Lei non viene. Non conosce la strada per la porta
del cuore. Lei non viene. Non possiede la chiave per la porta del cuore.
Custodisco il sorriso dell’attesa, lo conservo, per fargliene dono, se dovesse
arrivare.
Eravamo corpi paralleli, separati dalla luce e dalle
ombre. Eravamo corpi che non si conoscevano, che restavano distanti e separati.
Eravamo corpi opposti, in antitesi.
Anti – corpi.
Le braccia si allungavano, le mani si avvicinavano,
cercando un contatto. Bruscamente si ritraevano, senza essersi sfiorate, quasi
avessero avvertito un ribrezzo improvviso. Come se intuissero il freddo
all’interno dei corpi, il gelo dentro i cuori. Eravamo morti.
Era spaventoso.
I corpi sono ora obliqui, le teste vicine, ma gli
occhi non si vedono. La sua è una bellezza simmetrica. E’ come osservare il mio
corpo riflesso allo specchio. Le teste si voltano, lentamente, non nello stesso
istante. Prima l’una, dopo l’altra. E la bocca va a raggiungere l’altra bocca,
ma gli occhi no. Gli uni non si specchiano negli altri. Restano chiusi,
serrati, sotto una cecità imposta dall’orgoglio e dall’imbarazzo. Sento il
respiro vicino al mio, uguale al mio. Regolare, rassicurante. Il fiato.
Tiepido, tenue, umido. Denti mordono labbra in attesa. Labbra si ritirano dai
volti, come maree prima di uno tsunami. Scoprono tesori nascosti, perle
incastonate in sorrisi inevitabili. Profezie di lingue vagano, tracciando
contorni conosciuti.
Copro il suo corpo con il mio, come una coperta
pesante per l’inverno, come un sudario. Come un’ombra. Il suo corpo confina col
mio. Le nostre membra intrecciate sono radici che affondano nella terra nuda e
suggono linfa vitale per i nostri corpi liquidi. Siamo reclusi in un cono di
luce, prigionieri di noi stessi. Per sempre. Rinchiusi, intrappolati tra
l’ombra e l’ora, segregati, esiliati in un luogo inaccessibile, tra il letto e
il destino, che esiste solo nei sogni.
O nei peggiori incubi.
Mi guarda, non mi vede. Avverto i suoi occhi
addosso, li sento trapassarmi come stiletti acuminati. Senza fermarsi, il suo
sguardo passa oltre e va a sondare la nudità e il vuoto della stanza.
Desolazione e deserto. Odore della notte. E’ questo il momento, l’attimo, il
secondo, quando la tenebra sa di volgere al termine, di avere oltrepassato il
suo equatore. Il cuore della notte e il cuore del giorno.
Il suo punto di non ritorno.
In quell’istante ho capito che avevo cominciato ad
amarla. In quell’istante ho capito che avevo cominciato a morire.
Il mio punto di non ritorno.
Distoglie lo sguardo. Non sono più sotto i
riflettori. Chiude gli occhi. Apre le gambe. Sono fermo sulla riva del mare. Il
sesso percorre una strada conosciuta. Dentro lei. Fuori piove. Il rumore della
notte giunge a noi dal filtro delle mura, il buio è fuori, oltre le finestre,
cieche e sbarrate.
Il buio è dentro di noi.
Ricordiamo danze antiche e movenze dimenticate. Ritmi
che vengono da altre epoche e da altre notti remote. Come questa che finisce.
Come vita che volge al termine e si inabissa nel lago spento della morte.
Piange. Sommessamente, come un canto. Piange. Di un
dolore semplice, smarrito e ritrovato. Piange. A occhi chiusi, di una felicità
che fa male, perché le è ignota. Piange, perché piango io.
E’ ancora buio là fuori, oltre il baluardo delle
mura, oltre il confine delle nostre ombre. Piove a dirotto. Notte e pioggia
cadono insieme, rigurgitate dalle nubi, inghiottite dalla terra avida,
assetata. Le nubi cantano con la loro voce greve. Tramonta la luna, figlia
della notte. Fuori piove.
Nella nostra stanza risplende il sole.
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