Ho terminato di leggere Né qui né altrove di Gianrico Carofiglio. E’ un libro che mi sento di consigliare a tutti, almeno a quelli che credono di conoscere la propria città, o il luogo in cui vivono, ma che qualche volta si sono persi nelle vie che credevano familiari, in una notte di nebbia o fuori dal tempo, proprio come l’unica, interminabile notte che coinvolge l’autore, insieme a due vecchi amici ritrovati per caso e che io accosto, per carattere e intensità, al notturno ritorno a casa del Leopold Bloom (dall’Ulisse) di James Joyce. Certo, è strano accostare Bari a Dublino, ma credo che sia Joyce, che Carofiglio abbiano amato e amino profondamente la città in cui sono nati e vissuti, i cui confini sono segnati dal mare e ne abbiano conosciuto alla perfezione i mille anfratti.
“Ho sentito di molti che si sono smarriti persino nelle vie del loro paese, quando l’oscurità è così densa che la tagli con un coltello, come si suol dire…” diceva Henry David Thoreau nel suo Walden.
Le strade, i palazzi, le prospettive che credevi di conoscere alla perfezione di giorno, di notte si scompongono in migliaia di frammenti sparsi nella memoria, sminuzzati in un caleidoscopio emotivo, come tessere di un puzzle che è arduo comporre. Di notte, la memoria esplode in miriadi di schegge luminose e brucianti come frammenti di fuochi d’artificio e si disperdono nelle ombre delle strade, nei mille recessi nei quali ci si può smarrire per sempre. In frammenti interminabili della notte, quando il tempo sembra incepparsi e arrestare il suo corso e le mille supposizioni sulla piega che avrebbe potuto prendere la nostra esistenza prendono il sopravvento e non si comprende più se quello che stiamo vivendo è davvero la realtà o solo frutto dell’immaginazione. Notti così vengono solo quando soffia vento di mare, oppure, quando s’incontra per caso un vecchio amico dopo tanto tempo, un amico che avevamo perso di vista, quasi dubitavamo che fosse davvero esistito e ci chiedevamo se, per caso, il suo volto sbiadito dal tempo non fosse tornato a confondersi nella folla delle nostre conoscenze. E i ricordi e la realtà si confondono a tal punto da non saper più affermare con certezza, cosa è davvero accaduto e cosa è, invece, solo frutto dell’immaginazione.
Credo che non leggerò i romanzi legal thriller di Carofiglio, quelli con protagonista l’avvocato Guerrieri, ma solo perché non sono il genere di libri che leggo usualmente. Né qui né altrove, invece, è stato per me un tocco di umanità vera e inaspettata, proveniente da Sud. Io lo accosto a un altro bel libro di cui avevo già parlato su questo blog, Non ora, non qui di Erri De Luca. Sono due volumi che potrebbero stare tranquillamente in coppia, hanno quasi lo stesso titolo, che è la metafora dell’esserci e del non esserci, allo stesso tempo, il tempo del Meridione e sono stati scritti da uomini del Mezzogiorno, che sanno bene cos’è il mare e quanto pesa la partenza di un amico che, probabilmente, non rivedremo mai più. Questi libri rappresentano egregiamente le mie origini, sepolte nei meandri della mia anima vagabonda.
De Luca parla con la lingua di mio padre, il napoletano, il dialetto dei pescatori e dei contadini, l’idioma degli emigranti e dei camorristi e quindi, idealmente si situa a occidente, a Napoli e dintorni e il suo mare è il Tirreno.
Carofiglio si esprime, invece, nella lingua della mia patria nativa, Bari, da dove si può spaziare lo sguardo a Levante, all’Adriatico meridionale, e più oltre, fino al Montenegro, all’Albania, alla Grecia e all’Epiro e respirare l’aria esotica e odorosa di polvere delle terre in cui sorge il sole. Ma non si può dimenticare di avere alle spalle quell’entroterra, che per me è il Meridione per eccellenza, le Murge, terra antica, terra amara, ma solida e concreta, il luogo in cui la Puglia si congiunge alla Basilicata, o Lucania, come si chiamava una volta e dove spesso la realtà si trasforma in leggenda e mito.
Io sono nato a Bari, ma sono andato via che ero molto piccolo, avevo poco più di tre anni. Leggere Né qui né altrove è stata l’occasione per recuperare quella “baresità” che mi mancava, che non avevo vissuto, ma che, tuttavia, intuivo esistere in me, a livello più o meno inconscio. Il libro è stato fondamentale per recuperare le mie radici pugliesi e levantine, di uomo di mare a metà, incompiuto, schiacciato tra la terra e il cielo di altri luoghi lontani e antitetici, che la sorte mi ha assegnato in patria.
L’età alla quale appartengono i ricordi di Carofiglio è la stessa dei miei primi anni di vita. Appunto quei tre anni di cui parlavo, la mia mitica età dell’oro, densa di scoperte e segnata delle mie prime prodezze. Io ho aperto gli occhi a Bari, la prima manciata d’aria che mi ha squarciato i polmoni con dolore era vento di mare, lì ho pronunciato le mie prime incomprensibili parole, sempre a Bari ho mosso i miei passi incerti e sono stato battezzato nella basilica di San Nicola, come ogni barese che si rispetti.
E sono fiero di esserlo.
Bari è una città di mare e inaspettatamente, proprio i ricordi del mare sono esplosi nel mio racconto “L’alieno” (che ho pubblicato nella raccolta L’impero del vento). Il mare dei miei ricordi è proprio l’Adriatico meridionale, il mare di Bari.
La scrittura di Carofiglio mi ha preso e mi ha fatto molto incuriosire. Ma ho dovuto chiedere a mia madre di prestarmi i ricordi che non avevo, perché a parte il mare, il palazzo in cui abitavamo in Corso Sicilia e alcuni particolari della strada, non mi ricordo d’altro. Ho chiesto a mia madre e lei mi ha dato le sue memorie, di prima e dopo la mia nascita e ho scoperto che ci muovevamo insieme, all’inizio dentro al suo sacco uterino, poi tra le sue braccia o in un passeggino traballante, o più avanti, quando fui in grado di camminare, mano nella mano, negli stessi luoghi del libro, la Pineta, il faro di San Cataldo, il Castello svevo, il quartiere murattiano, il quartiere Libertà, il Teatro Petruzzelli, il Gran Cinema Oriente, l’aeroporto di Palese, dalla cui strada perimetrale mi portavano a vedere atterrare e decollare gli aerei, il lungomare, i giardini di Piazza Isabella d’Aragona.
Tutti questi luoghi, ogni angolo, ogni prospettiva, erano per noi (per me infante, ma per mia madre, molto di più) “il punto di fuga verso un infinito pieno di promesse”, come dice l’autore. Ma per correre verso l’infinito e raccoglierne le promesse, o almeno tentare di farlo, occorrono due cose, la paura e il coraggio, “che se non vanno insieme non valgono niente. Né l’una né l’altro”.
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