Non
si accorgeva neppure della mia presenza, ma io vegliavo discreto sul
suo sonno, sulla sua vita, come un guardiano riservato e silenzioso,
affinchè nulla d'imperfetto potesse soltanto sfiorarla.
Le
ciglia d'oro pesavano sulle gote. E il pallore della fronte, il naso
perfetto, la curva delle guance che rifletteva morbida la luce e le
labbra tumide. Era il volto di una bambina addormentata, che forse
sognava cavalli bianchi e palazzi di cristallo, draghi spaventosi e
nobili cavalieri.
Il
suo sonno era leggero e pesante al tempo stesso, proprio come quello
dei bambini. Non osavo svegliarla. Le mie sensazioni non erano
affatto diverse da quelle che si provano nella sala d'attesa di un
dentista; era soltanto la mia indole noncurante a farmi sentire
vigoroso e temerario, come uno di quei cavalieri dei sogni.
Temevo
il suo risveglio.
La
sua personalità era come scissa in due. C'era lei, ma c'era anche
qualcun altro. L'intimità non era mai vera, non si poteva star certi
di essere soli. C'era lei, e c'era anche l'altra. In lei vivevano
due donne, l'una contro l'altra. Donne che si detestavano. Una era
una poetessa e trovava sempre il punto di contatto fra i versi e la
follia, ma l'altra era un sadico guerriero che non si placava prima
di aver lasciato dietro sé dolore e devastazione.
Soltanto
nel sonno trovava pace.
Non
ho mai provato angoscia con una donna; con lei, anzi con loro, sì.
Era come scendere in un precipizio nel buio più fitto: non sapevo
mai cosa mi sarebbe spettato. Eppure, quella povera creatura mi ha
amato; a modo suo, mi ha amato.
Mi
guardava ma non mi vedeva, cercava se stessa. A volte si rivolgeva a
me con un gesto affascinante e protettivo simile a un abbraccio,
anche se non lo era. Ma subito dopo arrivava l'altra, col suo sguardo carico d'odio e un'ingiuria sfoderata come una spada pronta a colpire.
Forse,
non è importante chi si ama a questo mondo, ma qualcuno bisogna pur
amare.
Non
desiderava cose impossibili, ma pretendeva una vita normale. Voleva
soltanto svegliarsi la mattina con il gatto accoccolato sul letto, un
vaso di fiori alla finestra e piangere da sola se ne aveva voglia.
Mi
sarei accontentato di essere quel gatto, pur sapendo che mi sarei
dovuto sobbarcare ore e ore di solitudine, o quel fiore nel vaso,
essendo certo che avrei patito la sete, o quella finestra, che non si
sarebbe mai spalancata sul mondo.
Un
giorno, ho aperto la porta. Mi ero illuso di addomesticare la lupa
famelica che dimorava in lei, ma ho rischiato di esserne sbranato.
No, non avrebbe funzionato. Nel migliore dei casi, mi avrebbe
divorato, nel peggiore, sarebbe rimasta chiusa in gabbia per sempre.
In un modo o nell'altro, ci avremmo rimesso entrambi. Dovevo lasciarla
andare, lo dovevo alla sua libertà morale, lo dovevo alla mia
integrità fisica, alla mia sanità mentale. Così, ho tenuto la
porta aperta, allo stesso modo in cui l'avevo fatta entrare, tanto
tempo fa.
Io
sono rimasto sulla soglia. Mi sono accontentato di vederla fuggire
nella foresta nera e spaventosa, dal mio lembo privato e provvisorio
di civiltà. Il suo ultimo ululato, acuminato e terrificante, era
dedicato a me. L'acuto di un virtuoso. Mi è penetrato in fondo
all'anima come la punta di un coltello. E da allora non ho smesso di
sanguinare.
Il
cielo è verde, oleoso. Un freddo sapore amaro nell'aria. E freddezza
anche sui volti e nei gesti, un freddo che taglia il cuore. Nella
vita c'è qualcosa d'indefinito, che aleggia triste nell'etere e
nelle coscienze. Ma ora è qui, nel mio petto e fa parte di me, allo
stesso modo in cui mi appartiene l'aria che respiro, prima che la
restituisca, impura e contaminata, agli altri.
Passarono
altri giorni, verdi e oleosi.
Dalla
finestra aperta mi sembrava che il buio mi osservasse, mi scrutasse,
mi spiasse. Poi penetrò all'improvviso nella stanza e in me. Era la
foresta, nera e impenetrabile. Da qualche parte, lei mi chiamava.
E
ricordai quei giorni sospesi fra lucidità e follia, giorni in cui
eravamo più silenziosi dell'acqua, strisciavamo più bassi
dell'erba. E gli odori di quel lontano ottobre, l'aria cristallina e
pungente, i brividi di freddo sulla pelle. Tremavo pensando ai suoi
occhi, del colore delle foglie morte e ardevo per quel suo corpo
latteo, nudo e pieno alla scialba luce del mattino, quando riemergeva
dai vividi sogni dell'alba.
Ero a
un passo dal raggiungerla, scavalcare il davanzale e gettarmi a
capofitto nelle tenebre, fra le sue zampe. E nelle sue fauci.
Dentro
lei.
COPYRIGHY
2016 ANGELO MEDICI
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