domenica 21 febbraio 2016

Male di miele




Non si tratta di qualcosa che ho definitivamente perso, no. E' come un flusso di marea. So che tornerà. E' quello che voglio credere mentre mi aggiro fra le pietre di questo borgo medievale. Per anni ho vagato nella vita come un cieco, sbattendo contro porte chiuse che credevo aperte. Quante volte ho atteso davanti a un muro aspettando che si aprisse, credendolo una porta? E mi ritrovavo ancora una volta sconfitto dall'impermanenza dei sentimenti. Niente dura per sempre. Niente. Neppure l'amore.

Ma oggi finalmente la luce. Quello che dovevo fare l'ho fatto. Ciò che doveva compiersi si è compiuto. Il sole è all'orizzonte, assiso sul trono nel punto più elevato del suo impero di luce. L'azzurro infinito del cielo si riflette sulle cime dei monti e mi entra nelle narici, nei pori, nel cervello. La luce è quasi insopportabile.

Oggi è il solstizio d'estate, il giorno più lungo dell'anno. La luce ha lottato con le tenebre e le tenebre sono state sconfitte. Ora sono negli angoli umidi, defilati, ai margini della vita, dove si sono ritirate, mogie mogie, a leccarsi le ferite. Ma fino a ieri pioveva e ho trascorso la notte della vigilia in trepidante attesa che il sole trionfasse sulla pioggia e sulle tenebre e soltanto all'alba ho celebrato la sua vittoria.

La brezza trasporta adesso un odore nuovo. L'ho già sentito, eppure stento a riconoscerlo. E' dolce e penetrante, al tempo stesso, come una fragranza di fiori sbocciati su nuvole di zenzero e cumino.

I miei passi si muovono incerti nel gioco di luci e ombre dei vicoli. Ma le pietre antiche, gli alberi, le case, mi riconoscono. Sei già stato qui, sembrano dire, sicuro. Noi non dimentichiamo mai una faccia e la tua ce la ricordiamo bene. Si che ci sei stato.

Si che ci sono stato. Ma è accaduto tanto tempo fa. Però ricordo ogni viuzza, ogni angolo di muro, ogni ciuffo d'erba. Non ho fatto altro per tutta la strada che mi ha condotto fino qui. Forse, non ho fatto altro per tutta la vita. Cercare di tornare e intanto, ricordare.

Ecco finalmente la porta. Quella porta. Quante volte l'ho desiderata, quante volte ho sognato quell'uscio, come fosse il portale dei sogni. Salgo gli scalini a due a due, e stavolta la fortuna è dalla mia parte. La porta è socchiusa, spingo il battente ed entro.

Un'oscurità assoluta e ostile mi assale e mi divora, pezzo dopo pezzo; dapprima una mano, poi le braccia e le gambe e infine il viso. Annego nel buio. Il nero è opprimente. Il fondo di un pozzo senza fondo non potrebbe essere più oscuro. La mia testa è imprigionata in un vortice di vertigine e silenzio nel quale precipito. Non riesco a respirare, non mi aspettavo questo buio così fitto e impenetrabile. Sono cieco, sordo, muto.

Mi muovo a tentoni in un piccolo dedalo di stanze, nicchie e corridoi. Un angiporto annegato nel silenzio. Ma risento il profumo, quell'odore che mi ha condotto fino qui, una scia di desiderio sparsa sui muri, sugli orpelli, nell'etere di questo minuscola dimora.

Ogni cosa in questa casa sa di lei. Soledad.

Ero certo che quel nome avesse a che fare con le pianure assolate, l'astro del giorno e la luce. Oggi apprendo che significa soltanto solitudine.

Un chiarore lontano disseta le mie pupille e lava via gli ultimi granelli del deserto di tenebra; riprendo a respirare. La fiamma di una candela tremola incerta in fondo al corridoio. La sua luce è debole, ma ho visto quello che volevo vedere.

L'ultima porta.

E' a guardia di una stanza, dove sono tornato molte volte, in sogno. Impugno la maniglia e spingo. Il legno antico scricchiola sui cardini e il tenue chiarore che entra dal corridoio è un angolo di luce che si apre lentamente e s'insinua nell'oscurità.

Capelli corvini dai riflessi violetti, occhi neri ardenti, liquidi, come velati dal pianto, tanto scuri da sembrare blu, la curva dei seni morbida e piena. Monili d'oro sparsi sul suo corpo, gocce dorate, intarsiate qua e là sulla pelle scura, come un'icona offuscata dal tempo e dal fumo delle candele. Orofumo, un giallo che sa di mistero e attesa, un colore antico, velato dalla polvere del tempo, come un matrimonio fra la luce e le tenebre.

Adoro il modo in cui il presente diviene passato. Ma oggi voglio fermare il tempo, congelare il suo flusso, arrestare questa emorragia che mi dissangua e che mi sta portando, ancora una volta, via da lei.

Spalanco la finestra e il sole invade prepotente la sua stanza. La luce irrompe come un oceano in tempesta e scatena la sua furia fra queste quattro mura. Un maelstrom, un vortice di luce nel quale sprofondiamo. Poi la burrasca si placa e sul mare di luce torna la quiete. Onde di miele scendono liquide sul suo corpo nudo, rallentando sulle convessità, affrettandosi nelle concavità. E l'oro dei gioielli, dell'ombretto e delle sue unghie si ravviva, si rianima e sembra fondere sotto i raggi del sole. Una donna tutta d'oro, 24 carati soltanto per me. La sua pelle brucia e abbaglia i miei occhi, i suoi seni svettano nella luce, la sua pelle è oro. Lei sorride e mi confonde.

La prepotenza dei suoi occhi, la sua voce dentro la testa, la sua figura che svanisce e ricompare e, come la marea, va e viene. Le regole dell'assenza ho imparato a conoscerle alla perfezione.

L'abisso fra le gambe trasuda miele, il frutto del sole, dolce e delicato. Sono insaziabile, incontenibile, folle. Ne sono ghiotto da star male. Questo male dentro, un dolore appiccicoso e dolce come il miele, scivola fra le mie dita e finalmente me ne nutro.

Male di miele.



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