V
Dammerschlaft si svegliò, si guardò allo specchio e
non si riconobbe. Il portiere lo salutò con cordialità. Il suo
volto non era un mistero per gli altri. Strani giorni erano venuti e
molti altri attendevano fuori dalla porta. Avrebbe tanto desiderato
scrivere, fissare sulla carta i rari frammenti in chiaro, le schegge
di luce che si perdevano nella notte della sua coscienza. Ma non ne
era capace. I giorni erano sogni assurdi che evaporavano all’alba
in un florilegio di desideri assopiti. La sua vita era un volo
sospeso fra lucidità e follia.
Il bar era desolatamente vuoto, si accomodò al bancone
e ordinò un caffè. Mentre rovistava con il cucchiaino dentro la
tazzina, si sentì strano, ebbe caldo e freddo insieme, come se
avesse la febbre. Un tizio che non aveva notato, appollaiato su uno
sgabello all’estremità opposta del bancone, lo stava fissando.
Dammerschlaft distolse lo sguardo. Anche l’altro fece lo stesso. Il
mondo era un teatro. Forse l’uomo sullo sgabello si credeva
l’attore principale, ma si sbagliava. Quel ruolo era il suo.
Dammerschlaft lo guardò di nuovo e anche l’altro riprese a
fissarlo.
Quel tale lo osservava con attenzione discreta e
costante. Le sue occhiate erano rette spezzate dal pavimento al suo
volto. Dammerschlaft cercò di intercettare le linee della sua
curiosità, ma lo sconosciuto abbassò ancora una volta lo sguardo.
Non seppe decifrare la sua età, aveva una fisionomia molto comune.
Non aveva nulla di particolare e, in generale, non lo colpì in alcun
modo, se non per il fatto che se ne stava seduto come un sacco vuoto
sul suo sgabello.
Tuttavia, occhiata dopo occhiata, lo sconosciuto si
faceva più intraprendente, fino a che i movimenti dei suoi occhi non
furono più linee spezzate dalla sua faccia al pavimento, ma si
tramutarono in rette insostenibili, cariche di domande silenziose.
Dammerschlaft ebbe un presentimento, pagò e uscì.
Attraversò la strada e vide che l’altro lo guardava
dalla soglia. Passò davanti all’albergo e per precauzione tirò
dritto. Lo sconosciuto attraversò la strada e lo seguì. Sentì alle
spalle i suoi passi concitati e si strinse nel cappotto.
«Signor Dammerschlaft, aspetti signor Dammerschlaft.»
Dove aveva sentito prima quella voce acuta e sgradevole?
Dammerschlaft affrettò il passo. Anche l’altro. Presto l’avrebbe
raggiunto. Allora si mise a correre.
«Signor Dammerschlaft, si fermi per favore.»
Fecero il giro dell’isolato, ma la distanza fra loro
si allungò come una molla, tanto che a un certo punto non lo vide
più. Si fermò. Non c’era nessuno a inseguirlo. Ma fece per
voltarsi e se lo trovò di fronte. Erano talmente vicini che poté
sentire il suo odore, così vicini che si accorse che il suo volto
aveva qualcosa che non andava. Cacciò un urlo e l’altro si
spaventò. Dammerschalft ne approfittò per rimettersi a correre. Si
fermò solo alla fine del caseggiato, ma prima di svoltare l’angolo
si girò ancora una volta a guardare. Lo sconosciuto si era
appoggiato a un portone e cercava di riprendere fiato. Tentò ancora
di chiamarlo, ma dalla sua bocca uscì soltanto un rantolo, e allora
prese a fare grandi movimenti delle braccia.
Si sentì al sicuro fra le ombre della hall, anzi,
desiderò di essere trasformato su due piedi in una di esse, in una
macchia sulla tappezzeria, o sul risvolto della poltrona. E, perché
no, in un insignificante scarafaggio, a patto che fosse una
metamorfosi incruenta. Se fosse esistita una pillola per svanire dal
mondo, giurò su Dio, l’avrebbe inghiottita con avidità. Considerò
il modo in cui lo sconosciuto l’aveva guardato prima di scantonare.
All’inizio gli era sembrato uno sguardo minaccioso, ma poi gli era
parso che un’espressione afflitta e implorante fosse calata sul suo
volto. L’espressione di chi chiede aiuto.
Mentre saliva le scale a due a due udì dietro di sé il
saluto cortese e risoluto del portiere. Per la fretta non rispose, ma
sbagliò piano e fu costretto a ridiscendere guardingo le scale. Per
poco non sbatté contro il portiere che saliva, che lo salutò di
nuovo, alquanto sorpreso.
Rientrò in camera sudato e ansante, chiuse a doppia
mandata e si buttò sul letto. La stanza era ancora immersa nella
penombra. La luce opaca del giorno stendeva incerta le sue lunghe
dita fra le ombre. Era molto agitato. Non aveva mai visto quell’uomo,
non immaginava cosa volesse da lui. Lottò con se stesso per
convincersi che non era altro che un’allucinazione scatenata dal
suo io più profondo e indecifrabile: una creatura deforme dissepolta
dalle profondità abissali della percezione gli aveva urlato in
faccia il suo nome, come un delitto che non sapeva di aver commesso.
Qualcosa non funzionava bene in lui, ormai ne era certo.
Aveva la sensazione che il suo corpo fosse diviso a metà e che
ognuna di esse ignorasse l’esistenza dell’altra. Sentiva come se
una parte di sé gli si fosse rivoltata contro. Due distinte entità
lottavano cercando di sopraffarsi l’un l’altra ed egli era
spettatore inerme e silenzioso del dramma della coscienza che si
lacerava, dell’io che moriva lentamente.
Dammerschlaft trasalì.
Un’ombra più scura delle altre emerse dalle mura, si
stagliò sul fondo della stanza come un bassorilievo e la luce
tremula delle imposte ne accarezzò i contorni, tenui e lievi, con
tratti di matita in chiaroscuro. C’era qualcuno in camera.
I suoi occhi si adattarono alla luce spettrale del
mattino e misero a fuoco un’immagine singolare. Una donna
completamente nuda era seduta sul suo letto e gli sorrideva.
«Heinrich, caro, dove sei stato?»
«Ho creduto di sognare e che nel sogno tu mi
abbandonassi. Mi sono svegliata nel letto vuoto e temevo che fossi
fuggito.»
Non lasciarmi mai più.
Dammerschlaft credette di impazzire. I suoi sensi
accettavano pacificamente quella presenza e non seppe spiegarsene il
motivo. Ma il suo cuore no, il suo cuore batteva forte e gli
percuoteva il petto con gli zoccoli d’acciaio sfavillante d’un
cavallo imbizzarrito.
Non ti muovere, ti voglio guardare.
Ti ho ammirata a lungo, ma tu non mi appartenevi.
Resta così, non aprire gli occhi, sei così bella.
Aveva già assistito a quella scena, aveva già sentito
quelle parole, ne era sicuro. Un dio stravagante e crudele si
divertiva a far andare avanti e indietro il tempo a suo piacimento.
Rimescolava la sua vita con la destrezza di un giocatore di carte che
scozzando il suo mazzo sovverte i destini di fanti e regine.
Una nuvola velò il già fragile chiarore. Gli parve che
il dolce sorriso che animava quel volto appena abbozzato dal gioco di
luci e ombre trasfigurasse nel vano stridore di denti di una creatura
terrificante. Il ghigno di un teschio che lo fissava da orbite vuote.
Fu solo un istante, un lampo nel buio, ma gli parve insopportabile.
Presto la luce riprese vigore, il sorriso tornò a fiorire sulle
belle labbra damascate in arabeschi ombrosi e la vita germinò di
nuovo su quel viso, come un fiore che sbocciava in suo onore.
Avvertì la sensazione, molto viva e lucida, per quanto
assurda, che alla sua vita mancassero ore, giorni, forse mesi, e che
di essi fosse rimasta soltanto un’eterea impressione, come di
notte, la scia fosforescente dalla poppa di una nave.
Frammenti di vita finiti chissà dove.
Il suo cervello stava andando in avaria. Forse una
malattia rara mostrava i primi sintomi. Forse stava morendo. I
neuroni si spegnevano uno dopo l’altro come stelle nere. Si
rassegnò a una notte senza fine.
Dammerschlaft si stropicciò gli occhi e strinse le
palpebre finché non gli fece male. Poi le riaprì. Lei c’era
ancora, stava seduta sul letto, perfettamente salda nella sua nudità
e gli sorrideva. Il ventre palpitava lieve e i seni si sollevavano e
si abbassavano sulle onde del respiro.
Chi era quella donna?
Non l’aveva mai vista prima, eppure era sicuro di
conoscerla. I contorni sfumati dalla delicata luce del mattino, la
curva morbida dei suoi fianchi, la massa scura e frastagliata dei
capelli e il vuoto trasparente e vacuo delle iridi. Sentiva nel
profondo del suo cuore che tutto questo gli apparteneva.
Gli girava la testa. Sapeva già di amarla, di amare
perdutamente quella donna sconosciuta. L’amava come si amano le
donne che non si possiedono, le donne sfuggenti, che sanno liberarsi
dalla morsa del nostro abbraccio e non tornano più.
Forse quello che stava vivendo era un giorno qualunque,
un giorno a caso nella vita di uno dei tanti Heinrich Dammerschlaft
nelle infinite dimensioni parallele dell’universo. Lo stesso
maledetto giorno, incastrato negli ingranaggi del tempo, si ripeteva
identico in tutti quei mondi così distanti. La sua psiche si stava
disgregando, il suo io si frammentava e disperdeva in miliardi di
schegge, ognuna delle quali si credeva un’entità distinta e
senziente.
Ma entrambe le spiegazioni portavano alla stessa
domanda: chi era Heinrich Dammerschlaft?
Senza alcun preavviso, il chiarore del giorno dissipò
le ombre e la tenue figura scomparve, si dissolse nella grigia luce
di una tardiva primavera ed egli non seppe dire in seguito se
l’avesse soltanto sognata.
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