C’erano, se ci sono ancora non lo so
più, dei bar in cui tutto era familiare, il barista e la moglie che
accoglievano rosei e sorridenti gli avventori, la lucida esposizione dei
liquori con nomi di altri tempi, Vermuth, Fernet Branca, Amaro Giuliano,
Vecchia Romagna… (chi è che beve più queste cose?), l’odore del caffè, la luce
gialla e calda nelle serate d’inverno… Entri, ti scrolli di dosso il freddo e
sei come a casa.
Casa, ecco la parola giusta, quando
entravo in quei locali mi pareva di essere a casa. Non a casa mia, certo, ma a
casa loro, di quegli osti burberi ma buoni come il pane, benevoli, spesso
baristi improvvisati, poco avvezzi alla gente, ancora con i calli sulle mani e
nella schiena la fatica dei campi, e le loro donne dietro il bancone, floride e
sorridenti, familiari e rassicuranti come vecchie zie.
Ecco, a me sembrava di entrare in casa
loro, come se il bar o l’osteria fossero propaggini, prolungamenti, estensioni
della loro stessa casa e, infatti, a volte si sentiva, sopra il puzzo delle
sigarette, l’aroma del brodo che cuoceva sul fuoco, di là del muro.
Appena dall’altra parte.
I caffè di una volta con tavolini e sedie sono stati soppiantati dai bar americani con bancone (bar, barra, bancone).
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