sabato 11 ottobre 2014

La città verticale, il mio nuovo romanzo


 

Ecco, ci risiamo. Ci sono cascato ancora. Ho scritto un altro libro, un romanzo stavolta. Mi è proprio scappato, perdonatemi, ho provato a trattenerlo, ma mi faceva male dentro, dovevo scriverlo a tutti i costi.

Ora che è uscito sto meglio.

E ci sono già alcuni commenti da parte di chi l’ha letto, soprattutto addetti ai lavori.

Ma di questo parleremo più avanti.

Eccovi intanto la prefazione che ho scritto per il romanzo.

 

Ubi pus, ibi evacua

 

Ecco il mio nuovo libro. È un romanzo criminale, una storia meridionale, ma non è un noir, né certamente un thriller. In omaggio alle origini, ho rivisitato alcuni luoghi della mia infanzia. Dal viaggio immaginario nel passato è sorta una città verticale, che si è stratificata, insieme al potere che la corrode, verso l’alto. Una città solare, eppure oscura e gotica al tempo stesso, perché è proprio dove c’è più luce, che s’annida l’ombra più scura. 

È crudo, forte, paradossale? Sì, è proprio quello che cercavo. Volevo che fossero pugni allo stomaco, sputi negli occhi e schiaffi in faccia. Volevo narrare una storia scomoda, metterla in scena nel teatro del grottesco, dell’assurdo e del surreale, con attori fuori dal comune, dotati d’ironia e sfrontatezza, ma anche d’una buona dose di umanità. Scriverla mi ha fatto comprendere quanto, a volte, può essere assurda, grottesca e surreale la realtà.

Lo so, questo libro vi farà uscire fuori dai gangheri, probabilmente lo lancerete via, ne tormenterete le pagine, forse lo strapperete. Ma, se sarà così, io avrò raggiunto il mio scopo. Perché volevo darvi un pugno allo stomaco e infilarvi le dita negli occhi. Volevo scuotervi le coscienze.

È un romanzo sul rapporto tra fede e religione: il protagonista, e attraverso di lui l’autore, avvia e porta a termine l’opera di demolizione della Divinità, riducendola a mero simulacro, a inutile appendice, fino a svuotarla del tutto di significato.

È anche un’opera sulla diversità, tema che avevo già affrontato ne L’impero del vento. In quelle storie desertiche chi è straniero è diverso, altro, alieno. All’opposto, ne La città verticale si sente diverso chi è a casa sua, mentre dovrebbe sentirsi a proprio agio, come un pesce nel suo acquario. Invece, non trova pace nella sua stessa casa, nel suo letto, nei panni che indossa. È il dramma del sentirsi estranei al mondo che ci appartiene. 

Perché ho scritto questo libro? Si tratterebbe di una domanda salutare se fosse fornita della risposta, uno scrittore dovrebbe sempre sapere perché ha scritto un libro, anche se a volte le vere ragioni le apprende molto tempo dopo averlo fatto. Io lo so perché l’ho scritto, l’ho sempre saputo, fin dall’inizio. Il tema della diversità, della disomogeneità tra omogenei, della difficoltà di relazionarsi con i propri simili e riconoscerli uguali, era troppo impellente in me, andava sviluppato, diversificato, analizzato, sezionato, scorticato fino a farlo sanguinare.

Dove c’è pus, bisogna incidere e spurgare. 

Ecco spiegato il titolo della prefazione. Secondo Galeno di Pergamo, medico e fisiologo della Roma imperiale, la guarigione si ottiene attraverso l’eliminazione della materia in eccesso, la materia peccans che, in campo medico è il pus, ma nel mio caso era il marciume, il livore, l’angoscia e ha funzionato. Sono stato subito meglio, come essermi tolto un peso. Il peso delle parole che mi avevano tormentato e afflitto durante la prima stesura, la revisione e la successiva riscrittura del romanzo e che io ora consegno intatte a voi.

In questo romanzo non c’è spazio per la poesia, non ci sono ricami, niente belletto, lustrini e paillettes. La poesia è morta. Signori, vi sto offrendo la verità, solo la verità. Nient’altro che la verità, nuda e cruda.

Lo giuro.

Nell’introduzione ho voluto citare l’Oppiario di Alvaro de Campos, uno dei tanti eteronimi di Fernando Pessoa:

Non posso stare da nessuna parte.

La mia Patria è dove non mi trovo.

Era proprio quello che intendevo dichiarare con la mia storia. Non poteva essere scritto meglio.

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