L'anno
scolastico era quasi al termine. Ero felice, le tiepidi brezze di
maggio mi facevano dimenticare il freddo e la neve; alla luce del
sole era quasi impossibile credere che ci fosse stata una stagione
chiamata inverno.
All'uscita
di scuola trovai mia madre. Strano, non veniva mai a prendermi.
Facemmo
alcuni passi insieme. Mi passò una mano fra i capelli e mi sistemò
il grembiule, che portavo sempre mezzo aperto e un po' a sghimbescio
sulle spalle. Ero lieto della sua presenza. Pregustavo una sorpresa e
aspettavo.
Sciami
ronzanti e blu di scolari ci raggiunsero e ci perdemmo nel loro
flusso, ma poiché eravamo più lenti, presto ci lasciarono indietro.
Mia
madre si fermò davanti a una vetrina e il mio cuore prese a
palpitare. Era un piccolo negozio di paese, un bazar dove vendevano
un po' di tutto, anche macchinine, pistole e figurine dei calciatori.
Le nostre immagini riflesse si ricomponevano come un mosaico sul
cristallo inondato di luce. Mi accorsi che mi guardava attraverso lo
specchio improvvisato, eppure non si decideva a parlare. Percepii
tensione nei suoi occhi. C'era qualcosa che non andava.
“Sai,
dovresti salutare i tuoi compagni” disse con un tono che non avevo
mai sentito prima. “Presto partiremo.”
“Partiremo?”
chiesi come inebetito. Quelle parole mi avevano colpito come una
mazzata sulla testa.
Un'afflitta
dolcezza velò il suo viso. Cercò il mio sguardo, forse per carpire
le mie reazioni, forse per trovarvi comprensione.
“Tuo
padre è stato trasferito, noi lo seguiremo.”
I
suoi occhi! Accidenti, non riuscivo a sopportare il suo sguardo. I
suoi occhi erano i miei occhi! In quel momento mi resi conto
di quanto eravamo uguali. Maledettamente uguali.
Mi
accarezzò la guancia.
Fra
me e i miei simili ci sono oceani perennemente in tempesta.
Impossibili da attraversare. Ma tra me e mia madre non c'era neanche
il fondo di un lago prosciugato. Non sono mai stato tanto vicino a un
altro essere umano, come con lei. Ma quella volta non bastò.
“Non
è vero!” urlai.
Allontanai
bruscamente la sua mano dal mio volto, la carezza bruciava come una
sberla, e mi misi a correre, correre, correre. Mi fermai senza fiato
alla fine della strada. Non sapevo dove andare. Ma non volevo più
vederla, non volevo più stare con lei. Mi appoggiai contro un muro e
sentii la faccia calda e bagnata. Stavo piangendo.
Partiremo,
presto partiremo...
Le sue parole mi rimbombavano nel petto come un rullo selvaggio di
tamburi e la loro eco non si spegneva.
Partiremo!
Ma per dove?
Era
quello l'unico mondo che conoscevo, lì c'era la mia casa, il
giardino dal cancello verde, la strada dove abitavano i miei
compagni. E il lago, occhio di giada sullo sfondo dell'orizzonte. Non
riuscivo a pensare che potesse esistere un altrove, un universo
parallelo dove la vita scorreva allo stesso modo, come un placido
fiume lungo le cui rive si potesse giocare, scorrazzare in
bicicletta, andare a scuola, arrampicarsi sugli alberi. Una vita che
somigliasse almeno un po' a quella che avevo condotto fino ad allora
in quelle sperdute campagne di Capitanata.
Venne
la bella stagione. L'estate di un bambino dura quanto una vita
intera. Mi sforzai di non pensare alle parole di mia madre. E ci
riuscii.
Una
sera tornai a casa stanco, sporco, sudato. I nostri giochi erano
alquanto impegnativi e ad essi ci applicavamo con una serietà
insospettabile per i nostri anni. Frugo le mie tasche e la mia mente
va a quei giorni. Rivedo le macchie sulle mani e sui vestiti, porto
ancora quegli oggetti e quegli odori addosso. Un fazzoletto lurido,
una biglia di vetro, un soldatino senza testa. E terra, polvere, erba
strappata.
La
mia famiglia era riunita per la cena, circostanza che mi parve
inconsueta, in soggiorno. Mia madre mi fissò a lungo, come per
trovare le parole, o il coraggio di pronunciarle. Ma non disse nulla.
Mio padre non mi guardava neppure. Accarezzava la testa di una delle
mie sorelle. Cenammo in silenzio, poi ognuno guadagnò il suo letto.
La
mattina fui svegliato da un certo trambusto. Il mio armadio era
aperto e non conteneva quasi più nulla. Una valigia giaceva in mezzo
alla stanza.
Me
n'ero completamente dimenticato!
Mia
madre emerse dalla cucina e mi chiamò. Mi misi a tremare come se
avessi freddo. “Angelo! Non fare così. E' difficile anche per
noi.” Le sue parole suonarono come il preludio a un incubo.
Non
chiamarmi così! avrei voluto urlarle. Anche il mio nome cominciava a
diventarmi odioso. Non chiamarmi mai più!
Corsi
via senza fare colazione.
Fuori
il mondo non era cambiato affatto, non vi era traccia di armadi
svuotati e di valigie pronte; ogni cosa era al suo posto, le case, la
strada, gli alberi solidamente ancorati al suolo. Nessuno di loro
aveva l'intenzione di partire e una lieve speranza s'insinuò nel mio
cuore. Era una bella giornata e durante le belle giornate ogni cosa
può accadere. Anche di rimandare una partenza.
A
sera, ero ancora in strada, come sempre, fra i miei compagni. Li
conoscevo bene, uno a uno, avevo passato con loro ogni ora del giorno
e anche quelle della notte, se avessi potuto, e condiviso le grandi
gioie e i piccoli dolori di quei miei pochi anni. Crescevo insieme a
loro, in mezzo alla strada. Erano i fratelli che non avevo.
Giocavamo
a indiani e cowboy. Mi ricordo che mi nascosi in giardino, dietro una
siepe, per anticipare le mosse dei bianchi dalla lingua biforcuta, e
fu allora che vidi mio padre che caricava la macchina.
Non
c'era più speranza!
Ingoiai
le lacrime - gli indiani non piangono mai -, avevano un sapore amaro.
La giornata era finita e non era accaduto nulla che potesse
scongiurare la partenza.
Uscii
dal nascondiglio e mi arresi ai visi pallidi. Mi lasciai catturare
senza opporre resistenza. Il gioco divenne opprimente. Continuai a
prendervi parte più per dovere che altro, interpretando male il mio
personaggio. Incedevo pigro e apatico sulle pietre di tufo, portando
un macigno nel cuore. Ero arrendevole, remissivo, condiscendente. Un
indiano come me non si era mai visto. Più volte mi sgridarono a
causa della mia fiacca e poco attendibile partecipazione. Ma le
avventure di mandriani a cavallo e pennuti pellirossa non mi
interessavano più. Quello che giocava con loro era un altro bambino.
Io ero già partito.
I
miei compagni lo capirono. Mi guardarono in faccia e videro gli occhi
di uno sconosciuto, di uno straniero. Ora ero davvero un indiano. Il
gioco degenerò e vidi nascere sui loro volti incomprensione,
collera, furore. Sputi, calci e pugni mi caddero addosso come se
piovesse.
Dalle
mie parti si coltiva un vasto campionario di percosse. C'è la
scoppola,
che ti fa letteralmente ribaltare il capo in avanti e cadere il
cappello, lo scurzino,
che a dispetto del diminutivo, è uno schiaffo particolarmente
rumoroso. E poi il leccamuss,
che ti prende appena appena sotto il mento e fa di un male! Lo
scennente,
lo schiaffo che scende in picchiata, detto scennentone,
se è davvero forte; il puapagno,
il classico pugno che ti si stampa in faccia e ti addormenta; il va
e viè,
lo schiaffo doppio, andata e ritorno. E il manvierz,
l'immancabile manrovescio.
Quell'ultima
sera, i miei amichetti mi suonarono l'intero repertorio.
Io
non mi difendevo, non provai neppure a spiegare, ma non piansi. Non
piansi neppure una lacrima, le tenni tutte per me. Le tenni per dopo.
Ma
quelle botte facevano male.
E
fa più male se a suonartele è qualcuno a cui vuoi bene, o che ti
voleva bene.
Tornai
a casa, sporco e pieno di lividi e bernoccoli. Mia madre mi guardò,
ma non disse nulla. Saltai la cena e andai direttamente a letto.
L'ultima notte nella mia cameretta.
L'ultima
notte, per Dio!
Niente
più casa mia, niente più giardino dal cancello verde, mai più la
mia strada e mai più l'occhio di giada all'orizzonte. E addio
compagni miei, mai più vi rivedrò.
Mai
più.
L'ultimo
ricordo che ho di voi sono i vostri calci e i vostri schiaffi. Ma ho
visto che piangevate mentre me le suonavate. Singhiozzavate mentre mi
sputavate addosso e mi tiravate i capelli.
Sorse
il sole in un modo o nell'altro, e partimmo. Mi aggrappai alle
coperte, alle tende, ai mobili, dovettero trascinarmi fuori di peso.
Urlavo, sbraitavo, scalciavo.
E
piangevo.
Non
riuscii neppure a vedere la porta di casa che si chiudeva per sempre.
Le lacrime mi offuscavano la vista. Ma non ci fu niente da fare.
Partimmo.
Non
potemmo portarci dietro neppure Buck, il mio adorato meticcio, perchè
dove saremo andati non ci sarebbe stato posto per lui.
In
macchina mi chiusi in un mutismo ostinato e feci piangere mia madre.
Ero andato bene a scuola, mi ero comportato bene con le mie sorelle,
avevo ubbidito ai miei genitori. Non capivo quel castigo. Mi sentivo
condannato per una colpa che non avevo commesso, e glielo dissi,
senza giri di parole, con il freddo negli occhi. Come mi fece male
vedere quei suoi-miei begli occhi riempirsi di lacrime. Tentò di
parlare, di spiegare, di farmi riflettere, ma io non volli ascoltare.
Tre
lunghe ore si protrasse quella triste deportazione, e in qualche
modo, finalmente, arrivammo.
Ma
le brutte sorprese di quello scorcio d'estate morente non erano
ancora finite. Seppi che la mia famiglia sarebbe tornata indietro,
poichè i miei genitori dovevano sbrigare ancora certi affari, prima
di lasciare definitivamente il paese. Ma io no, io naturalmente non
avrei potuto seguirli, presto sarebbe iniziata la scuola, non avrei
dovuto perdere neppure un giorno. Così, pur di rispettare gli
obblighi scolastici, mi mollarono come un pacco in un luogo in cui
non ero mai stato e fui solo per tre lunghi mesi.
Quell'autunno,
scappai di casa tre volte. Le prime due mi ripresero subito, la terza
volta per un pelo non riuscii a svignarmela sul serio. Avevo già il
biglietto del treno in tasca. La Capitanata, mi dicevano, è un posto
pieno di sassi, polvere e spine. Perchè vuoi tornare? Ma io in mezzo
ai sassi, alla polvere e alle spine avevo lasciato il mio cuore.
Sarei tornato anche a piedi.
Si
occupava di me una nonna sconosciuta che con pazienza e attenzione si
sforzò di sostituirsi a mia madre. E ci riuscì. Bacerei la terra
dove lei ha camminato.
Non
altrettanto bene andava a scuola. Non c'era la mia bionda maestra di
Capitanata, ma un insegnante arcigno e attempato, e chissà perchè,
i nuovi compagni di classe non avevano alcuna intenzione di
sostituirsi ai vecchi. Io ero quello nuovo, l'altro, il forestiero.
Non parlavamo neppure allo stesso modo.
Ciò
che oggi chiamano bullismo c'era anche a quel tempo, ma era
considerato un affare per bambini.
“Lasciate
che se la sbrighino da soli. Non dobbiamo intrometterci” dicevano i
grandi mentre le prendevo.
E
così fu. Me la sbrigai da solo. E fu un bene, perchè imparai a
cavarmela.
Era
la prima volta che scendevo sotto la superficie. E lì sotto era buio
pesto. Ma riuscii ad accendere la luce e riemergere.
Mi
muovevo in una solitudine affollata, sentendomi sempre sull'orlo di
un abisso. A volte mi sentivo vecchio, a volte giovane. Le ore
scorrevano lente e tutte uguali. Spesso mi perdevo a contemplare quel
nuovo orizzonte, vinto dalla pesantezza dell'arancia dopo pranzo. Il
sole calava presto dietro le colline tonde come pani di zucchero. Io
pensavo a Buck nella sua cuccia, sotto la neve che copriva il
giardino dal cancello verde e imparai la nostalgia, una strana
combinazione di presente e passato. Ma in fondo alla valle scorreva
il fiume, serpente di giada.
Quando
tornarono i miei genitori era Natale e io ero un altro. A stento mi
riconobbero. Ero cresciuto. Ma quante ne avevo prese!
I
colpi ricevuti fanno male, ma anche bene.
T'insegnano
a schivarli, la prossima volta.
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2016 ANGELO MEDICI
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In un modo o nell'altro, girandoci intorno o sbattendoci contro, è sempre là che torno. Ai luoghi della mia infanzia.
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