Hotel
Vasteland si chiude (o per meglio dire, non si chiude) con la
Parte Terza Oltre lo specchio. Non si chiude
realmente, dicevo, perchè ho voluto un finale aperto.
Esplorare la
conclusione di un romanzo è altrettanto arduo che sondarne l'incipit
e, ve l'assicuro, mettere la parola fine a una storia che non ha
fine, sarebbe stato un sacrilegio.
La faccenda del finale aperto, come strategia narrativa,
ha richiamato alla memoria di alcuni lettori La
donna del tenente francese di John
Fowles e l'amore impossibile in un'epoca
impossibile di Storia di una ladra di libri
di Markus Zusak. Altri
hanno letto i capitoli della prima parte del mio romanzo, come
frammenti della stessa giornata rivissuta più volte. Interpretazione
interessante, che apre ad altri sviluppi.
E' un onore essere accostato a cotanti scrittori, ma ci
tenevo a precisare che non ho mai letto i libri sopra citati.
Sicuramente li acquisterò, soprattutto il primo, ma le influenze, o
meglio, i libri che ho letto mentre scrivevo la prima stesura del mio
romanzo sul finire dell'inverno di un ormai lontano 2013, sono stati
Comma 22 di
Paul Heller e Un
oscuro scrutare di Philip
Dick. E' stato quest'ultimo a ispirarmi
l'esergo di Paolo di Tarso
(Ora vediamo attraverso uno specchio,
nell'oscurità), oltre che a trarmi
d'impaccio dalle infide secche narrative di Hotel
Vasteland.
Il finale aperto del
romanzo si presta a molteplici interpretazioni. Eccovene alcune di
mio pugno, ma sono certo che ne troverete molte altre, alcune
fantasmagoriche e mirabolanti, molte geniali e altrettante a cui
semplicemente non avevo pensato, ma tutte estremamente interessanti. È singolare come le idee partorite dalle altrui menti siano sempre più
coinvolgenti, convincenti e vivide delle nostre. La strana
fascinazione dell'erba del vicino.
In ogni caso,
qualunque sia la vostra interpretazione del finale, vi sarei grato di
comunicarmelo: sarò felice di integrare questo succinto elenco.
- Oltre lo specchio è letteralmente il passare di là, in un mondo invisibile, celato dalla superficie riflettente dello specchio, che ci confonde ributtandoci negli occhi la nostra realtà effimera, fasulla e a rovescio. E' come se scoprissimo, attraversando la superficie di cristallo, che dall’altra parte c'è un mondo parallelo, apparentemente identico a quello ufficiale, ma nel quale la morte, come la vita, è finzione (Vedi n. 6).
- Un'interpretazione più realistica: è il risveglio di Heinrich dall'altra parte del mare, all’alba del suo primo giorno in Inghilterra. Un risveglio amaro, inseguito dai fantasmi del passato e del suo amore infranto. Il suo inferno personale. Parafrasando Dostoevskji, gli inferi non esistono, l'inferno è su questa nera terra (epì gàn melàinan, epi gan melainan, scusate non ho potuto resistere, anche Saffo voleva dire la sua) e ognuno trova il suo con le fauci spalancate, pronto ad accoglierlo come si conviene. L'inferno dei russi, egli diceva, è essere russi; l'inferno di Heinrich, dico io, è essere Heinrich.
- Josephine è ormai un'abitante ufficiale del mondo delle ombre. Si è svegliata nella morte, stupita di non trovarlo accanto a sé, poiché egli è rimasto incastrato nella vita. Stringe Heinrich con straordinaria forza, egli ne è sorpreso e cerca di divincolarsi, come se avesse paura di precipitare insieme a lei nel pozzo della morte, ma lei lo ammonisce a non sciogliere il suo abbraccio. E nel suo sguardo trapelano lampi d'invidia.
- Un'interpolazione alquanto macabra. La donna sul letto è morta. Heinrich sta abbracciando e parlando con un cadavere. Perso il senno, il cervello distrutto dalla morfina, può dare sfogo al suo amore per le ombre.
- E’ una scena soltanto immaginata dal protagonista maschile, lo sviluppo ideale dell’omicidio – suicidio, in cui Josephine, da un piano molto sopra la realtà, dialoga con lui attraverso il velo oscuro della morte.
- E’ il bar-do (letteralmente isola in mezzo, nel Libro tibetano dei morti), la vita intermedia fra un'esistenza e l'altra, nel circolo di molte vite. E il satori, la rivelazione. “Non v’era niente che non conoscesse già, non v’era nulla che dovesse ancora accadere.” Nello stato di sospensione fra una vita e l’altra, in attesa della prossima nascita, il passato, il presente e il futuro si manifestano nello stesso istante, il tempo è abolito, il velo dell'ignoranza è finalmente squarciato.
Nella
Parte Terza v'è il nocciolo della questione, la scoperta dei
due nuclei gemelli del romanzo, gli atomi non ulteriormente
divisibili della nostra crisi.
Heinrich
riconosce il suo nome, un nome che, fino a quel momento, gli era
risultato estraneo, freddo, fasullo, ma che adesso, per il solo fatto
che è pronunciato da lei, gli appartiene, è davvero il suo. Egli si
vede riflesso nei suoi occhi, in quegli occhi che sono la verità e
la vita, e finalmente si riconosce, quel volto è il suo volto. La
crisi d'identità, il primo nucleo gemello, sarebbe, a questo
punto, risolta.
Invece,
“Non
avremo tempo di amarci”
egli dice, riconoscendo l’impossibilità dell'amore. L’ultima
riga dell’ultimo capitolo, l’ultima riga del romanzo, contiene la
rivelazione, l'illuminazione, il satori.
E muore il secondo
nucleo
gemello
di Hotel
Vasteland:
non sappiamo amare. E' un amaro risveglio, all'alba fredda di un
mattino qualunque, sferzato dal vento, soli nella nebbia, che cela
con amorevole cura le spaventose vastità del mare.
Soltanto
con l’amore ci salveremo, soltanto per mezzo dell’amore salveremo
l’altro e, attraverso di lui, noi stessi.
E l'epilogo ci vede
finalmente attraversare la superficie dello specchio, confine ideale
fra l’io e il sé, il reale e l’immaginato, la realtà e il suo
riflesso.
Crisi d’identità
= Impossibilità di amare.
L'una, il riflesso
dell'altra; l'una, la negazione dell'altra.
Per dirlo, ho
impiegato ventitremilaseicentoottantasette
parole.
Non ho il dono della sintesi.
Decisamente, no!
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