Lei
aprì gli occhi e si svegliò. Non fu proprio un risveglio, fu più un perpetuarsi
del sonno alla luce del mattino. Una sorta di dormiveglia silente ai margini di
un sogno. Lui se n’era andato molto prima, durante la notte, abbandonandola
come un ferito su un’autostrada qualunque.
La
stanza era molto silenziosa. Si levò completamente nuda, ordinò un caffè alla
concierge e s’infilò in bagno. Era bellissima. I suoi lunghi capelli neri le
ricadevano ondeggianti sulle spalle, come un fiume d’inchiostro, il suo volto
era pulito, nonostante la nottata di veglia forzata. Raccattò i vestiti sparsi
sul pavimento di moquette, non uno era finito sulla poltrona o sulla sedia
accanto al letto, tanta era stata la frenesia del denudarsi. A ogni modo
ritrovò tutto, o quasi, si vestì, aprì la porta e la richiuse dietro sé. Mi
accorsi che uno dei suoi orecchini era rotolato sotto il letto.
Rimasi
solo, non so per quanto. La luce del mattino dipingeva striature grigiastre
sulla mia pelle, cominciai a provare freddo e a sentirmi terribilmente solo.
Poco
dopo sentii la chiave infilarsi nella toppa e la porta si aprì. Entrò una donna
corpulenta, dal seno enorme. Mi accorsi che non si era depilata le gambe.
Alcuni peli si affacciavano dal bordo dei gambaletti che faceva capolino sotto
la sua gonna stretta. Ebbi un moto di ribrezzo. Riassettò la stanza e aspirò la
polvere, poi si trattenne a lungo in bagno, imprecando e ansimando. Forse era
molto sporco e vi era disordine. A volte accadeva. Finalmente uscì, si asciugò
la fronte e prese a occuparsi di me. Mi sprimacciò ben bene, mi lisciò più
volte la pelle e mi distese sul letto. Poi se ne andò.
Io
rimasi ancora solo. Tutto quello che potevo fare era osservare le mosche che
volteggiavano sul soffitto. Non so dire quanto tempo trascorse, l’orologio alla
parete era fermo da un pezzo e a nessuno era venuto in mente di cambiare la
batteria. La luce nella stanza ebbe un fremito, vibrò come se stesse per
estinguersi, poi mutò in un caldo arancione. Giudicai dall’intensità del colore
che fosse giunto il tramonto. Un ardente cremisi si spandeva sulle candide
balze del letto, sulla mia pelle chiara e sulle pareti bianche, abbacinanti
come la neve. Provai una piacevole sensazione di calore e mi sentii bene.
Ma
non feci in tempo a rallegrarmene che la porta si aprì di nuovo ed entrò un
signore dal volto stanco. Si tolse il cappello, depose le scarpe allineandole
rigorosamente ai piedi del letto, si svestì e si coricò. Sentivo l’aroma
dolciastro del suo deodorante da quattro soldi, che non attenuava l’odore
pungente delle sue ascelle né il puzzo dei piedi. Per giunta, la sua barba
ispida e riottosa grattava la bianca tela della mia pelle. Non ne potevo più.
Si
addormentò di botto. Doveva essere un viandante molto stanco, come se il suo
viaggio fosse iniziato ai confini dell’eternità, ma quel torpore non lo catturò
a lungo. Il sonno delle persone sfinite non è duraturo. Infatti, si svegliò e
prese a voltare la testa di qua e di là cercando una posizione comoda. E ogni
volta che girava il capo, la sua barba irsuta mi feriva. Ma invano si voltava e
si rivoltava, il sonno non voleva riprenderselo. Evidentemente anche Morfeo ne
aveva abbastanza di quel tizio. Per mia fortuna, molto prima dell’alba, si levò
e si mise al tavolino a scrivere. Scriveva a testa bassa, con la giacca sulle
spalle, accendendo una sigaretta dopo l’altra.
Scriveva,
scriveva e scriveva, gettava il foglio pieno di una scrittura fitta e irregolare
quasi con rabbia quando l’aveva terminato e subito ne strappava un altro dal blocco
di carta da lettere a disposizione degli ospiti. La luce dell’alba illuminò una
distesa di fogli, egli stesso ne fu sorpreso, me ne accorsi da come rabbrividì.
Credo che non provasse il freddo dell’aurora, ma un gelo più intenso e
micidiale, un freddo che nessuno poteva estirpare.
Io
lo conosco quel freddo.
Egli
si rivestì in fretta, raccolse i fogli, l’infilò nella valigia e uscì. Ma non
tutti i fogli aveva preso, uno era rimasto sotto il letto, proprio accanto
all’orecchino.
Fui
di nuovo solo, ma non ne fui afflitto. Gustai la pace e il silenzio del mattino,
non mi dispiaceva star da solo. A volte passavo giorni interi completamente
solo, a volte i giorni diventavano settimane, senza la presenza di un essere
vivente nella stanza. Ma a questo ero abituato.
Di
solito in quei tempi dilatati dal silenzio riflettevo sul mio passato. Un tempo
ero puro, candido come la neve. Ora no, dopo tutti questi anni, il mio colore
somiglia più a quello della neve sporca.
Finalmente
la porta si aprì. Entrò ancora l’inserviente che invase la stanza con il suo
solito rituale, segno che doveva arrivare qualcuno.
Con
mia somma sorpresa, scoprii che era il viaggiatore insonne del giorno prima. Lo
riconobbi senza indugio, la stessa barba non rasata, gli stessi occhi divorati
dalla stanchezza, la medesima pesantezza delle palpebre. Solo un’aria più tragica
e disperata. Si buttò a sedere sul letto e si prese la testa fra le mani.
Perché
sei tornato, cosa ancora ti trattiene qui?
Sensi
di colpa inafferrabili come fantasmi? O un’altra occasione perduta?
Il
tuo cuore palpita di una pesantezza che non riesci a decifrare. Dì la verità. Ti
stai mangiando le mani; cosa non daresti per riavvolgere il nastro, per far
scorrere all’indietro le lancette del tempo?
Hai
ritrovato il foglio perduto, accanto ad esso hai scoperto anche l’orecchino, il
suo orecchino. Gliel’avevi regalato tu, ricordi? Lo stringi fra le dita e una
lacrima solca il tuo volto disperato. Lei è stata qui, prima di te, con qualcun
altro. Senti il suo profumo ovunque, mescolato all’odore dell’altro. Il dolore
è una voragine in cui sprofonda il tuo cuore, un buco nero che risucchia le
stelle.
Non
sei riuscito a strapparla dalle braccia dell’altro, non sei riuscito a salvarle
la vita né tu a salvare la tua.
Ora
apri la valigia e un riflesso metallico attira la mia attenzione. Appoggi
l’oggetto sul cuscino e io rabbrividisco al contatto con il gelido acciaio.
E’
una pistola! Cosa accidenti vuoi fare?
Una
detonazione per tutta risposta, l’odore acre della cordite si spande per la
stanza e cadi riverso sul letto, abbandoni la tempia lacerata sul cuscino. Da
un piccolo foro pulsa ritmico uno zampillo di sangue. Poi più nulla. Sei
immobile, il tuo volto esangue ha il mio stesso colore. Anzi, aveva il mio
stesso colore.
Perché
io non sono più bianco come la neve vergine, io sono vermiglio, sporco di
sangue. Destino crudele per un cuscino. Il sangue è difficile da smacchiare.
Ora sicuramente mi butteranno via. Così, insieme a te, sono morto anch’io.
Scende
la sera.
Fuori il mondo si addormenta sotto una
coltre di silenzio. Fuori il mondo ha cessato di esistere. La neve cade e lo ricopre
di un candido, pulito e uniforme colore.
Bianco.
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ANGELO MEDICI
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