah no?» chiese Heinrich con straordinaria calma, ma dentro fremeva e avrebbe voluto dare una sonora lezione di arte nautica a quello spocchioso individuo. Decise tuttavia di contenersi per non destare sospetti.

«No, signore.» Il comandante represse un’evidente nota di disappunto. «Vede, la Terra è una sfera e per accorciare la rotta può essere conveniente seguirne la curvatura, puntando prima a nord e poi ridiscendendo a sud, se ci si trova nell’emisfero boreale, o viceversa, se si naviga nell’emisfero australe.»

Il comandante continuò ad aggiungere dati tecnici e a fornire spiegazioni sempre più accurate, ma egli si mostrò così poco interessato che ben presto si stufò e se ne tornò in plancia, lasciandolo solo all’aria pungente del mattino. Heinrich ripensò ai mesi passati a solcare i mari nella pancia d’acciaio di una nave, la sua chiglia affilata a fendere le acque del mondo.

Risponda rosso al rosso, verde al verde,

avanti pur, la nave non si perde…

Gettò un rapido sguardo all’acqua nera, nel punto in cui svaniva sotto lo strato di foschia. Niente da fare, la nebbia non voleva saperne di disperdersi e scivolava pigramente sulla superficie delle acque.

se sulla rotta rosso e verde appare,

mano al timone e tieni a dritta il mare…

La tazza era molto calda, se la rigirò fra le mani, finendo per scottarsi ugualmente. Affondò il naso nella cavità d’alluminio e l’aroma gli punse le narici. Gli tornò in mente l’odore del surrogato di caffè in altri giorni di freddo, così simili a quello che era appena sorto, quando il sole lottava per prevalere sulle ombre.

«Comandante, ha mai letto Conrad?»

Un’ombra si affacciò dalla passerella di dritta. «Conrad?»

Heinrich sospirò. «Lasci perdere. Non ha alcuna importanza.»

«Ma no, aspetti, or mi par di ricordare. Non ha forse scritto una guida al carteggio nautico?»

Heinrich stavolta non rispose.

La sua mente tornò a quei giorni così confusi, privi di spiegazioni, mancanti di ogni logica. Erano i giorni di un mai nato e malgrado ciò riteneva di essere stato fortunato, perché nulla sapeva e nulla poteva sapere. Negli anni che gli restavano da vivere non avrebbe goduto della stessa buona sorte. Perché ora ricordava tutto. La città indolente adagiata sulle acque e il buio e l’angoscia, gli scialbi mattini di Koningstraat, il Café De Vrjie dall’altra parte della strada, l’oscura camera d’albergo. E il dolore.

Ecco perché l’avevano lasciato andare. Il dolore. Era quella la sua condanna, era quello il suo destino. Il dolore era la linea d’ombra da attraversare.

Quella notte, aveva messo Josefine in valigia e in quella stessa valigia aveva rinchiuso anche il suo cuore. Aveva chiamato un taxi come un assassino qualunque e il conducente l’aveva aiutato a caricare il pesante bagaglio senza sospettare nulla. Si erano diretti al porto.

La nebbia e l’oscurità l’avevano per una volta favorito ed era riuscito a trascinarla fino all’acqua. Guardandola distesa sulla sabbia fredda e soffice, egli credette di impazzire. Non l’aveva mai vista più bella, nel suo vestito azzurro, la veste dell’amore e della morte.

La prese fra le braccia un’ultima volta, la condusse fino all’orlo delle acque e ve la depose. I flutti lambirono voraci il suo volto, le sue spalle e i suoi fianchi. I suoi capelli fluttuavano nell’acqua verdastra, nei suoi occhi il riflesso di acque morte. La corrente la esortava a prendere il largo, lei voleva seguirla, ma lui la teneva per mano e non voleva lasciarla andare.

Non gli era mai appartenuta. Era una creatura del mare, non aveva nulla a che vedere con la terra, con il mondo degli uomini, così saturo di violenza e dolore, intriso di sangue, fradicio di morte.

Lasciò la sua mano e la rese alle acque.

Heinrich rimase a fissare il mare finché scomparve tra i flutti. Sapeva di non aver più diritto ad alcuna compassione, ad alcun misero avanzo di speranza, ad alcun futuro per i prossimi dieci milioni di anni.

Lei ora apparteneva al mare.

La nave si dispose prua al vento e si diresse verso il mare aperto. L’Olanda si allontanava mesta, oltre il giardinetto di poppa, sepolta sotto una coltre di nebbia.

non incrociar la rotta a un veliero

se dubbio v’ha d’abbordo pur leggero…

Il vento rinforzò e la nebbia si disperse, lasciandolo avvolto nel blu totale del mare e del cielo, liquefatti in un silenzio inevitabile, e onde invidiose vennero a infrangersi in ventagli di spuma contro lo scafo.

Cosa avrebbe fatto una volta sbarcato in Inghilterra? Cosa sarebbe stato di lui, della sua vita, nei numerosi anni a venire senza lei?

tu dagli eventi prenderai consiglio

pronto e sicuro in subito periglio.

D’un tratto, davanti a lui vi fu solo mare e silenzio e ogni cosa gli fu chiara, come se avesse all’improvviso riacquistato la vista, sottrattagli per qualche oscuro maleficio. E il mare era ovunque, alla sua destra come alla sua sinistra, davanti e alle sue spalle. Non si scorgeva più il profilo della costa, non vi era più alcun segno di terra, l’Olanda era sparita. Come se non esistesse più. Come se non fosse mai esistita. E la nave si arrese all’amplesso delle acque infinite.

Era solo al mondo.

Avvertì il respiro salato del vento fra i capelli ed era un’aria gentile, non minacciosa, né ostile, era un alito puro, fresco e cristallino che penetrava nelle sue narici per farsi respiro e vaporizzarsi di rimando nell’aria salmastra.

Heinrich portò le mani alle narici e inspirò profondamente. Perfino in quel momento, sulla coperta della nave, in mezzo al mare, poté sentire il suo odore sulla punta delle dita, nel cavo delle mani si era impresso il suo profumo, esotico e dolce.

Chiuse gli occhi per poterla vedere ancora, per smarrirsi ancora una volta nel suo sorriso, per vederla planare e sprofondare, dolcemente, negli abissi.



(1) Il nome della nave, tradotto dall'olandese.




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