Ecco,
ci risiamo. Ci sono cascato ancora. Ho scritto un altro libro, un romanzo
stavolta. Mi è proprio scappato, perdonatemi, ho provato a trattenerlo, ma mi
faceva male dentro, dovevo scriverlo a tutti i costi.
Ora
che è uscito sto meglio.
E
ci sono già alcuni commenti da parte di chi l’ha letto, soprattutto addetti ai
lavori.
Ma
di questo parleremo più avanti.
Eccovi
intanto la prefazione che ho scritto per il romanzo.
Ubi pus, ibi
evacua
Ecco
il mio nuovo libro. È un romanzo criminale, una storia meridionale, ma non è un
noir, né certamente un thriller. In omaggio alle origini, ho rivisitato alcuni
luoghi della mia infanzia. Dal viaggio immaginario nel passato è sorta una
città verticale, che si è stratificata, insieme al potere che la corrode, verso
l’alto. Una città solare, eppure oscura e gotica al tempo stesso, perché è
proprio dove c’è più luce, che s’annida l’ombra più scura.
È
crudo, forte, paradossale? Sì, è proprio quello che cercavo. Volevo che fossero
pugni allo stomaco, sputi negli occhi e schiaffi in faccia. Volevo narrare una
storia scomoda, metterla in scena nel teatro del grottesco, dell’assurdo e del
surreale, con attori fuori dal comune, dotati d’ironia e sfrontatezza, ma anche
d’una buona dose di umanità. Scriverla mi ha fatto comprendere quanto, a volte,
può essere assurda, grottesca e surreale la realtà.
Lo
so, questo libro vi farà uscire fuori dai gangheri, probabilmente lo lancerete
via, ne tormenterete le pagine, forse lo strapperete. Ma, se sarà così, io avrò
raggiunto il mio scopo. Perché volevo darvi un pugno allo stomaco e infilarvi
le dita negli occhi. Volevo scuotervi le coscienze.
È
un romanzo sul rapporto tra fede e religione: il protagonista, e attraverso di
lui l’autore, avvia e porta a termine l’opera di demolizione della Divinità,
riducendola a mero simulacro, a inutile appendice, fino a svuotarla del tutto
di significato.
È
anche un’opera sulla diversità, tema che avevo già affrontato ne L’impero del vento. In quelle storie
desertiche chi è straniero è diverso, altro, alieno. All’opposto, ne La città verticale si sente diverso chi
è a casa sua, mentre dovrebbe sentirsi a proprio agio, come un pesce nel suo
acquario. Invece, non trova pace nella sua stessa casa, nel suo letto, nei
panni che indossa. È il dramma del sentirsi estranei al mondo che ci
appartiene.
Perché
ho scritto questo libro? Si tratterebbe di una domanda salutare se fosse
fornita della risposta, uno scrittore dovrebbe sempre sapere perché ha scritto
un libro, anche se a volte le vere ragioni le apprende molto tempo dopo averlo
fatto. Io lo so perché l’ho scritto, l’ho sempre saputo, fin dall’inizio. Il
tema della diversità, della disomogeneità tra omogenei, della difficoltà di
relazionarsi con i propri simili e riconoscerli uguali, era troppo impellente
in me, andava sviluppato, diversificato, analizzato, sezionato, scorticato fino
a farlo sanguinare.
Dove
c’è pus, bisogna incidere e spurgare.
Ecco
spiegato il titolo della prefazione. Secondo Galeno di Pergamo, medico e
fisiologo della Roma imperiale, la guarigione si ottiene attraverso
l’eliminazione della materia in eccesso, la materia
peccans che, in campo medico è il pus, ma nel mio caso era il marciume, il
livore, l’angoscia e ha funzionato. Sono stato subito meglio, come essermi
tolto un peso. Il peso delle parole che mi avevano tormentato e afflitto
durante la prima stesura, la revisione e la successiva riscrittura del romanzo
e che io ora consegno intatte a voi.
In
questo romanzo non c’è spazio per la poesia, non ci sono ricami, niente
belletto, lustrini e paillettes. La poesia è morta. Signori, vi sto offrendo la
verità, solo la verità. Nient’altro che la verità, nuda e cruda.
Lo
giuro.
Nell’introduzione
ho voluto citare l’Oppiario di Alvaro
de Campos, uno dei tanti eteronimi di Fernando Pessoa:
Non posso stare da nessuna parte.
La mia Patria è dove non mi trovo.
Era
proprio quello che intendevo dichiarare con la mia storia. Non poteva essere
scritto meglio.
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