“Quando
sento la parola ‘cultura’ tolgo la sicura alla mia Browning”
disse Hanns
Johst,
drammaturgo nazista.
E
io proprio di questo voglio parlare, della cultura. Di sapere cioè
quello che non serve a niente.
E'
utile?
O
non è piuttosto uno spreco di energie?
Parrebbe
di si, secondo l'Ecclesiaste.
Ed
ho applicato il cuore a cercare e investigare tutto ciò che si fa
sotto il cielo. Ed ecco, tutto è vanità e un correr dietro al
vento. Ciò che è storto non può esser raddrizzato, ciò che manca
non può essere contato. Poichè dov'è molta sapienza v'è molto
affanno e chi accresce la sua scienza, accresce il suo dolore (Vanità
della sapienza)
Ma
davvero sapere è inutile, accresce soltanto la vanità e la
superbia?
Allora,
mi chiedo: è ancora utile passare gli anni della giovinezza, gli
anni migliori, sui libri? O è soltanto una perdita di tempo, uno
spreco di risorse e di energie?
Sentite
cosa ne pensa Eric
Schmidt,
a.d. di Google:
“Se
tutto ciò a cui tenete sono i soldi, andate all’università. Se
tutto ciò a cui tenete è la cultura e la creatività, andate
all’università. Se tutto ciò a cui tenete è divertirvi, andate
all’università”.
Se,
invece, dopo essere andati all’università volete lavorare, andate
all’estero, dico io.
Per
andare all’università, tuttavia, è necessario qualcosa che diamo
per scontato e che in realtà è molto difficile da praticare:
imparare a imparare: apprendere e padroneggiare il metodo di
combinare insieme le informazioni più disparate e utilizzarle al
volo. Studiare insegna che non c’è mai una sola verità, ma che la
verità stessa è molteplice e multiforme, ci fa capire che non c’è
mai un solo punto di vista, ma ce ne sono molti, forse infiniti, e,
soprattutto, che ci dev’essere sempre un’altra possibilità.
Imparare
a imparare, significa essere curiosi, non fermarsi alla superficie
delle cose, ma andare a fondo. Sapere ci dà l’opportunità di
stare in un gruppo e condurlo se è necessario, ma anche lasciarsi
condurre da qualcun altro, se ha intuito un’altra possibilità,
migliore della nostra.
Ho
sempre sostenuto che gli studi universitari non portano vera cultura,
ma solo sapere tecnico, scientifico e specializzazione. La vera
cultura è altro: è il piacere di scoprire e conoscere le cose più
disparate, di appassionarsi a determinati fatti o argomenti, anche se
non servono assolutamente a niente o non possono essere messi in
pratica, oppure utilizzati nella vita di tutti i giorni. Così, una
persona con la quinta elementare può essere più acculturata di una
persona con la laurea in fisica nucleare, semplicemente perché ha
più curiosità nei confronti della vita, del mondo, della storia e
del pensiero e la soddisfa attraverso i libri, le manifestazioni e le
rappresentazioni artistiche e in ogni altro forma possibile.
Allo
stesso modo, ho sempre creduto che il fatto di aver frequentato
l’università ed essersi presi una laurea non sia una garanzia per
la persona che l’ha conseguita, sotto tutti i punti di vista,
soggettivo, caratteriale, ma soprattutto etico e morale. Anzi,
ritenevo e ritengo che la laurea sia un catalizzatore di personalità,
nel senso che se un individuo ha delle buone qualità di base, come
ad esempio, il senso di giustizia e di equità, la lealtà, la
capacità di mediazione e la saggezza, la laurea non farà altro che
aumentarle queste qualità. Se invece, è uno stronzo, egoista,
opportunista, intollerante, la laurea conseguita non lo aiuterà
certo a migliorare, ma non farà che aumentare tali caratteristiche,
rendendolo ancora più stronzo, ancora più egoista, ancora più
intollerante…
Ho
scoperto soltanto da poco che i miei pensieri non erano originali ma
erano già stati elaborati quasi cento anni prima da Gaetano
Salvemini,
il grande meridionalista e socialista, allievo a sua volta di un
altro grande meridionalista e socialista, Pasquale
Villari.
Ne
La
sinistra e la questione meridionale
ritiene infatti che la cultura sia il “superfluo
indispensabile, l’insieme di tutte quelle conoscenze che non
servono a nulla, ma di cui non è lecito fare a meno”.
Ecco
la capacità di sintesi che mi manca, sentite come scorre senza
intoppi questa frase. E' superba ed essenziale, non si può
aggiungere altro! Ma Salvemini,
evidentemente non ancora soddisfatto, vi aggiunge una citazione –
non sono riuscito a scoprire di chi -, secondo la quale, la cultura
non è altro “ciò
che resta in noi dopo che abbiamo dimenticato tutto quello che
avevamo imparato”;
quello che rimane, cioè, quando la mente si sgombra di tutte le
svariate nozioni, informazioni ed elementi che abbiamo appreso e
continuamente apprendiamo nel corso della vita e resta soltanto il
solco che hanno impresso nel nostro animo quelle idee, quelle
nozioni, resta soltanto la scia che hanno lasciato nelle nostre
intelligenze. Ma ci basta incamminarci lungo quel solco, ci basta
seguirla quella scia, e torneremo alle idee e alle conoscenze a loro
collegate, oppure ad altre, del tutto nuove.
Da
tutto questo deriva, secondo Salvemini,
il fatto che un contadino che sappia appena leggere e scrivere, possa
diventare un uomo di cultura, perché possiede gli strumenti per
addentrarsi nel sapere, mentre un laureato rischia seriamente di
essere un esimio ignorante, se, pur disponendo degli strumenti per
indagare il sapere, si è fermato al tecnicismo scientifico –
specialistico che gli ha apportato il suo titolo di studio, senza
andare mai oltre.
In
verità, dal primo all’ultimo respiro, non smettiamo mai
d’imparare.
E
rifuggiamo l’ignoranza, perchè nasce da un equivoco di fondo.
L’illusione
di sapere.