Mi
piace entrare nei bar sconosciuti, sperduti in remote contrade, o attaccati ai
margini di strade solitarie con le unghie e con i denti, come un naufrago alla
zattera, locali solitari e polverosi, a volte malfamati ed equivoci, vere e
proprie discariche umane a cielo aperto, dove poveri cristi parcheggiati
attendono la fine del giorno.
Mi
piace entrare, ordinare e sorseggiare i loro caffè impossibili e quell’odore di
muffa, di chiuso e stantio, che impregna anche le vesti del barista e la
polvere sul bancone e le ragnatele tra le bottiglie dei liquori e forse anche
sui volti degli avventori, che mi scrutano, m’indagano con viva curiosità,
perché, in fondo, loro sono sempre gli stessi, ormai quasi complementi
d’arredo, ci si accorge della loro presenza solo quando sono assenti, e io invece
no, sono quello nuovo, il cittadino, il forestiero.
Analizzano ogni mio gesto, mi sondano per capire se la
loro cupa disperazione equivale alla mia, se in fondo alla mia anima s’annida
ancora qualche residuo d’umanità che puzza come la loro… COPYRIGHT 2014 ANGELO MEDICI
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