Ci
sono scrittori ai quali non è bastato inventare una letteratura,
hanno dovuto anche (re)inventare un linguaggio per poter scrivere quella
letteratura. Giganti della statura di Joyce e Celine.
Ma, eleviamoci fino a loro, per quanto ci è consentito, e diamo
un'occhiata più da vicino a quest'ultimo.
Dal
retro di copertina Celine lo guardava con lo sguardo assente,
ironico, canzonatorio dei bei tempi andati, ritratto nel bel mezzo di
un ennesimo scandalo. Si soffermò a guardare quella foto in bianco e
nero, la fronte aggrottata e sovrastata dai capelli pettinati
all'indietro, quegli occhi innocenti, trasparenti come il cielo, un
sorriso beffardo eternamente stampato sulle labbra, prima di aprirle
su una delle sue innumerevoli provocazioni. Sembrava così innocuo e
inoffensivo. Soltanto un altro cacciatore di miseria. Niente di più.
(Così scrivevo di lui ne La
città verticale, 0111
Edizioni, 2014). Pare quasi che ci prenda ancora in giro da un
passato non troppo lontano. Ma la sua opera non è affatto una presa
in giro. Non c'è finzione, raggiro, artificio. E' tutto puro e
genuino. E' la vita stessa che cola dalle sue pagine.
Non è
un caso che adorava, come io adoro, François Villon - non si
può dimenticare la Ballata degli impiccati, anche se è
stata scritta nel 1489 (1) – e sopra ogni cosa, amava la sua
lingua, che era la lingua del popolo dei bassifondi, catturata in
presa diretta nelle bettole e nei postriboli, in fondo a strade buie
ai margini della città della luce, dove si aggirano uomini senza
nome e senza volto. Un linguaggio bizzarro, probabile archetipo
l'argot della suburra parigina, spesso ai limiti della
comprensione, come nello sfrenato delirio verbale di Carneficina
(2), messo in bocca a un'umanità lasciva, decadente e corrotta.
Questo
siamo, neri stormi che sporcano i cieli, affamati di miseria e morte.
Uomini e donne arrivano assieme come branchi d'avvoltoi su una
carcassa fumante, si accoppiano e subito volano via. Avvoltoi che
piombano dal cielo come pietre pesanti. Artigli e becco, questi
siamo! Un enorme apparato intestinale che fiuta la carne morta
(3).
Erano
anni difficili, è un arduo compito narrare la vita di uno scrittore
difficile in un'epoca complicata, devastata da due guerre mondiali,
di cui fu vittima egli stesso. Anarchico, fascista, antisemita?
Niente di tutto questo. Ogni sua provocazione generava scandalo e un
diluvio di accuse, tanto da ritrovarsi perennemente sul banco degli
imputati. Spesso da innocente.
“Grande
scrittore, ma atroce antisemita”, oppure, “atroce
antisemita, ma grande scrittore”, i simmetrici giudizi su
di lui. Il primo lo condanna senza appello all'oblio dell'esilio, a
nulla vale il giudizio delle lettere; nel secondo, ma in netta
minoranza, la nera aura razzista è riabilitata dalla sua immensità
artistica (per la verità, solo ai giorni nostri).
Fra
le righe è possibile rintracciare la scia di un uomo alla deriva,
portato soltanto dalle correnti della vita e dal vento mutevole del
destino, da Parigi all'Inghilterra in improbabili e fallimentari
apprendistati, ancora a Parigi e da qui all'Africa; e ancora a New
York e di nuovo a Parigi, sulle vie soffocanti di un eterno ritorno.
Ma
come si sopravvive a tutto questo? Se non hai gli anticorpi non puoi
resistere al morbo della vita e Celine gli anticorpi di sicuro non li
aveva. E così è stato sbranato, divorato un morso alla volta,
devastato pezzo a pezzo, una ferita dopo l'altra.
Celine
non sopravvisse, morì sui suoi fogli, nelle pagine dei suoi libri,
in cui riversò tutta la sua anima, senza lasciarne più nulla per
sé. Egli si è letteralmente dissanguato, nelle sue opere
l'inchiostro ha preso il posto del sangue tra le fibre di cellulosa,
il tessuto connettivo del suo corpo. E, insieme al dolore, colava via
la ragione. Celine perdeva senno dal tappo del dolore,
scrive Erri De Luca in La città non rispose (4)
e io non oso ritapparlo, perchè non saprei dirlo meglio. Non
si risparmiava, affogava in fondo all'anima i dolori, le paure, le
miserie del mondo e segnava il foglio con l'impronta irregolare della
sua anima errabonda e fallace. (Ancora
dal mio La città verticale).
Certo,
la vita materiale ebbe il suo decorso, ma a quale prezzo? Seguì la
disfatta dell'esercito tedesco e ne condivise la sorte. Tribunale
militare, condanna, esilio. Gli fu consentito di tornare in Francia
soltanto nel '51, dopo lunghi anni a Copenaghen. A quel tempo, Celine
era lo scrittore del secolo, come uomo era già finito. Era
incerto, tra Flaubert e Dostoevskij, a quale dei due attribuire il
titolo di miglior scrittore dell'Ottocento, ma per il Novecento non
aveva dubbi. Il titolo spettava a Celine. Il suo Viaggio
al termine della notte era un'opera ineguagliabile.
Tutti gli altri erano un branco di pecore che seguono il pastore (La
città verticale,
ibidem).
Il
Viaggio potrebbe essere a buon diritto la pietra
tombale, la parola fine, L'ultimo libro dell'umanità,
quello che avrebbe voluto scrivere Henry Miller. Tutti
quelli che hanno qualcosa da dire, la diranno, là dentro, anonima.
Daremo fondo alla nostra epoca. Dopo di noi non più libri, almeno
per una generazione. Il mondo si potrà nutrire del nostro libro per
mille anni a venire. Solo a pensarci, quasi ci annienta. (5)
Che
cosa non ha funzionato nella sua storia d'uomo, si chiede Carlo Bo
(6). La mancanza di equilibrio fra l'intelligenza piena della realtà
e la sua resistenza morale? Il senso di anarchia più profondo e
fagocitante, l'estremo dileggio di ogni regola e di ogni sapere
scientifico, perfino della sua professione di medico condotto? Je
n'ai toujours pratiquè la mèdicine, cette merde (!).
Ma
la sua scrittura era inesorabile, il dolore, la disperazione, ma
anche la compassione per questa umanità dolente, la sua sorda pietà
di medico suonato che cercava l'impossibile interpretazione del
mondo, ne marcava ogni passo. Eccoci qui, ancora
soli. C'è un'inerzia, in tutto questo, una pesantezza, una
tristezza... Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita, una buona
volta. Gente n'è venuta tanta, in camera mia. Tutti han detto
qualcosa. Mica m'han detto gran che. (7)
Ancora
una volta, per fortuna, è sempre il tempo di Celine, scrive Georg
Steiner (8). E anche oggi il
Viaggio al termine della notte, la folle corsa a rivedere la
luce di uno scialbo mattino, il viaggio di uno, il viaggio di tutti
noi, è un salvacondotto per la vita.
(1) La
ballade des pendus
Vous
nous voyez 'cy
attachez
cinq, six
quant
de la chair,
que
trop avons nourrie
elle
est pieça devorèe et pourrie
La
pluye nous a dèbuez et lavez
et
le soleil dessechez et noirciz.
Pies,
corbe aulx nous ont les yeux cavez
et
arrachè la barbe et le sourciz.
Ci
vedete qui
in
cinque, sei, appesi
quanto
alla carne che troppo abbiamo nutrita
ora
è divorata e putrida.
La
pioggia ci ha lavati
e
il sole ci ha anneriti e seccati
Gazze,
corvi ci hanno gli occhi cavati
e
strappata la barba e le sopracciglia.
(2)
Titolo originale Cassepipe (1949).
(3)
Tropico del Cancro, Henry Miller (1934).
(4) In
alto a sinistra (un'antica via d'uscita), Feltrinelli (1994).
(5)
Ancora in Tropico del Cancro.
(6)
Saggio critico su Morte a credito, Garzanti 2011.
(7)
Morte a credito, titolo originale Mort à crèdit
(1952).
(8)
The Times Literary Supplement, 12 gennaio 2010.
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