O marciano encontrou-me na rua e teve mèdo
de minha impossibilidade humana. Como pode existir, pensou consigo, um ser que
no existir poe tamanha anulacao de existència?
Il
marziano mi ha incontrato per strada e si è spaventato della mia assurdità di
umano. Come può esistere, ha pensato fra sé, un essere che nell’esistere ripone
un così grande annullamento dell’esistenza?
(Science
fiction, Carlos Drummond de Andrade)
Il
disco si posò al centro della radura. Lucida sfericità di un metallo puro, primordiale.
Incuriosito, buttai a terra la bici e mi avvicinai. Non avevo paura, non
provavo nulla, non sentivo niente di niente. Ero soltanto incuriosito. Punto.
Dalla
strana macchina veniva un brusio. Non era un rumore solo, era come una
sovrapposizione di tanti rumori della medesima frequenza. Come un ronzio
d’alveare.
Mi
avvicinai fino al punto di scorgere i particolari della strana apparizione.
Nascosto dietro un cespuglio, mi accorsi che la superficie non era affatto
levigata come mi era sembrato in un primo momento, ma costellata di segni
strani e arcani come geroglifici dell’antico Egitto.
Il
disco smise di ronzare e s’innalzò nell’aria quieta della sera un dispositivo
simile a un periscopio, che con un mesto cigolare prese a scrutare la campagna
tutt’intorno; finalmente, si ritrasse e si aprì una botola su una torretta che
sovrastava l’apparecchio, simile a quella dei sommergibili.
Ne
venne fuori un omino buffo e curioso, vestito di verde e con un cappello a
punta sulla testa. Lo strano essere saltò giù dal disco con una grazia e
un’agilità inaspettate.
Uscii
dal cespuglio e mi avvicinai. Il timore, se mai ne avevo avuto, era scomparso.
Lo stravagante personaggio mi vide e si avvicinò. Non sembrava affatto un
essere che aveva attraversato le galassie, un’entità superiore proveniente da
distanze spaventose. Il tipo al cui cospetto mi presentai, pareva più un
folletto delle antiche leggende.
Sorrise
– descrivo così una deformazione del suo volto che interpretai come tale – e si
sprofondò in un inchino degno d’altri luoghi e altri tempi.
“Buonasera”
dissi non sapendo cosa dire, rendendomi subito conto che era la parola più stupida
e banale che potessi pronunciare. Ma sfido voi. Cos’avreste detto così, su due
piedi, a un abitante di un altro mondo?
Il
suo viso divenne serio, la deformazione svanì.
Scosse
la testa e allungò una mano verso di me. Anch’io feci lo stesso. Toccai la
punta di una delle sue dita - ne aveva ben sei - e avvertii una vibrazione, una
sorta di scossa elettrica. A dire il vero, qualcosa provò anche lui, perché
rabbrividimmo nello stesso istante. Allora il suo viso tornò ancora a
deformarsi. E anche il mio.
“Buonasera”
ripetei “E… benvenuto sulla Terra.”
“Liximini
omyn gag aquìk.”
“?”
“Yvot
krah kwolf djyab!”
Nessuno
mi aveva parlato così prima d’allora. Non capivo se mi stesse rivolgendo un
indirizzo di saluto oppure, come sospettavo dal tono della sua voce, un’invettiva
o qualcosa di simile. Mi parve che una tempesta di emozioni contrapposte si
stesse scatenando nel mio cervello e una sorta di distonia emotiva s’impadronì
di me. Dinanzi a lui mi sentii difettoso, debole, inadeguato. E rimasi
interdetto.
L’omino
se ne accorse e alquanto spazientito, mi prese per mano e mi condusse sotto il
disco.
L’apparecchio si reggeva su tre
zampe telescopiche, la superficie inferiore dello scafo aveva un colore
rivoltante, come il nauseabondo addome di un insetto a zampe all’aria e mi
vennero conati di vomito. L’extraterrestre sfiorò in un punto preciso la
convessità del disco e, come per magia, un portello che sembrava non esserci si
aprì e ne venne fuori un groviglio di tubi, giunzioni, cavi e valvole. E anche
del fumo nero. L’omino estrasse da una tasca della sua tuta verde d’Irlanda una
specie di cacciavite a tre punte e prese ad armeggiare in mezzo al ciarpame.
Ne estrasse, dopo qualche tempo, un cilindro
argenteo e me lo mostrò. Lo presi, ma mi scottai subito le dita, la punta
dell’oggetto metallico era bruciacchiata. Me lo rigirai più volte fra le mani e
lo esaminai a fondo. Sembrava qualcosa di molto familiare.
“Tutto qua?” dissi “Ti si è bruciata
una candela?”
L’omino sorrise, al modo suo.
Non
v’era altro tempo da perdere. Inforcai la bicicletta e mi misi a pestare sui
pedali verso il paese più vicino.
La
notte giunse improvvisa, tetra, sepolcrale. Quasi non vedevo la strada del
ritorno. Ma l’omino in verde era ancora là ad attendermi. Impaziente, misurava
a grandi passi la circonferenza del suo disco e, a giudicare dal solco
nell’erba intorno all’apparecchio, doveva averla calcolata diverse volte
nell’attesa del mio ritorno. Ma avevo quello di cui aveva bisogno.
Prese
la candela nuova con furia, quasi me la strappò dalle mani e se l’avvicinò agli
occhi di un verde sconosciuto a questa terra.
“B…
o… s… c…” prese a sillabare.
“E’ anche
il nome di un pittore” aggiunsi e mimai nel vuoto la forma di un quadro, ma mi
guardò senza comprendere e con una scrollata di spalle avvitò la candela nuova al
posto di quella bruciata. Si allontanò di qualche passo e si mise a osservare
da lontano il congegno, come si ammira un capolavoro. Lo raggiunsi anch’io e guardai.
Meraviglia
delle meraviglie, ora il marchingegno che prima era un groviglio inestricabile di
tubature, cavi, valvole e altre diavolerie incomprensibili era una macchina
ordinata e perfetta. Nelle sue linee traspariva l’armonia delle alte
intelligenze che l’avevano progettata e costruita.
Dal
caos al cosmòs con un giro di
cacciavite.
Era
il momento di ripartire. Io, impacciato, al modo terrestre, lui, sicuro, al
modo extraterrestre, in qualche modo ci stringemmo la mano. E risentimmo
entrambi quel breve fremito, quella sorta di energia che ci aveva pervaso le
membra al principio del nostro incontro.
E
non credetti ai miei occhi. Quello strano essere arse di luce. Trasfigurò in
una fiamma scarlatta che ardeva sopra la sua testa e illuminava l’oscurità
circostante. Stava ridendo, rideva e rideva, al modo suo, e non si fermava più.
Saltò
agilmente a bordo e richiuse la torretta da sommergibile. Da qualche parte,
all’interno del disco, l’omino dovette aver azionato qualche comando e infatti
l’apparecchio si animò e prese a vibrare, dalle sue viscere di metallo si
risvegliò l’alveare e ronzando, si apprestò a librare nel cielo.
Lo
guardai con ammirazione.
Il
disco si sollevò sul bosco, il suo volo era salutato dal fruscio del vento fra
gli alberi. Sfiorò le cime delle colline, le superò e si allontanò in un guizzo
di luce nelle tenebre.
Io
non so parlare.
Non
ho mai le parole giuste al momento giusto. Quelle appropriate mi vengono sempre
nei momenti sbagliati, quando è troppo tardi.
“Aspetta
amico” avrei voluto dirgli “Aspetta. Non ti ho parlato della profondità della
mia solitudine, della vastità dei miei silenzi, dell’immensità della mia
disperazione.”
Allargai
le braccia alla notte, allo stormire del vento tra le foglie, ai raggi di luna
che danzavano sulle ruote della mia bicicletta, facendole sembrare d’argento
vivo.
“E
tu cosa provi? Non ti senti mai solo, rinchiuso nel tuo disco di metallo a
solcare cieli neri ricamati di stelle, non provi mai questo vuoto nel cuore? Non
hai mai paura del buio, del nulla, di te stesso?”
Ma
era troppo tardi. Stavo parlando agli usignoli, alle colline, alle stelle.
E le
stelle non risposero.
“Addio,
amico mio.”
Nella
valle inondata dalla luce della luna ero rimasto solo. Le allodole gemevano, le
capinere singhiozzavano, io tacevo. Mai più avrei rivisto quell’essere di luce.
Mi
rifiutai di credere per molto tempo a quell’apparizione. A quarant’anni e
qualche acciacco sono ormai ben poche le cose in cui credo. Ma l’incontro con
quella strana creatura aveva prodotto un singolare cambiamento in me.
Fino
ad allora mi ero considerato una persona piena di sensibilità. Ma essere
sensibili non è un buon affare, è come andare in giro per il mondo senza la
pelle addosso. Ogni cosa fa male, ogni cosa ferisce e penetra a fondo. Il mio
animo era permeato da un’ordinaria idiozia e dabbenaggine, ero stato una sorta
di dostoevskjiano idiota.
Fino
ad allora.
Non
mi ero reso conto della mia impossibilità umana, del mio non esistere, del mio
non voler esistere. Ero come un mai nato, non sapevo nulla. Non sapevo vivere.
Devo essere parso un personaggio molto singolare e perfino paradossale all’amico
venuto dallo spazio. Un essere vivente che non sa vivere.
Fino
ad allora.
Era
giunto il tempo di riprendere saldamente in pugno le redini della mia vita. Ero
stato in panchina per tutta la partita. Mi sentii come la riserva che diventa
titolare. Ed ero finalmente pronto a giocare.
E
questa è la storia che volevo raccontare. O è tutto vero, o è tutto falso.
Oppure, in parte vero e in parte no.
E
questa, parola mia, è la verità.
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ANGELO MEDICI
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