sabato 16 marzo 2019

Di luce e d'ombra - Una ragazza di campagna




Era distesa all’ombra. Luci colorate tremolavano sul suo vestito bianco. Il suo sguardo assente vagava lontano, oltre profilo dell’orizzonte, spezzato dal crepuscolo. Le sue mani distese, giacevano come abbandonate sul suo grembo, le sue preziose mani, dita affusolate, unghie perfette, venate di azzurro e di verde su candido alabastro.

Il sole era tramontato da poco. Una vaga luce rossastra resisteva sulla linea dell’orizzonte e pervadeva la sommità degli oggetti, i profili e le forme di sfumature cremisi, porpora, sanguigne. Si era nel punto del giorno in cui la luce si congiunge alle tenebre e si arrende, vinta.

Sedeva in silenzio, in un tenue abbandono, simile al sonno, avvolta dalla morbida linea d’ombra che avanzava a mano a mano che scendeva la sera. Era immobile come una statua marmorea in un mausoleo orlato di tenebre, sola come un’ombra in una casa disabitata.

I suoi occhi tremolavano. La luce del sole morente conferiva loro sfumature blu cobalto, indaco, pervinca e quasi viola. Erano occhi grandi, immensi, infiniti. Si sarebbe detto che piangesse per quanto erano intensi e vividi. Si sarebbe detto che le sue mani tremassero per quanto erano bianche e delicate.

Il chiarore soffuso della sera si attenuava e si andava smorzando in una brillantezza diffusa, crepuscolare, lattiginosa. Bianco sporco, come neve, ammantava la superficie di ogni cosa. Bianco sporco, come il suo vestito, avvolgeva ogni cosa, tono su tono, sfumatura dopo sfumatura.

La sua bellezza era in bilico, tremolava sul far della notte, come un fuoco d'artificio che si spegne e svanisce nel buio. Io la guardavo e mi sentivo un ladro. La sua bellezza non era per me, non mi apparteneva. Stavo commettendo un furto.

Era una ragazza di campagna. Semplice e rigorosa. Era una ragazza qualsiasi, come ce ne sono tante altre in giro per il mondo. Basta solo saper guardare. Era una ragazza fuori dal comune, per certi versi, anche se ce ne sono tante così.

Si faceva vanto dei suoi occhi chiari. Le illuminavano il viso quando passeggiava per i campi a piedi nudi. I suoi piedi nudi, impolverati, sporchi, infangati quando al ritorno varcava la soglia di casa, di una casa sempre pulita e luminosa.

Si faceva vanto delle sue mani. Un biancore tenue sembrava sprigionarvisi quando incrociava le braccia sul seno, come in attesa, oppure portava le mani ai fianchi, sorridendo senza motivo. C’era chi diceva che non vi fossero al mondo mani più belle.

Era una ragazza di campagna, con l’unico cruccio di non essere una ragazza di città. Quante cose avrebbe potuto fare se fosse stata una ragazza di città, quanti bei posti alla moda avrebbe potuto frequentare, quanti bei vestiti avrebbe potuto indossare, quante belle scarpe avrebbe potuto calzare, quanti occhi avrebbe fatto incantare, quanti volti avrebbe fatto girare. Gli sguardi sarebbero andati dall’immenso dei suoi occhi alla dolce convessità dei suoi seni, mele d’oro mature e dai suoi seni ai fianchi sinuosi e dai fianchi sinuosi alle sue gambe di gazzella, per tornare all’immenso dei suoi occhi, nei quali mondi, sistemi solari e universi interi avrebbero potuto trovare la loro fine.

Era distesa all’ombra quando la vidi per la prima volta. I fuochi d’artificio si aprivano come fiori di fuoco nell’aria pura, limpida della sera e sporcavano di macchie rosse, gialle, verdi, azzurre il suo vestito bianco. Era molto bella, su questo Christopher non si sbagliava. La sua bellezza gareggiava con quella della luna, con quella della notte, con il canto malinconico della brezza sull'erba. Non mi stupiva che il mio amico se ne fosse innamorato.

In verità, non era la prima volta che la vedevo. Il suo volto mi era familiare e, al tempo stesso, ignoto. L’avevo già incontrata molte altre volte, l’avevo vista passeggiare nei campi di grano, sfiorare le spighe dorate con le mani pallide, come gabbiani che planassero su una spiaggia dorata, l’avevo scorta come un’ombra, accoccolata nell’ombra della sua casa, in un giorno di sole accecante, spietato. L’avevo incontrata migliaia e migliaia di altre volte, nella vita reale o forse soltanto nei sogni dell’alba. Forse era una vita intera che non facevamo che incontrarci, forse, ci eravamo incontrati in tutte le nostre vite precedenti e avremo continuato a farlo in tutte quelle future. Come la notte e il giorno, il bianco e il nero, l‘acqua e il vino, l’inizio e la fine. Se lei era la vela, io ero l’ancora che frenava la mia stessa nave. Se lei era aquilone, io ero il filo che la imprigionava alla terra.

Ci sono ragazze che sanno di cioccolato e cannella, ci sono ragazze che sanno di fragole con la panna, ci sono ragazze che dovrebbero essere dichiarate patrimonio dell’umanità. E Lea era una di esse.

Era bella, era ricca, Lea possedeva tutto ciò che una donna può desiderare; possedeva tutto ciò che un uomo può desiderare ed erano in tanti a farlo. Ma era superba, sprezzante, inavvicinabile. A volte, s’inalberava senza motivo e strepitava contro il malcapitato di turno. Si divertiva in particolar modo a maltrattare Christopher e mi parve che ne provasse grande piacere. Il suo era l’atteggiamento dei bambini viziati, che sono cresciuti nell’illusione che tutto è loro dovuto e non è che una grande menzogna. Era l’atteggiamento di chi non conosce la vita, di chi non ha ferite sul cuore e calli sulle mani.

La odiai dal primo momento in cui la vidi. Detestavo i suoi modi superbi, ricercati, biasimavo l’atteggiamento che si permetteva con Christopher, invidiavo la vita comoda, sfarzosa e piena, che non si era guadagnata.

Ma mi si spezzava il fiato in gola quando, per qualche istante, i nostri occhi s’incrociavano.


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