Como el candor de
una rosa. Y decirte nina hermosa...
Malaguena
Salerosa
sfumava lentamente come il sole all’orizzonte. Il signor Antonio
andò alla finestra e si affacciò. Il traffico serale procedeva
monotono. Sempre la stessa gente sui marciapiedi di quella città
annoiata, inutile, fine a sé stessa. Era imperscrutabile, un borgo
medievale cresciuto troppo e male, cinto da alte mura. E Antonio si
chiedeva spesso se quelle mura fossero state erette per tenere fuori
quelli che non dovevano entrare o per impedire a quelli che stavano
dentro di uscire.
Non sapeva darsi una
risposta, ma propendeva per la seconda ipotesi. E in fondo, era così
che si sentiva. Imprigionato in una fortezza inespugnabile, rinchiuso
nella torre più alta del castello. Aveva edificato la sua casa,
aveva messo su famiglia e costruito la sua vita, ma ora si accorgeva
che per tutto il tempo non aveva fatto altro che accumulare pietre,
mattoni, marmi ed erigere mura, lapidi e inferriate per costruire una
prigione.
La sua.
Mattone dopo
mattone, pietra dopo pietra. Mura fatte di banconote, di scartoffie
senza valore, di corpi nudi e cadaveri ambulanti, mura che si erano
richiuse sopra la sua testa seppellendolo vivo.
La giacca e la
cravatta erano la sua tenuta da galeotto. E la ventiquattrore la sua
palla al piede. Anzi, al polso. Non avrebbe mai immaginato di finire
così, impaludato in una vita piatta e stabile, troppo piatta e
troppo stabile.
Invidiava le foglie
che cadevano, perché nel momento stesso in cui precipitavano erano
libere dall’albero e non ancora prigioniere della terra. Invidiava
gli uccelli, liberi di saettare nel cielo, come frecce scagliate
contro il sole nudo. Di quella libertà perduta sentiva un assoluto,
disperato bisogno, come l'aria per il nuotatore in apnea da troppo
tempo, come la luce per un cieco. Era questa la rinuncia più grande
dell’alfiere della libertà senza confini, ridotto agli arresti
domiciliari delle sue quattro mura per una condanna mai pronunciata,
per una colpa mai commessa; in una città che odiava, in una casa che
detestava, fra gente che lo disprezzava senza che ne sapesse il
motivo. No; quella città e i suoi abitanti, lui proprio non li
sopportava.
E non li capiva, né
l'una né gli altri.
Si nutriva dell’odio
scagliato da quegli sguardi obliqui, da quelle bocche digrignanti, da
gesti rigidi e scostanti. La loro arroganza era senza limiti e
l'indifferenza ne era la fedele compagna. La loro freddezza era una
lama di ghiaccio che gli spaccava il cuore. Non era quello che aveva
desiderato, non era questa la sua vita. Era vita B, vita C, forse D,
sicuramente quella di qualcun altro. Non si riconosceva più, certo
non in quell’essere amorfo e senza peso, alla mercè dei venti,
ch’era diventato.
Ripensò a
Desperado,
il film che amava alla follia, alla scena in cui il mariachi
si inginocchia a pregare prima dell’azione finale. Quante volte
aveva imitato le sue pose sfrontate, il suo sguardo bello e altero;
quante volte l'aveva invidiato perchè poteva stringere fra le
braccia la bella Carolina.
Anche ad Antonio
viene voglia di pregare, anche se non ha nessuna azione finale da
compiere, anche se non ha alcun avversario spietato da sconfiggere e
sa bene che azioni e gesti, sempre uguali, si ripeteranno
all’infinito nella loro perfetta inutilità, nell’inutilità più
grande che è la sua vita.
Si lega i capelli e
s'inginocchia. Fa il segno della croce con la destra, ma la sinistra
accarezza la canna della pistola.
Dio dammi la
forza di tornare quello che ero e perdonami per quello che sono.
(To
be continued)
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ANGELO MEDICI
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