Era
distesa all’ombra. Luci colorate tremolavano sul suo vestito
bianco. Il suo sguardo assente vagava lontano, oltre profilo
dell’orizzonte, spezzato dal crepuscolo. Le sue mani distese,
giacevano come abbandonate sul suo grembo, le sue preziose mani, dita
affusolate, unghie perfette, venate di azzurro e di verde su candido
alabastro.
Il
sole era tramontato da poco. Una vaga luce rossastra resisteva sulla
linea dell’orizzonte e pervadeva la sommità degli oggetti, i
profili e le forme di sfumature cremisi, porpora, sanguigne. Si era
nel punto del giorno in cui la luce si congiunge alle tenebre e si
arrende, vinta.
Sedeva
in silenzio, in un tenue abbandono, simile al sonno, avvolta dalla
morbida linea d’ombra che avanzava a mano a mano che scendeva la
sera. Era immobile come una statua marmorea in un mausoleo orlato di
tenebre, sola come un’ombra in una casa disabitata.
I
suoi occhi tremolavano. La luce del sole morente conferiva loro
sfumature blu cobalto, indaco, pervinca e quasi viola. Erano occhi
grandi, immensi, infiniti. Si sarebbe detto che piangesse per quanto
erano intensi e vividi. Si sarebbe detto che le sue mani tremassero
per quanto erano bianche e delicate.
Il
chiarore soffuso della sera si attenuava e si andava smorzando in una
brillantezza diffusa, crepuscolare, lattiginosa. Bianco sporco, come
neve, ammantava la superficie di ogni cosa. Bianco sporco, come il
suo vestito, avvolgeva ogni cosa, tono su tono, sfumatura dopo
sfumatura.
La
sua bellezza era in bilico, tremolava sul far della notte, come un
fuoco d'artificio che si spegne e svanisce nel buio. Io la guardavo e
mi sentivo un ladro. La sua bellezza non era per me, non mi
apparteneva. Stavo commettendo un furto.
Era
una ragazza di campagna. Semplice e rigorosa. Era una ragazza
qualsiasi, come ce ne sono tante altre in giro per il mondo. Basta
solo saper guardare. Era una ragazza fuori dal comune, per certi
versi, anche se ce ne sono tante così.
Si
faceva vanto dei suoi occhi chiari. Le illuminavano il viso quando
passeggiava per i campi a piedi nudi. I suoi piedi nudi, impolverati,
sporchi, infangati quando al ritorno varcava la soglia di casa, di
una casa sempre pulita e luminosa.
Si
faceva vanto delle sue mani. Un biancore tenue sembrava
sprigionarvisi quando incrociava le braccia sul seno, come in attesa,
oppure portava le mani ai fianchi, sorridendo senza motivo. C’era
chi diceva che non vi fossero al mondo mani più belle.
Era
una ragazza di campagna, con l’unico cruccio di non essere una
ragazza di città. Quante cose avrebbe potuto fare se fosse stata una
ragazza di città, quanti bei posti alla moda avrebbe potuto
frequentare, quanti bei vestiti avrebbe potuto indossare, quante
belle scarpe avrebbe potuto calzare, quanti occhi avrebbe fatto
incantare, quanti volti avrebbe fatto girare. Gli sguardi sarebbero
andati dall’immenso dei suoi occhi alla dolce convessità dei suoi
seni, mele d’oro mature e dai suoi seni ai fianchi sinuosi e dai
fianchi sinuosi alle sue gambe di gazzella, per tornare all’immenso
dei suoi occhi, nei quali mondi, sistemi solari e universi interi
avrebbero potuto trovare la loro fine.
Era
distesa all’ombra quando la vidi per la prima volta. I fuochi
d’artificio si aprivano come fiori di fuoco nell’aria pura,
limpida della sera e sporcavano di macchie rosse, gialle, verdi,
azzurre il suo vestito bianco. Era molto bella, su questo Christopher
non si sbagliava. La sua bellezza gareggiava con quella della luna,
con quella della notte, con il canto malinconico della brezza
sull'erba. Non mi stupiva che il mio amico se ne fosse innamorato.
In
verità, non era la prima volta che la vedevo. Il suo volto mi era
familiare e, al tempo stesso, ignoto. L’avevo già incontrata molte
altre volte, l’avevo vista passeggiare nei campi di grano, sfiorare
le spighe dorate con le mani pallide, come gabbiani che planassero su
una spiaggia dorata, l’avevo scorta come un’ombra, accoccolata
nell’ombra della sua casa, in un giorno di sole accecante,
spietato. L’avevo incontrata migliaia e migliaia di altre volte,
nella vita reale o forse soltanto nei sogni dell’alba. Forse era
una vita intera che non facevamo che incontrarci, forse, ci eravamo
incontrati in tutte le nostre vite precedenti e avremo continuato a
farlo in tutte quelle future. Come la notte e il giorno, il bianco e
il nero, l‘acqua e il vino, l’inizio e la fine. Se lei era la
vela, io ero l’ancora che frenava la mia stessa nave. Se lei era
aquilone, io ero il filo che la imprigionava alla terra.
Ci sono
ragazze che sanno di cioccolato e cannella, ci sono ragazze che sanno
di fragole con la panna, ci sono ragazze che dovrebbero essere
dichiarate patrimonio dell’umanità. E Lea era una di esse.
Era
bella, era ricca, Lea possedeva tutto ciò che una donna può
desiderare; possedeva tutto ciò che un uomo può desiderare ed erano
in tanti a farlo. Ma era superba, sprezzante, inavvicinabile. A
volte, s’inalberava senza motivo e strepitava contro il malcapitato
di turno. Si divertiva in particolar modo a maltrattare Christopher e
mi parve che ne provasse grande piacere. Il suo era l’atteggiamento
dei bambini viziati, che sono cresciuti nell’illusione che tutto è
loro dovuto e non è che una grande menzogna. Era l’atteggiamento
di chi non conosce la vita, di chi non ha ferite sul cuore e calli
sulle mani.
La
odiai dal primo momento in cui la vidi. Detestavo i suoi modi
superbi, ricercati, biasimavo l’atteggiamento che si permetteva con
Christopher, invidiavo la vita comoda, sfarzosa e piena, che non si
era guadagnata.
Ma
mi si spezzava il fiato in gola quando, per qualche istante, i nostri
occhi s’incrociavano.
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