domenica 28 febbraio 2016

Sotto l'onda


Sotto le onde del tuo mare

riconosco la mia sconfitta

la mia vittoria sul niente

e la mia falsa gioia

In questo mondo nero e sommerso di rabbia

la tua sconfitta

la tua vittoria sulla vita

e la tua vera gioia

Sono nel tuo mondo vivido

sono nella tua gloria effimera

sono nella tua menzogna

e sento già l'acqua alla gola

Sotto una coltre di silenzio e sonno

con la bocca piena di sale

assaporo l'amarezza

nella noia nel silenzio e nel rancore

In ogni lacrima che scende

in ogni goccia che cade

in ogni vita che va

L'inganno padre del dolore

la farsa madre della disperazione

ultimi attori rimasti

a calcare assi scricchiolanti

dietro un sipario di velluto nero

calato come tenebra sulle mie domande

Ma ecco l'acqua alle narici

e già non respiro più

Che strano non è come morire

non è come l'avevo immaginato

E ora sono sotto l'onda

e ora sono sotto la vita

Nessuno mi può salvare


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L'altra metà


Sexy sbocciò nel punto g di non ritorno

tenera e calda sotto le dita

e lacrima e trasuda

viscidi umori

vergine madre troia


La migliore delle intenzioni rotolava oltre l'estasi

e latrava come una cagna in calore

eppure aveva visto tempi migliori

e assistito alle nostre più insane esibizioni

tra la polvere e il silenzio

e ragnatele pendule

come brandelli di pelle morta


Ma d'un tratto lo spettacolo era interrotto

da sordi colpi alla porta

dalla richiesta di spiegazioni


Amavo le tue costole

inferriate d'una gabbia dorata

e le tue anche

misteriose insenature da esplorare


Sottili guizzi di pennello

lei deglutiva niente affatto convinta

anzi certa

che sarebbe stato preferibile

non aver incontrato il suo sguardo

in quel giorno di vento



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sabato 27 febbraio 2016

Il cancello verde


L'anno scolastico era quasi al termine. Ero felice, le tiepidi brezze di maggio mi facevano dimenticare il freddo e la neve; alla luce del sole era quasi impossibile credere che ci fosse stata una stagione chiamata inverno.
All'uscita di scuola trovai mia madre. Strano, non veniva mai a prendermi.
Facemmo alcuni passi insieme. Mi passò una mano fra i capelli e mi sistemò il grembiule, che portavo sempre mezzo aperto e un po' a sghimbescio sulle spalle. Ero lieto della sua presenza. Pregustavo una sorpresa e aspettavo.
Sciami ronzanti e blu di scolari ci raggiunsero e ci perdemmo nel loro flusso, ma poiché eravamo più lenti, presto ci lasciarono indietro.
Mia madre si fermò davanti a una vetrina e il mio cuore prese a palpitare. Era un piccolo negozio di paese, un bazar dove vendevano un po' di tutto, anche macchinine, pistole e figurine dei calciatori. Le nostre immagini riflesse si ricomponevano come un mosaico sul cristallo inondato di luce. Mi accorsi che mi guardava attraverso lo specchio improvvisato, eppure non si decideva a parlare. Percepii tensione nei suoi occhi. C'era qualcosa che non andava.
“Sai, dovresti salutare i tuoi compagni” disse con un tono che non avevo mai sentito prima. “Presto partiremo.”
“Partiremo?” chiesi come inebetito. Quelle parole mi avevano colpito come una mazzata sulla testa.
Un'afflitta dolcezza velò il suo viso. Cercò il mio sguardo, forse per carpire le mie reazioni, forse per trovarvi comprensione.
“Tuo padre è stato trasferito, noi lo seguiremo.”
I suoi occhi! Accidenti, non riuscivo a sopportare il suo sguardo. I suoi occhi erano i miei occhi! In quel momento mi resi conto di quanto eravamo uguali. Maledettamente uguali.
Mi accarezzò la guancia.
Fra me e i miei simili ci sono oceani perennemente in tempesta. Impossibili da attraversare. Ma tra me e mia madre non c'era neanche il fondo di un lago prosciugato. Non sono mai stato tanto vicino a un altro essere umano, come con lei. Ma quella volta non bastò.
“Non è vero!” urlai.
Allontanai bruscamente la sua mano dal mio volto, la carezza bruciava come una sberla, e mi misi a correre, correre, correre. Mi fermai senza fiato alla fine della strada. Non sapevo dove andare. Ma non volevo più vederla, non volevo più stare con lei. Mi appoggiai contro un muro e sentii la faccia calda e bagnata. Stavo piangendo.
Partiremo, presto partiremo... Le sue parole mi rimbombavano nel petto come un rullo selvaggio di tamburi e la loro eco non si spegneva.
Partiremo! Ma per dove?

Era quello l'unico mondo che conoscevo, lì c'era la mia casa, il giardino dal cancello verde, la strada dove abitavano i miei compagni. E il lago, occhio di giada sullo sfondo dell'orizzonte. Non riuscivo a pensare che potesse esistere un altrove, un universo parallelo dove la vita scorreva allo stesso modo, come un placido fiume lungo le cui rive si potesse giocare, scorrazzare in bicicletta, andare a scuola, arrampicarsi sugli alberi. Una vita che somigliasse almeno un po' a quella che avevo condotto fino ad allora in quelle sperdute campagne di Capitanata.
Venne la bella stagione. L'estate di un bambino dura quanto una vita intera. Mi sforzai di non pensare alle parole di mia madre. E ci riuscii.
Una sera tornai a casa stanco, sporco, sudato. I nostri giochi erano alquanto impegnativi e ad essi ci applicavamo con una serietà insospettabile per i nostri anni. Frugo le mie tasche e la mia mente va a quei giorni. Rivedo le macchie sulle mani e sui vestiti, porto ancora quegli oggetti e quegli odori addosso. Un fazzoletto lurido, una biglia di vetro, un soldatino senza testa. E terra, polvere, erba strappata.
La mia famiglia era riunita per la cena, circostanza che mi parve inconsueta, in soggiorno. Mia madre mi fissò a lungo, come per trovare le parole, o il coraggio di pronunciarle. Ma non disse nulla. Mio padre non mi guardava neppure. Accarezzava la testa di una delle mie sorelle. Cenammo in silenzio, poi ognuno guadagnò il suo letto.
La mattina fui svegliato da un certo trambusto. Il mio armadio era aperto e non conteneva quasi più nulla. Una valigia giaceva in mezzo alla stanza.
Me n'ero completamente dimenticato!
Mia madre emerse dalla cucina e mi chiamò. Mi misi a tremare come se avessi freddo. “Angelo! Non fare così. E' difficile anche per noi.” Le sue parole suonarono come il preludio a un incubo.
Non chiamarmi così! avrei voluto urlarle. Anche il mio nome cominciava a diventarmi odioso. Non chiamarmi mai più!
Corsi via senza fare colazione.
Fuori il mondo non era cambiato affatto, non vi era traccia di armadi svuotati e di valigie pronte; ogni cosa era al suo posto, le case, la strada, gli alberi solidamente ancorati al suolo. Nessuno di loro aveva l'intenzione di partire e una lieve speranza s'insinuò nel mio cuore. Era una bella giornata e durante le belle giornate ogni cosa può accadere. Anche di rimandare una partenza.
A sera, ero ancora in strada, come sempre, fra i miei compagni. Li conoscevo bene, uno a uno, avevo passato con loro ogni ora del giorno e anche quelle della notte, se avessi potuto, e condiviso le grandi gioie e i piccoli dolori di quei miei pochi anni. Crescevo insieme a loro, in mezzo alla strada. Erano i fratelli che non avevo.
Giocavamo a indiani e cowboy. Mi ricordo che mi nascosi in giardino, dietro una siepe, per anticipare le mosse dei bianchi dalla lingua biforcuta, e fu allora che vidi mio padre che caricava la macchina.
Non c'era più speranza!
Ingoiai le lacrime - gli indiani non piangono mai -, avevano un sapore amaro. La giornata era finita e non era accaduto nulla che potesse scongiurare la partenza.

Uscii dal nascondiglio e mi arresi ai visi pallidi. Mi lasciai catturare senza opporre resistenza. Il gioco divenne opprimente. Continuai a prendervi parte più per dovere che altro, interpretando male il mio personaggio. Incedevo pigro e apatico sulle pietre di tufo, portando un macigno nel cuore. Ero arrendevole, remissivo, condiscendente. Un indiano come me non si era mai visto. Più volte mi sgridarono a causa della mia fiacca e poco attendibile partecipazione. Ma le avventure di mandriani a cavallo e pennuti pellirossa non mi interessavano più. Quello che giocava con loro era un altro bambino. Io ero già partito.
I miei compagni lo capirono. Mi guardarono in faccia e videro gli occhi di uno sconosciuto, di uno straniero. Ora ero davvero un indiano. Il gioco degenerò e vidi nascere sui loro volti incomprensione, collera, furore. Sputi, calci e pugni mi caddero addosso come se piovesse.
Dalle mie parti si coltiva un vasto campionario di percosse. C'è la scoppola, che ti fa letteralmente ribaltare il capo in avanti e cadere il cappello, lo scurzino, che a dispetto del diminutivo, è uno schiaffo particolarmente rumoroso. E poi il leccamuss, che ti prende appena appena sotto il mento e fa di un male! Lo scennente, lo schiaffo che scende in picchiata, detto scennentone, se è davvero forte; il puapagno, il classico pugno che ti si stampa in faccia e ti addormenta; il va e viè, lo schiaffo doppio, andata e ritorno. E il manvierz, l'immancabile manrovescio.
Quell'ultima sera, i miei amichetti mi suonarono l'intero repertorio.
Io non mi difendevo, non provai neppure a spiegare, ma non piansi. Non piansi neppure una lacrima, le tenni tutte per me. Le tenni per dopo.
Ma quelle botte facevano male.
E fa più male se a suonartele è qualcuno a cui vuoi bene, o che ti voleva bene.
Tornai a casa, sporco e pieno di lividi e bernoccoli. Mia madre mi guardò, ma non disse nulla. Saltai la cena e andai direttamente a letto. L'ultima notte nella mia cameretta.
L'ultima notte, per Dio!
Niente più casa mia, niente più giardino dal cancello verde, mai più la mia strada e mai più l'occhio di giada all'orizzonte. E addio compagni miei, mai più vi rivedrò.
Mai più.
L'ultimo ricordo che ho di voi sono i vostri calci e i vostri schiaffi. Ma ho visto che piangevate mentre me le suonavate. Singhiozzavate mentre mi sputavate addosso e mi tiravate i capelli.
Sorse il sole in un modo o nell'altro, e partimmo. Mi aggrappai alle coperte, alle tende, ai mobili, dovettero trascinarmi fuori di peso. Urlavo, sbraitavo, scalciavo.
E piangevo.
Non riuscii neppure a vedere la porta di casa che si chiudeva per sempre. Le lacrime mi offuscavano la vista. Ma non ci fu niente da fare. Partimmo.
Non potemmo portarci dietro neppure Buck, il mio adorato meticcio, perchè dove saremo andati non ci sarebbe stato posto per lui.
In macchina mi chiusi in un mutismo ostinato e feci piangere mia madre. Ero andato bene a scuola, mi ero comportato bene con le mie sorelle, avevo ubbidito ai miei genitori. Non capivo quel castigo. Mi sentivo condannato per una colpa che non avevo commesso, e glielo dissi, senza giri di parole, con il freddo negli occhi. Come mi fece male vedere quei suoi-miei begli occhi riempirsi di lacrime. Tentò di parlare, di spiegare, di farmi riflettere, ma io non volli ascoltare.
Tre lunghe ore si protrasse quella triste deportazione, e in qualche modo, finalmente, arrivammo.
Ma le brutte sorprese di quello scorcio d'estate morente non erano ancora finite. Seppi che la mia famiglia sarebbe tornata indietro, poichè i miei genitori dovevano sbrigare ancora certi affari, prima di lasciare definitivamente il paese. Ma io no, io naturalmente non avrei potuto seguirli, presto sarebbe iniziata la scuola, non avrei dovuto perdere neppure un giorno. Così, pur di rispettare gli obblighi scolastici, mi mollarono come un pacco in un luogo in cui non ero mai stato e fui solo per tre lunghi mesi.
Quell'autunno, scappai di casa tre volte. Le prime due mi ripresero subito, la terza volta per un pelo non riuscii a svignarmela sul serio. Avevo già il biglietto del treno in tasca. La Capitanata, mi dicevano, è un posto pieno di sassi, polvere e spine. Perchè vuoi tornare? Ma io in mezzo ai sassi, alla polvere e alle spine avevo lasciato il mio cuore. Sarei tornato anche a piedi.
Si occupava di me una nonna sconosciuta che con pazienza e attenzione si sforzò di sostituirsi a mia madre. E ci riuscì. Bacerei la terra dove lei ha camminato.
Non altrettanto bene andava a scuola. Non c'era la mia bionda maestra di Capitanata, ma un insegnante arcigno e attempato, e chissà perchè, i nuovi compagni di classe non avevano alcuna intenzione di sostituirsi ai vecchi. Io ero quello nuovo, l'altro, il forestiero. Non parlavamo neppure allo stesso modo.
Ciò che oggi chiamano bullismo c'era anche a quel tempo, ma era considerato un affare per bambini.
“Lasciate che se la sbrighino da soli. Non dobbiamo intrometterci” dicevano i grandi mentre le prendevo.
E così fu. Me la sbrigai da solo. E fu un bene, perchè imparai a cavarmela.
Era la prima volta che scendevo sotto la superficie. E lì sotto era buio pesto. Ma riuscii ad accendere la luce e riemergere.
Mi muovevo in una solitudine affollata, sentendomi sempre sull'orlo di un abisso. A volte mi sentivo vecchio, a volte giovane. Le ore scorrevano lente e tutte uguali. Spesso mi perdevo a contemplare quel nuovo orizzonte, vinto dalla pesantezza dell'arancia dopo pranzo. Il sole calava presto dietro le colline tonde come pani di zucchero. Io pensavo a Buck nella sua cuccia, sotto la neve che copriva il giardino dal cancello verde e imparai la nostalgia, una strana combinazione di presente e passato. Ma in fondo alla valle scorreva il fiume, serpente di giada.
Quando tornarono i miei genitori era Natale e io ero un altro. A stento mi riconobbero. Ero cresciuto. Ma quante ne avevo prese!
I colpi ricevuti fanno male, ma anche bene.
T'insegnano a schivarli, la prossima volta.

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domenica 21 febbraio 2016

Male di miele




Non si tratta di qualcosa che ho definitivamente perso, no. E' come un flusso di marea. So che tornerà. E' quello che voglio credere mentre mi aggiro fra le pietre di questo borgo medievale. Per anni ho vagato nella vita come un cieco, sbattendo contro porte chiuse che credevo aperte. Quante volte ho atteso davanti a un muro aspettando che si aprisse, credendolo una porta? E mi ritrovavo ancora una volta sconfitto dall'impermanenza dei sentimenti. Niente dura per sempre. Niente. Neppure l'amore.

Ma oggi finalmente la luce. Quello che dovevo fare l'ho fatto. Ciò che doveva compiersi si è compiuto. Il sole è all'orizzonte, assiso sul trono nel punto più elevato del suo impero di luce. L'azzurro infinito del cielo si riflette sulle cime dei monti e mi entra nelle narici, nei pori, nel cervello. La luce è quasi insopportabile.

Oggi è il solstizio d'estate, il giorno più lungo dell'anno. La luce ha lottato con le tenebre e le tenebre sono state sconfitte. Ora sono negli angoli umidi, defilati, ai margini della vita, dove si sono ritirate, mogie mogie, a leccarsi le ferite. Ma fino a ieri pioveva e ho trascorso la notte della vigilia in trepidante attesa che il sole trionfasse sulla pioggia e sulle tenebre e soltanto all'alba ho celebrato la sua vittoria.

La brezza trasporta adesso un odore nuovo. L'ho già sentito, eppure stento a riconoscerlo. E' dolce e penetrante, al tempo stesso, come una fragranza di fiori sbocciati su nuvole di zenzero e cumino.

I miei passi si muovono incerti nel gioco di luci e ombre dei vicoli. Ma le pietre antiche, gli alberi, le case, mi riconoscono. Sei già stato qui, sembrano dire, sicuro. Noi non dimentichiamo mai una faccia e la tua ce la ricordiamo bene. Si che ci sei stato.

Si che ci sono stato. Ma è accaduto tanto tempo fa. Però ricordo ogni viuzza, ogni angolo di muro, ogni ciuffo d'erba. Non ho fatto altro per tutta la strada che mi ha condotto fino qui. Forse, non ho fatto altro per tutta la vita. Cercare di tornare e intanto, ricordare.

Ecco finalmente la porta. Quella porta. Quante volte l'ho desiderata, quante volte ho sognato quell'uscio, come fosse il portale dei sogni. Salgo gli scalini a due a due, e stavolta la fortuna è dalla mia parte. La porta è socchiusa, spingo il battente ed entro.

Un'oscurità assoluta e ostile mi assale e mi divora, pezzo dopo pezzo; dapprima una mano, poi le braccia e le gambe e infine il viso. Annego nel buio. Il nero è opprimente. Il fondo di un pozzo senza fondo non potrebbe essere più oscuro. La mia testa è imprigionata in un vortice di vertigine e silenzio nel quale precipito. Non riesco a respirare, non mi aspettavo questo buio così fitto e impenetrabile. Sono cieco, sordo, muto.

Mi muovo a tentoni in un piccolo dedalo di stanze, nicchie e corridoi. Un angiporto annegato nel silenzio. Ma risento il profumo, quell'odore che mi ha condotto fino qui, una scia di desiderio sparsa sui muri, sugli orpelli, nell'etere di questo minuscola dimora.

Ogni cosa in questa casa sa di lei. Soledad.

Ero certo che quel nome avesse a che fare con le pianure assolate, l'astro del giorno e la luce. Oggi apprendo che significa soltanto solitudine.

Un chiarore lontano disseta le mie pupille e lava via gli ultimi granelli del deserto di tenebra; riprendo a respirare. La fiamma di una candela tremola incerta in fondo al corridoio. La sua luce è debole, ma ho visto quello che volevo vedere.

L'ultima porta.

E' a guardia di una stanza, dove sono tornato molte volte, in sogno. Impugno la maniglia e spingo. Il legno antico scricchiola sui cardini e il tenue chiarore che entra dal corridoio è un angolo di luce che si apre lentamente e s'insinua nell'oscurità.

Capelli corvini dai riflessi violetti, occhi neri ardenti, liquidi, come velati dal pianto, tanto scuri da sembrare blu, la curva dei seni morbida e piena. Monili d'oro sparsi sul suo corpo, gocce dorate, intarsiate qua e là sulla pelle scura, come un'icona offuscata dal tempo e dal fumo delle candele. Orofumo, un giallo che sa di mistero e attesa, un colore antico, velato dalla polvere del tempo, come un matrimonio fra la luce e le tenebre.

Adoro il modo in cui il presente diviene passato. Ma oggi voglio fermare il tempo, congelare il suo flusso, arrestare questa emorragia che mi dissangua e che mi sta portando, ancora una volta, via da lei.

Spalanco la finestra e il sole invade prepotente la sua stanza. La luce irrompe come un oceano in tempesta e scatena la sua furia fra queste quattro mura. Un maelstrom, un vortice di luce nel quale sprofondiamo. Poi la burrasca si placa e sul mare di luce torna la quiete. Onde di miele scendono liquide sul suo corpo nudo, rallentando sulle convessità, affrettandosi nelle concavità. E l'oro dei gioielli, dell'ombretto e delle sue unghie si ravviva, si rianima e sembra fondere sotto i raggi del sole. Una donna tutta d'oro, 24 carati soltanto per me. La sua pelle brucia e abbaglia i miei occhi, i suoi seni svettano nella luce, la sua pelle è oro. Lei sorride e mi confonde.

La prepotenza dei suoi occhi, la sua voce dentro la testa, la sua figura che svanisce e ricompare e, come la marea, va e viene. Le regole dell'assenza ho imparato a conoscerle alla perfezione.

L'abisso fra le gambe trasuda miele, il frutto del sole, dolce e delicato. Sono insaziabile, incontenibile, folle. Ne sono ghiotto da star male. Questo male dentro, un dolore appiccicoso e dolce come il miele, scivola fra le mie dita e finalmente me ne nutro.

Male di miele.



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domenica 14 febbraio 2016

La vita è sogno




Scrivo spesso della morte, è vero. Ne sono affascinato, ne sono tormentato, ne sono ossessionato. Ma non la desidero.

La vita non potrebbe esistere senza la morte. La morte non potrebbe esistere senza la vita. Sono le ombre a farci apprezzare la luce. La morte è un ricamo con ago e filo nero sul cuore. La morte è la sottile linea scura che contorna la superficie delle cose e le rende più vere. Perchè siamo progettati a termine, siamo in scadenza, siamo a tempo determinato.

E tuttavia, sono affascinato anche dalla vita, ne sono tormentato e ne sono ossessionato, perchè è un rompicapo indecifrabile, un enigma di cui mi sfugge la soluzione; questa vita come un cavallo riottoso, questa vita madre e puttana.

Ma, come la mia mano è ferma e sicura e non trema mentre scrive della Nera Signora, non altrettanto efficace, profonda e penetrante sento la scrittura della vita. La sua densità, la sua struttura, la sua essenza, mi paiono misere e approssimative, orientate come sono ai punti cardinali del passato. Vissi. E sono già dall'altra parte.

E’ un’annebbiata concatenazione di ricordi, i giorni che furono si spengono come echi nel tempo trascorso, un lieve, evanescente svanire di sogni, come fiori malaticci che presto appassiranno. La mia scrittura sulla vita ha un sapore onirico.

Perchè La vita è sogno (1).

Circondati da un miraggio, assediati dalle allucinazioni, ci arrendiamo alla mera apparenza. Ma ciò che sembra, non è. L’unica realtà possibile è la morte. Noi stiamo dormendo in piedi. E' la Vecchia Scintillante (2) che ci fa risvegliare, lacerando con la falce i veli del sonno in cui siamo caduti e svelando la vera natura dell’esistenza.

Sogno e illusione.

Soltanto la morte è reale.

Crediamo di impersonare le nostre vite, ma non siamo che attori che recitano un copione scritto da altri. Crediamo di realizzare imprese mirabolanti, ma stiamo soltanto sognando.

Siamo dormienti che gridano nel sonno, dice Leòn Bloy.

La morte mi pare infinitamente più vera, tangibile, definitiva, della vita. La vita è il passato, la morte il futuro. E' un punto fermo, il perno, la bussola per orientare l'esistenza. La vita ruota intorno alla morte, come la Terra orbita intorno al Sole. Ma è la morte a rischiarare l'esistenza, e non il contrario; la morte non può essere rischiarata. E' il nulla, il buio assoluto, il nero più sublime. E' per me più facile scriverne.

Morte, morte, morte dappertutto, morte a perdita d'occhio, morte a iosa, morte a go-go, morte in catena di montaggio. Morte a perdere.” (L'impero del vento, il mio primo libro).

...un enorme cumulo di morti, morti, morti; morti ovunque e sopra di essi la perfida ingannatrice con la falce in pugno e il sussurro indecifrabile nella bocca senza labbra.” (Friday night, un mio racconto. Ecco il link http://angelo.medici.blogspot.it/2013/11/friday-night.html?m=1).

Viveva in mezzo ai morti ammazzati, camminava sui loro cadaveri, sentiva ovunque sibilare la morte. Ogni momento era buono per prendersi una pallottola in testa o nella pancia...” (La città verticale, il mio secondo romanzo).

Ecco perché scrivo della morte. E dell’amore. Che in fondo sono la stessa cosa. L'eterno conflitto tra eros e thanatòs si ricompone nella sintesi ideale del romanzo ottocentesco: si può morire d'amore. E si può amare da morire.

L'amore è l'annullamento volontario e consapevole del sé, è la morte, che è appunto, non esistere. L'amore è suicidio (Love is like suicide, altro mio racconto. Ecco il link http://angelo-medici.blogspot.it/2014/11/love-is-like-suicide.html).

Ma non date troppo peso a quello che ho scritto. Leggetelo però non prendetelo troppo sul serio, perchè “ogni scrittura è una porcata. Chi esce dal nulla cercando di precisare qualsiasi cosa che gli passa per la testa, è un porco.” (Antonin Artaud).

E io l'ho appena fatto.


  1. Dramma in tre atti scritto da Pedro Calderòn de La Barca nel 1635.
  2. La Vecchia Scintillante, the Old Sparkly, è in realtà il nomignolo della sedia elettrica negli Usa.


sabato 13 febbraio 2016

La nascita del dogma


Un giorno qualsiasi all'alba della civiltà occidentale, in uno sperduto villaggio dell'Europa Centrale, un nostro lontano progenitore mostrò un pezzo di stoffa a un uomo come lui e gli chiese: “Di che colore è?”

E' bianca” rispose il suo concittadino.

Niente affatto, ti sbagli.”

Gli puntò un pugnale di selce alla gola e “Guarda meglio” disse. “Di che colore è?”

Hai ragione, è nera.”

Racconti carnivori


Una manciata di storie carine e assurde, non esattamente slegate l'una dall'altra. È la raccolta Racconti carnivori, di Bernard Quiriny, giovane narratore di lingua francese ma non francese, belga. E' vero, anche Bruxelles ha la Seine, come Parigi ha la Senne, ma decisamente non è la Città della Luce, la separa da questa non soltanto quella i in più e quella enne in meno nel nome del suo fiume luminoso, ma altro ancora (1).

Non è sicuro che la storia del mondo sia una storia di grandi imprese, è forse soltanto la storia della noia” fa dire il nostro Bernard a un filosofo di cui non rivela il nome e che non sono riuscito a trovare da nessuna parte (il mio dubbio è che sia frutto d'invenzione, sia la citazione che il suo autore). I suoi racconti cercano di increspare la piatta superficie della noia quotidiana. E ci riescono. Rivelano il mondo da punti di vista inusitati, perversi e politicamente scorretti. Più che la Storia della Noia, oserei affermare che Quiriny ha riscritto la Storia della Rivelazione.

I suoi sono racconti più di testa, che di cuore. La sua poetica metafisica cola copiosa dalle righe, trascende la realtà e si fa più oggettiva, veritiera e credibile, della realtà stessa. Bernard Quiriny ha il piglio narrativo e gli argomenti di Buzzati e le concatenazioni narrative di un Borges altamente qualificato, come quello di Aleph. Ma anche qualità che i due non hanno. E' la soda caustica di alcune frasi “...mi fa pensare a certe femmine di ragno ingrate che, dopo che un maschio le ha lavorate, si rigirano contro di lui per mangiarlo.” (Racconto carnivoro). E ancora, “Cinque volte a messa e due volte a puttane”, la settimana tipica di un cattolico (Il taccuino). E il tuffo nell'orgiastico-dionisiaco di Una bevuta per sempre, che inizia come una spy-story delle migliori tradizioni e si tramuta in una colossale bisboccia, al termine della quale si resta ubriachi per sempre. Colpa, o merito, di un liquore il cui solo nome suscita il più profondo silenzio. “Zveck è definitivo. Tu resti dall'altra parte.

Se la letteratura è l'arte della (re)invenzione, a Quiriny va il merito di aver (re)inventato la donna-mito, la sua eterna scomparsa e il suo eterno ritorno. Dopo di lei, ecco la donna che si spoglia letteralmente sbucciandola come un'arancia (Sanguigna) e la donna da leggere come un libro tatuato sulla sua pelle (Straordinario Pierre Gould). Una geniale intuizione per riportare il pubblico alla lettura.



(1) Perdonatemi, non ce l'ho con il Belgio, patria di raffinati e prolifici scrittori come Maigret. Stavo soltanto trastullandomi con le Amoenitates belgicae di Baudelaire. Sentite questa e poi non vi disturbo più, né con il Belgio né con Baudelaire. “...un ruscello così limpido e verde che dà voglia ai malati di finirvi la loro triste vita. Perchè a parlar chiaro, in questa Seine, calano in massa cose indescrivibili. E' soltanto merda che galleggia.

martedì 9 febbraio 2016

Le foibe, una memoria cancellata



Fra Destra, Sinistra, Centro, Sopra, Sotto, io parteggio con quest'ultimo, e con ciò intendo, con connotazione esclusivamente geografica, e non altro, il Sud, la mia grande patria meridionale. Non sono più di destra, non sono mai stato di sinistra, di centro manco a parlarne, ma da molti anni faccio il tifo solo per ciò che sta in Basso.
Però Giù ha anche il significato di ciò che sta in profondità, al di sotto della superficie, il mondo sotterraneo, il ta katà dei greci. Ciò che è ancora nascosto e dev'essere rivelato. Allora oggi scendiamo sotto le viscere della terra per rivelare verità nascoste, complesse, dolorose.
Questa è una storia complicata, difficile da raccontare, che a farvi cenno soltanto pochi anni fa vi avrebbero dato del visionario, del folle o, se vi andava bene (e non so quanto), del fascista. Una storia da sussurrare in silenzio, fra pochi intimi, come adepti di una setta che pronuncino frasi esoteriche e misteriose, ma che nessun altro, al di fuori di una ristretta cerchia, potrebbe comprendere.
Naturalmente non c'era sui libri di scuola. Ma su quelli mancano molte cose. Sono dei colabrodo, sono pieni di buchi attraverso i quali defluisce la Storia che essi non trattengono. E non insegnano più.
Dal punto di vista geologico, le foibe sono giganteschi inghiottitoi, caverne verticali, abissi tipici del Carso e dell'Istria. Ma foiba, per noi italiani, è divenuto sinonimo di tomba, di sepoltura collettiva, l'oscuro imbocco di un sepolcro che ha ingoiato migliaia di persone. Italiani che morirono senza un perchè, senza avere alcuna colpa, se non il fatto di essere, appunto, italiani. Innocenti.
Ma le foibe sono soltanto il punto più evidente della storia degli italiani d'Istria, sono la punta dell'iceberg. Non dimentichiamo che i massacri dei partigiani jugoslavi, provocarono un fuggi fuggi generale dalle antiche terre dalmate, sulle quali sventolò per secoli il vessillo del leone alato. Nessuno sa con precisione quanti italiani furono costretti a scappare. La cifra oscilla fra 200.000 e 350.000, una città come Bari (Fratelli d'Istria, Guido Rumici). Sono cifre da esodo. Quelli che non furono gettati nelle foibe, ma per loro sventura non riuscirono a fuggire, finirono dritti nei lager di Tito. L'ultimo, quello di Goli Otok, fu chiuso soltanto nel 1956, ben 11 anni dopo la fine della guerra, senza che dall'altra parte del confine, l'Italia, che distava soltanto pochi chilometri, nessuno se ne desse cura.
E anche oggi nessuno se ne cura.
Quanti di noi vanno in vacanza in Croazia, e magari in barca passano davanti a Goli Otok, che quando c'eravamo noi si chiamava Isola Calva, e si godono il sole e il mare senza sapere che quel luogo paradisiaco è stato un inferno per molti nostri connazionali?
Noi italiani non sappiamo mai niente. Ci dimentichiamo tutto, ci crogioliamo nell'oblio. Un popolo inconsapevole. Ecco cosa siamo.
La retorica nazional-popolare impedì per anni di raccontare, di urlare a squarciagola quelle verità. Di piangere i nostri morti. E' la stessa retorica che celebra ancora il Mito della Resistenza, che copre i misfatti dei partigiani nel triangolo rosso emiliano-romagnolo, disposta a tutto, pur di mettere a tacere. E' la paura di non si sa che a nascondere la verità, come se la vigliaccheria di Pochi possa intaccare il coraggio di Molti.
Non dimentichiamo che se le Foibe fanno purtroppo parte della Storia - ormai anche di quella ufficiale, con la esse maiuscola - e non furono soltanto una diceria, una leggenda urbana confinata nella mitologia di ciò che non esiste, questo avvenne anche perchè una parte della Resistenza lo consentì.


sabato 6 febbraio 2016

Sotto la superficie


Chi va sotto la superficie” diceva Wildelo fa a proprio rischio e pericolo”.

Quando scrivo sono pienamente consapevole del pericolo insito nello scendere sotto la superficie delle cose, a profondità spaventose, alle quali non trapela alcun filo di luce. Ma è un pericolo che accetto, se voglio trascendere l'epidermide del mondo, la superficie levigata della mera apparenza, e scovare nuovi punti di vista.

Rivelare l'arte e nascondere l'artista”, sempre l'elegante ma saggio Oscar. Rivelate pure l'arte, d'accordo, ciò è ineluttabile, l'arte è pubblica per sua natura, dev'essere svelata, non può essere confinata nel buio della non conoscenza, chiusa nel cassetto dell'individualità. Però, nascondete l'artista, non svelate la sua figura meschina, lasciate che si rifugi dietro il sipario, che si confonda fra le ombre del palcoscenico, che assista alla rappresentazione confuso fra gli spettatori, che artisti non sono; lasciatelo solo alla sua scrivania, nel cuore della notte, a straziarsi le carni con il suo pennino, intinto nel suo stesso sangue. Lasciatelo perdere, non ne vale la pena.

Ma leggete le sue opere.


venerdì 5 febbraio 2016

Appocundria




Una città addormentata nell'afa pomeridiana, l'oceano silenzioso è una linea innocua all'orizzonte e le voci del bairro si stemperano nella calura. L'entrata del Tejo è sorvegliata da fragili colonne d'Ercole che accolgono, anziché respingere, tutti i popoli del mare. Un vecchio suona la chitarra, ma in un modo così strano, che è come se la chitarra suonasse lui. I suoi occhi si perdono nel blu e il suo sguardo si offusca. Il fado è destino e mistero.
La conosco quella canzone. E' Ao longe o mar.
Lui la chiamerebbe saudade, ma nella mia lingua non c'è maniera di dirlo, se non ricorrendo all'idioma napoletano.
Appocundria.
Confondo Napoli con Lisbona e mi pare quasi di veder zampettare Fernando Pessoa in fondo a via Toledo, invece che in Praca do Comercio, il salotto buono della città affacciato sul mare, o seduto al suo tavolino alla Brasileira. La stessa linea blu che pare innocua all'orizzonte, anche se da una parte si chiama Tirreno e dall'altra Oceano.
Appocundria pare che sia la dialettizzazione (il neologismo è mio) di ipocondria, la sindrome del malato immaginario. Molière la conosceva bene. Ma io sto parlando di qualcos'altro. Del desiderio di non si sa che, della malinconia di quel che non si è vissuto, della nostalgia del futuro. Della tristezza senza motivo. E' qualcosa d'indefinito, incompiuto, e che non si compirà.
Questo male dentro, un dolore appiccicoso e dolce come il miele, scivola fra le dita e lo lecco. L'assenza dei suoi occhi, la sua voce dentro la testa, la sua figura che svanisce e ricompare, va e viene come le onde di questo Mare Oceano che ci unisce e ci separa e mi fa naufragare. Le regole della sua assenza le conosco bene, come un esperto marinaio conosce i venti e le maree.
Voglio annegare nei suoi occhi, affondare nel suo ventre, colare a picco. In fondo al mare che si apre fra le sue gambe.
L'appocundria so coniugarla alla perfezione in tutti i tempi tranne che il futuro. Ecco, la depressione, che non conosco, ha sensazioni più vigorose, corporee, carnali. Citerò la felice – si fa per dire – intuizione di un amico che ne soffriva. E' un vortice di rabbia che si nutre di dolore e risucchia la vita. Ma è liquida questa rabbia, mentre tu sei un mucchio di carne informe, un mollusco privo di scheletro, inadatto al volo, incapace di vivere. E sei solo in una solitudine piena di gente.
L'appocundria non ha una spiegazione, è qualcosa che c'è e non c'è, sfugge dalle mani, dalle regole, da ogni tentativo di risoluzione. Vita che va, tempo che viene, niente è più come prima. Ma io sono ancora qui.
Da giovane il tempo era qualcosa d'indefinito, d'incompiuto, che veleggiava sulla mia vita con indolenza senza risolversi ad approdare al porto del destino. Ma quel che doveva accadere accadde nel breve arco di un'estate. E fummo spazzati via.
L'appocundria è maneggiare un fiore raro e delicato, e scoprire di non saperlo fare. L'appocundria è desiderare qualcosa che non potrai mai avere. L'appocundria è quella volta che volevo addomesticare la lupa e finii per inselvatichirmi io.
L'appocundria è quando il sogno mi si sgretolò in mano mentre si stava avverando.