Il mio bisnonno Nicandro Melone nacque
nel 1888 e nel 1904, a sedici anni, si recò con i suoi fratelli in Russia, a
San Pietroburgo. San Pietroburgo nella Russia imperiale era una città ricca e
loro facevano i suonatori ambulanti. C’era una tradizione all’epoca, nelle
province del Lazio meridionale e del Molise, una tradizione che somigliava a un
rapimento: vi erano dei personaggi che battevano le campagne e i villaggi in
cerca di bambini e adolescenti da arruolare nei loro spettacoli di strada, che
presentavano nelle ricche capitali del Nord Europa. I bambini erano impiegati
come saltimbanchi, suonatori ambulanti, a volte semplici inservienti, la loro
vita era molto dura, strappati dalle famiglie soffrivano la fame e il freddo e
spesso morivano di stenti. Se qualcuno ricorda ancora il cartone animato
giapponese Dolce Remi, in cui il protagonista era un bambino affidato a un
suonatore ambulante e cercava di tornare a tutti i costi a casa dalla sua
mamma, sappia che la base del cartone è tratta da un’usanza spregevole, ma
purtroppo vera, delle poverissime province meridionali italiane.
Non mi stupisco quindi che mio bisnonno
abbia preso la via del Nord. Con lui c’era anche sua sorella Margherita, che
faceva da modella per i pittori e morì di tisi a San Pietroburgo, ma ho già
raccontato la sua storia (vedi il racconto breve Flora http://angelo-medici.blogspot.it/2013/10/floratutto-e-inganno-e-illusione-san.html).
Posso immaginare che anche la vita di mio bisnonno, come quella di tanti suoi
coetanei dell’epoca fosse particolarmente dura, ma in Russia imparò il mestiere
del ciabattino. Particolare importante, perché da allora in poi, la famiglia di
mia madre, con alterne fortune, si è sempre occupata di calzature e sono nel
campo ormai da quattro generazioni.
Ma Nicandro era inquieto, viveva gli
anni di un adolescente che si affaccia sulla soglia della vita e smania per
trovare la sua strada, il suo posto nel mondo. Così, dalla Russia tornò in
Italia, per ripartire subito dopo per l’America, la terra promessa, il mito.
Credo che sbarcò a New York dopo un viaggio massacrante in cuccette di chissà
quale infima classe, si sottopose alla selezione sanitaria a Ellis Island come tutti gli immigrati e
finalmente, sbarcò sul Nuovo Continente.
Ma aver attraversato l’oceano non placò la sua inquietudine. Sentiva che quello
non era il suo posto, che quella metropoli già all’epoca caotica e invivibile
non faceva per lui e prese un altro piroscafo, stavolta sulla rotta del
ritorno.
Aveva visto giusto, tornato in Italia conobbe
Elisabetta e la sposò nel 1913. Appena il tempo di celebrare il matrimonio ed
ecco la giovane coppia attraversare le Alpi e stabilirsi a Parigi. Presero in
affitto una modestissima abitazione in rue
de Crimèe, la strada degli emigrati italiani. Il 4 luglio 1914 ebbero un
figlio, maschio e lo chiamarono Armando, mio nonno (ho narrato della sua
infanzia nel racconto Le janare http://angelo-medici.blogspot.it/2013/10/le-janare.html).
Ma l’apparente normalità ebbe breve durata, la voglia di mettere radici
finalmente in qualche posto che genera la nascita di un figlio, e che ho
conosciuto anch’io, nonostante sia inquieto come il mio avo, fu spezzata dallo
scoppio della Prima guerra mondiale. Con l’entrata in guerra dell’Italia, la
famigliola rientrò in patria e mio bisnonno fu richiamato. Lo spedirono sul Carso a languire in una trincea, ad
affogare il respiro dentro una maschera antigas e rintuzzare gli attacchi
austriaci. Nel 1916, mentre era in pattuglia di esplorazione oltre le linee
italiane, una pallottola esplosiva, sparata da un cecchino, gli maciullò una
gamba. Fu ricoverato in ospedale a Cremona, nelle retrovie, dove rimase per un
anno, fino al ritorno a casa nel ’17, ebbe altri due figli, Saverio e
Margherita, in ricordo della sorella scomparsa in Russia, e visse facendo il
calzolaio. A causa della ferita alla gamba gli affibbiarono il soprannome gl’
ciuopp (lo zoppo), che d’allora qualificò la mia famiglia materna.
Ma erano anni difficili, che videro
l’avvento del fascismo, una crisi economica simile a quella dei nostri tempi,
generata dal crollo di Wall Street (guarda
un po’, le crisi economiche sono sempre colpa degli americani) e una nuova
guerra. Non fu richiamato a causa della gamba, ma Armando, mio nonno, si, che
intanto aveva avuto un figlio, Nicandro e, più tardi, una figlia, Elisabetta, mia
madre. Ma come Dio vuole, ogni cosa finisce e terminò anche la seconda guerra
mondiale e lasciò un Paese distrutto, in lacrime, con la pelle segnata da
cicatrici e ferite, a volte, non rimarginabili. Ma c’era da ricostruire una
Nazione e la mia famiglia non stette tanto a piangersi addosso e si rimboccò le
maniche. Così, si rimisero in sesto, ricostruirono la casa e tirarono avanti.
Nel 1954, lui che era sopravvissuto alla
disperazione delle trincee e ai bombardamenti della seconda guerra mondiale,
rischiò di andarsene per una banale appendicite. Tornò a casa ancora una volta,
ma comprese che era giunto il momento di passare la mano al suo primogenito,
mio nonno Armando, che proseguì quel mestiere che veniva da lontano, dai
silenzi glaciali della capitale del Nord,
nella piccola bottega di calzolaio.
Nonno Nicandro. Ai più potrà sembrare
strano questo nome e in effetti non è abbastanza diffuso, se non in alcuni
paesi del Molise sud – occidentale e in provincia di Foggia (Sannicandro Garganico). A testimonianza
della scarsa diffusione, quando mio zio, che si chiama Nicandro pure lui, emigrò
a Torino per lavoro, lo chiamavano “Licandro“, e da qui a licantropo il passo è davvero breve… Nicandro
era un ufficiale romano originario dell’Asia, che fu martirizzato per
decapitazione, dopo essersi convertito al cattolicesimo e dalle mie parti è
molto venerato perché accadde proprio lì. Il nome è formato da due sostantivi
in lingua greca: nikè, che significa vittoria (la Nikè di Samotracia, splendida scultura di età ellenistica, che è
riprodotta anche sulle Rolls Royce e
orrendamente storpiato nella pronuncia anglosassone di un noto brand sportivo) e
anèr
– andròs, che vuol dire uomo. Il nome significa letteralmente “uomo
della vittoria” ed è il corrispettivo greco di Vincenzo, che tra l’altro
è mio padre. Quindi, non avevo scelta, schiacciato fra due uomini della
vittoria, dovevo vincere, o perire. Non so se ho vinto, giudicheranno i
posteri, ma di sicuro non sono perito.
Ecco, ho finito. Ho narrato la vita di
un italiano a cavallo di due secoli, un’esistenza, forse, come quella di tanti
altri, ma non per me. Per quanto mi riguarda, nonno Nicandro è stato unico, una
figura quasi leggendaria, anche se l’ho appena conosciuto. E’ scomparso nel
1974, io avevo solo cinque anni, ma mi ricordo ancora che quando andavo a
trovarlo nella sua bottega, lui frugava nel cassetto del suo tavolo di lavoro e
tirava sempre fuori una caramella o un cioccolatino per me e per ricompensa chiedeva
un bacio. E, se ripenso a quegli odori di cuoio, di mastice e di pece, a quella
stanza in penombra, al suo volto rude e pungente quando mi baciava la guancia,
non riesco a trattenere le lacrime.
Mi sembrava il minimo dedicargli almeno
un post.
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