sabato 27 febbraio 2016

Il cancello verde


L'anno scolastico era quasi al termine. Ero felice, le tiepidi brezze di maggio mi facevano dimenticare il freddo e la neve; alla luce del sole era quasi impossibile credere che ci fosse stata una stagione chiamata inverno.
All'uscita di scuola trovai mia madre. Strano, non veniva mai a prendermi.
Facemmo alcuni passi insieme. Mi passò una mano fra i capelli e mi sistemò il grembiule, che portavo sempre mezzo aperto e un po' a sghimbescio sulle spalle. Ero lieto della sua presenza. Pregustavo una sorpresa e aspettavo.
Sciami ronzanti e blu di scolari ci raggiunsero e ci perdemmo nel loro flusso, ma poiché eravamo più lenti, presto ci lasciarono indietro.
Mia madre si fermò davanti a una vetrina e il mio cuore prese a palpitare. Era un piccolo negozio di paese, un bazar dove vendevano un po' di tutto, anche macchinine, pistole e figurine dei calciatori. Le nostre immagini riflesse si ricomponevano come un mosaico sul cristallo inondato di luce. Mi accorsi che mi guardava attraverso lo specchio improvvisato, eppure non si decideva a parlare. Percepii tensione nei suoi occhi. C'era qualcosa che non andava.
“Sai, dovresti salutare i tuoi compagni” disse con un tono che non avevo mai sentito prima. “Presto partiremo.”
“Partiremo?” chiesi come inebetito. Quelle parole mi avevano colpito come una mazzata sulla testa.
Un'afflitta dolcezza velò il suo viso. Cercò il mio sguardo, forse per carpire le mie reazioni, forse per trovarvi comprensione.
“Tuo padre è stato trasferito, noi lo seguiremo.”
I suoi occhi! Accidenti, non riuscivo a sopportare il suo sguardo. I suoi occhi erano i miei occhi! In quel momento mi resi conto di quanto eravamo uguali. Maledettamente uguali.
Mi accarezzò la guancia.
Fra me e i miei simili ci sono oceani perennemente in tempesta. Impossibili da attraversare. Ma tra me e mia madre non c'era neanche il fondo di un lago prosciugato. Non sono mai stato tanto vicino a un altro essere umano, come con lei. Ma quella volta non bastò.
“Non è vero!” urlai.
Allontanai bruscamente la sua mano dal mio volto, la carezza bruciava come una sberla, e mi misi a correre, correre, correre. Mi fermai senza fiato alla fine della strada. Non sapevo dove andare. Ma non volevo più vederla, non volevo più stare con lei. Mi appoggiai contro un muro e sentii la faccia calda e bagnata. Stavo piangendo.
Partiremo, presto partiremo... Le sue parole mi rimbombavano nel petto come un rullo selvaggio di tamburi e la loro eco non si spegneva.
Partiremo! Ma per dove?

Era quello l'unico mondo che conoscevo, lì c'era la mia casa, il giardino dal cancello verde, la strada dove abitavano i miei compagni. E il lago, occhio di giada sullo sfondo dell'orizzonte. Non riuscivo a pensare che potesse esistere un altrove, un universo parallelo dove la vita scorreva allo stesso modo, come un placido fiume lungo le cui rive si potesse giocare, scorrazzare in bicicletta, andare a scuola, arrampicarsi sugli alberi. Una vita che somigliasse almeno un po' a quella che avevo condotto fino ad allora in quelle sperdute campagne di Capitanata.
Venne la bella stagione. L'estate di un bambino dura quanto una vita intera. Mi sforzai di non pensare alle parole di mia madre. E ci riuscii.
Una sera tornai a casa stanco, sporco, sudato. I nostri giochi erano alquanto impegnativi e ad essi ci applicavamo con una serietà insospettabile per i nostri anni. Frugo le mie tasche e la mia mente va a quei giorni. Rivedo le macchie sulle mani e sui vestiti, porto ancora quegli oggetti e quegli odori addosso. Un fazzoletto lurido, una biglia di vetro, un soldatino senza testa. E terra, polvere, erba strappata.
La mia famiglia era riunita per la cena, circostanza che mi parve inconsueta, in soggiorno. Mia madre mi fissò a lungo, come per trovare le parole, o il coraggio di pronunciarle. Ma non disse nulla. Mio padre non mi guardava neppure. Accarezzava la testa di una delle mie sorelle. Cenammo in silenzio, poi ognuno guadagnò il suo letto.
La mattina fui svegliato da un certo trambusto. Il mio armadio era aperto e non conteneva quasi più nulla. Una valigia giaceva in mezzo alla stanza.
Me n'ero completamente dimenticato!
Mia madre emerse dalla cucina e mi chiamò. Mi misi a tremare come se avessi freddo. “Angelo! Non fare così. E' difficile anche per noi.” Le sue parole suonarono come il preludio a un incubo.
Non chiamarmi così! avrei voluto urlarle. Anche il mio nome cominciava a diventarmi odioso. Non chiamarmi mai più!
Corsi via senza fare colazione.
Fuori il mondo non era cambiato affatto, non vi era traccia di armadi svuotati e di valigie pronte; ogni cosa era al suo posto, le case, la strada, gli alberi solidamente ancorati al suolo. Nessuno di loro aveva l'intenzione di partire e una lieve speranza s'insinuò nel mio cuore. Era una bella giornata e durante le belle giornate ogni cosa può accadere. Anche di rimandare una partenza.
A sera, ero ancora in strada, come sempre, fra i miei compagni. Li conoscevo bene, uno a uno, avevo passato con loro ogni ora del giorno e anche quelle della notte, se avessi potuto, e condiviso le grandi gioie e i piccoli dolori di quei miei pochi anni. Crescevo insieme a loro, in mezzo alla strada. Erano i fratelli che non avevo.
Giocavamo a indiani e cowboy. Mi ricordo che mi nascosi in giardino, dietro una siepe, per anticipare le mosse dei bianchi dalla lingua biforcuta, e fu allora che vidi mio padre che caricava la macchina.
Non c'era più speranza!
Ingoiai le lacrime - gli indiani non piangono mai -, avevano un sapore amaro. La giornata era finita e non era accaduto nulla che potesse scongiurare la partenza.

Uscii dal nascondiglio e mi arresi ai visi pallidi. Mi lasciai catturare senza opporre resistenza. Il gioco divenne opprimente. Continuai a prendervi parte più per dovere che altro, interpretando male il mio personaggio. Incedevo pigro e apatico sulle pietre di tufo, portando un macigno nel cuore. Ero arrendevole, remissivo, condiscendente. Un indiano come me non si era mai visto. Più volte mi sgridarono a causa della mia fiacca e poco attendibile partecipazione. Ma le avventure di mandriani a cavallo e pennuti pellirossa non mi interessavano più. Quello che giocava con loro era un altro bambino. Io ero già partito.
I miei compagni lo capirono. Mi guardarono in faccia e videro gli occhi di uno sconosciuto, di uno straniero. Ora ero davvero un indiano. Il gioco degenerò e vidi nascere sui loro volti incomprensione, collera, furore. Sputi, calci e pugni mi caddero addosso come se piovesse.
Dalle mie parti si coltiva un vasto campionario di percosse. C'è la scoppola, che ti fa letteralmente ribaltare il capo in avanti e cadere il cappello, lo scurzino, che a dispetto del diminutivo, è uno schiaffo particolarmente rumoroso. E poi il leccamuss, che ti prende appena appena sotto il mento e fa di un male! Lo scennente, lo schiaffo che scende in picchiata, detto scennentone, se è davvero forte; il puapagno, il classico pugno che ti si stampa in faccia e ti addormenta; il va e viè, lo schiaffo doppio, andata e ritorno. E il manvierz, l'immancabile manrovescio.
Quell'ultima sera, i miei amichetti mi suonarono l'intero repertorio.
Io non mi difendevo, non provai neppure a spiegare, ma non piansi. Non piansi neppure una lacrima, le tenni tutte per me. Le tenni per dopo.
Ma quelle botte facevano male.
E fa più male se a suonartele è qualcuno a cui vuoi bene, o che ti voleva bene.
Tornai a casa, sporco e pieno di lividi e bernoccoli. Mia madre mi guardò, ma non disse nulla. Saltai la cena e andai direttamente a letto. L'ultima notte nella mia cameretta.
L'ultima notte, per Dio!
Niente più casa mia, niente più giardino dal cancello verde, mai più la mia strada e mai più l'occhio di giada all'orizzonte. E addio compagni miei, mai più vi rivedrò.
Mai più.
L'ultimo ricordo che ho di voi sono i vostri calci e i vostri schiaffi. Ma ho visto che piangevate mentre me le suonavate. Singhiozzavate mentre mi sputavate addosso e mi tiravate i capelli.
Sorse il sole in un modo o nell'altro, e partimmo. Mi aggrappai alle coperte, alle tende, ai mobili, dovettero trascinarmi fuori di peso. Urlavo, sbraitavo, scalciavo.
E piangevo.
Non riuscii neppure a vedere la porta di casa che si chiudeva per sempre. Le lacrime mi offuscavano la vista. Ma non ci fu niente da fare. Partimmo.
Non potemmo portarci dietro neppure Buck, il mio adorato meticcio, perchè dove saremo andati non ci sarebbe stato posto per lui.
In macchina mi chiusi in un mutismo ostinato e feci piangere mia madre. Ero andato bene a scuola, mi ero comportato bene con le mie sorelle, avevo ubbidito ai miei genitori. Non capivo quel castigo. Mi sentivo condannato per una colpa che non avevo commesso, e glielo dissi, senza giri di parole, con il freddo negli occhi. Come mi fece male vedere quei suoi-miei begli occhi riempirsi di lacrime. Tentò di parlare, di spiegare, di farmi riflettere, ma io non volli ascoltare.
Tre lunghe ore si protrasse quella triste deportazione, e in qualche modo, finalmente, arrivammo.
Ma le brutte sorprese di quello scorcio d'estate morente non erano ancora finite. Seppi che la mia famiglia sarebbe tornata indietro, poichè i miei genitori dovevano sbrigare ancora certi affari, prima di lasciare definitivamente il paese. Ma io no, io naturalmente non avrei potuto seguirli, presto sarebbe iniziata la scuola, non avrei dovuto perdere neppure un giorno. Così, pur di rispettare gli obblighi scolastici, mi mollarono come un pacco in un luogo in cui non ero mai stato e fui solo per tre lunghi mesi.
Quell'autunno, scappai di casa tre volte. Le prime due mi ripresero subito, la terza volta per un pelo non riuscii a svignarmela sul serio. Avevo già il biglietto del treno in tasca. La Capitanata, mi dicevano, è un posto pieno di sassi, polvere e spine. Perchè vuoi tornare? Ma io in mezzo ai sassi, alla polvere e alle spine avevo lasciato il mio cuore. Sarei tornato anche a piedi.
Si occupava di me una nonna sconosciuta che con pazienza e attenzione si sforzò di sostituirsi a mia madre. E ci riuscì. Bacerei la terra dove lei ha camminato.
Non altrettanto bene andava a scuola. Non c'era la mia bionda maestra di Capitanata, ma un insegnante arcigno e attempato, e chissà perchè, i nuovi compagni di classe non avevano alcuna intenzione di sostituirsi ai vecchi. Io ero quello nuovo, l'altro, il forestiero. Non parlavamo neppure allo stesso modo.
Ciò che oggi chiamano bullismo c'era anche a quel tempo, ma era considerato un affare per bambini.
“Lasciate che se la sbrighino da soli. Non dobbiamo intrometterci” dicevano i grandi mentre le prendevo.
E così fu. Me la sbrigai da solo. E fu un bene, perchè imparai a cavarmela.
Era la prima volta che scendevo sotto la superficie. E lì sotto era buio pesto. Ma riuscii ad accendere la luce e riemergere.
Mi muovevo in una solitudine affollata, sentendomi sempre sull'orlo di un abisso. A volte mi sentivo vecchio, a volte giovane. Le ore scorrevano lente e tutte uguali. Spesso mi perdevo a contemplare quel nuovo orizzonte, vinto dalla pesantezza dell'arancia dopo pranzo. Il sole calava presto dietro le colline tonde come pani di zucchero. Io pensavo a Buck nella sua cuccia, sotto la neve che copriva il giardino dal cancello verde e imparai la nostalgia, una strana combinazione di presente e passato. Ma in fondo alla valle scorreva il fiume, serpente di giada.
Quando tornarono i miei genitori era Natale e io ero un altro. A stento mi riconobbero. Ero cresciuto. Ma quante ne avevo prese!
I colpi ricevuti fanno male, ma anche bene.
T'insegnano a schivarli, la prossima volta.

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1 commento:

  1. In un modo o nell'altro, girandoci intorno o sbattendoci contro, è sempre là che torno. Ai luoghi della mia infanzia.

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