sabato 27 dicembre 2014

La luce o l'ombra?



Scrivo di me senza precauzioni, senza compromessi, senza risparmiarmi nulla. Scrivo di cose che fanno male. I miei racconti, i miei romanzi, le mie storie sono tragiche e amare. La vita non ha lieto fine. Per questo, dico, la scrittura, se è sincera, è devastante, è una forma d’introspezione psicologica che scava nelle profondità abissali dell’anima, dentro oscurità inimmaginabili. Ma, tanto è spietatamente devastante, quanto è straordinariamente catartica, salvifica, liberatoria. Per me, il foglio bianco e la matita sono lo psicologo e il suo lettino. Vi assicuro che due ore di scrittura sono meglio di una seduta di psicanalisi. Mi sento, ogni volta, leggero, sereno, quieto, come essermi tolto un peso. Ed è sempre stato così, fin da quando non ero che un adolescente che scoppiava di pus e testosterone.

Ma, non ho ancora detto tutto, non ho ancora scritto di cose che non ho il coraggio di narrare. Esse si nascondono nel buio dentro di me, rifuggendo qualsiasi tentativo d’indagine, qualunque sprazzo di luce e, come la luce è necessaria per impressionare una lastra fotografica, così ho bisogno di luce, di molta luce, per tingere i fogli in nero con quelle vicende. Ma dovrò farlo senza ipocrisia, ancora una volta senza precauzioni, senza compromessi, senza risparmiarmi nulla.

Forse, fondamentalmente, ho più paura di diventare grande che di essere mediocre. Da qualche parte, non ricordo più dove, ho letto che la nostra paura più profonda non è di essere inadeguati.

La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite.

E’ la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più. Io devo ancora capire se ho una luce dentro e se questa luce, ammesso che ci sia, è più forte della mia ombra. Se non avrò paura e lascerò che la luce rischiari i miei abissi e mi faccia trovare la forza di raccontare anche quello che non si può raccontare, allora diventerò grande; se, come temo, troverò più comodo rifugiarmi fra le ombre, la mia essenza creativa, sia essa narrativa che musicale, si spegnerà poco a poco sulla pagina come su un ordinario letto di morte e le mie parole, ormai inutili, spente e fredde, giaceranno su una scrivania piena di altre cose banali, dozzinali e insignificanti.

La collezione di una vita.

Un approccio al manicheismo dei nostri tempi


 

Vogliono farci credere che il mondo sia diviso in due parti, che la vita si declini sempre e solo in due categorie: bianco – nero, buono – cattivo, giusto – sbagliato, bello – brutto, destra – sinistra, nord – sud. Non credo proprio. Io credo nei colori e non nella monotona sequenza del bianco e del nero, due colori tristi e anonimi, dei quali il primo respinge la luce e il secondo l’assorbe tutta e che, fusi insieme le sottraggono l’ancor più monotono grigio.

Allora, perché limitarci a vedere il mondo come attraverso un vecchio televisore in bianco e nero, quando l’universo è un’esplosione di colori, sfumature, tonalità, gradazioni, nuances, insomma milioni di milioni di possibili alternative?

E’ troppo semplicistico, infantile, oserei dire, classificare e ridurre la vita, il mondo e le persone in maniera così netta: o di qua, o di là, o con noi, o contro di noi. E questo vale in tutti i campi, in politica, nel pensiero comune, nello sport. Ad esempio, anche Facebook è molto manichea: o clicchiamo su “Mi piace”, oppure su “Non mi piace”, anche se si può sempre cambiare idea sbaffando “Non mi piace più”. E meno male, però manca un simbolo da cliccare per l’astensione, per evidenziare i distinguo, per articolare le diverse posizioni e attenuare la nettezza delle risposte. Si mi piace, ma…

Io credo che chi sta male senza catalogare e classificare, in fondo, abbia una profonda paura della molteplicità, della diversità, dell’alternativa e cerchi di rifugiarsi in più rassicuranti e predefinite categorie contrapposte. Queste persone che si rifugiano nel settarismo sono, in realtà pavide e insicure. Sono spaventate, temono il mondo, sono terrorizzate dalla vita. Ma io credo che la nostra paura più profonda non sia quella di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite. E’ la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più.

Ne conosco tanti di questi individui, n’è pieno il mondo di questi personaggi che, animati in cuor loro dalle migliori intenzioni, brucerebbero chi sta dall’altra parte: i neri, i cattivi, gli omosessuali, i meridionali. Appiccherebbero il fuoco al brutto e ripulirebbero il mondo dalle nequizie che, guarda caso, stanno sempre e solo dall’altra parte. E, seduti dalla parte della ragione c’è sempre un’immensa folla, invece, dalla parte del torto non c’è mai nessuno. Ma, delle migliori intenzioni, si sa, è lastricata la via per l’inferno ed essi ignorano che dentro la bellezza c’è sempre un po’ di bruttezza, che in fondo alla giustizia c’è sempre un pizzico d’ingiustizia e che anche nelle profondità oscure dei malvagi, degli empi e degli assassini può risplendere una minuscola goccia di bontà.

Non è possibile distinguere il grano dal loglio, non si può fare di tutta l’erba un fascio. Ad appiccare il fuoco si corre il rischio di bruciare tutto. E’ un grande pericolo applicare alla realtà i massimi sistemi, che non consentono deviazioni, che non tollerano eccezioni alla regola della politica, della religione, della morale. Ecco allora che il manicheismo diventa dogmatismo, settarismo e fanatismo, una brutta serie di –ismi, che sono decisamente pericolosi e da rifuggire.

domenica 21 dicembre 2014

Tra le braccia della Spagna




Perdido en el corazòn
de la grande Babylòn.

                                                                                                                      (Manu Chao)

 

Quello che fa più male

è ciò che non puoi avere.

(Antonio Scafa, filosofo amatoriale)
 

La Spagna mi accolse di notte, come una tenera amante, madre e puttana, fra le dune sabbiose delle Baleari e il Mediterraneo silenzioso. Davanti a me si apriva una nuova vita e la brezza marina mi alitava in viso il profumo dell’ignoto.
L’autobus arrancava faticosamente nelle strette calli della cittadina balneare e mi accorsi ben presto di non essere stato il solo ad avere avuto la balzana idea di dare sollievo alle peregrinazioni del cuore, tuffandomi in un viaggio così lontano dal mio stile.  
Sui sedili in fondo alla corriera, sedevano speranzosi, italiani dal cuore infranto.
 
 
  1. Un rifugio confortevole e conosciuto
 
La ragazza ballava al centro della pista, poi mi guardava e sorrideva, dimenando i fianchi al ritmo di una musica assordante. Le sue gambe sottili, sospese su tacchi ancor più sottili, si muovevano al pari di quelle di un trampoliere nella massa di corpi sudati. L’allegro caos della danza ci portò vicini.
Danzammo insieme. Io la prendevo per i fianchi, assecondando il ritmo della musica e lei abbandonava la testa sul mio petto, come per cogliere un momentaneo riposo. Ma, di tanto in tanto, senza preavviso, voltava le spalle e andava a ballare da sola, al centro della pista. Eppure tornava ogni volta sui suoi passi.
Le mie mani si facevano intraprendenti e le afferravano i fianchi con vigore, carezzandole il ventre e la schiena, come se conoscessi quel corpo alla perfezione e in un’altra vita lo avessi amato. Più osavo, più si arrendeva a me e la sua testa tornava ad abbandonarsi sul mio petto, come se ritrovasse un rifugio confortevole e conosciuto.
 
 
  1. Due bicchieri di gin lemon
 
Non dimenticherò mai quella notte che le dissi davanti a due bicchieri di gin lemon: “Sus ojos estàn como estrellas” (1), e lei rideva di gusto, di un riso pieno che le riempiva la bocca e le faceva brillare gli occhi, e diceva che gli uomini, che siano italiani che siano spagnoli, son tutti uguali, sempre pronti a stordire le donne con cascate di parole dolci, per poterle scopare senza sentimento, mentre il barista scuoteva la testa e pensava: “Tutti uguali questi italiani! Sempre pronti a fregarci le donne. Ma perché non se ne stanno a casa loro?” e nell’aria andava una musica latina, avvolgente e sensuale e c’era chi cantava: “La vida es pura pasiòn” (2).
Non dimenticherò mai quella notte che lei disse: “Vamos a bailar al Tito’s. Adios!” (3), mentre rideva di gusto, di un riso pieno che le riempiva la bocca e le faceva brillare gli occhi, e sparì per le strade del porto, e il barista scuoteva la testa e pensava: “Tutti uguali questi italiani! Sempre pronti a innamorarsi della prima femmina che gli si para davanti. Ma perché non se ne stanno a casa loro?” e nell’aria andava lo stesso ritmo latino, potente e delicato, avvolgente e sensuale.
 
(1) ”I tuoi occhi sono come stelle.”
(2) “La vita è pura passione”
(3) “Andiamo a ballare al Tito’s. Addio!”
 
 
3. La regina delle puttane
 
“Andiamo a fare l’amore!” disse la nigeriana cingendomi i fianchi sotto una palma. Io palpai quella scultura di ebano e avorio e chiesi: “Quanto?”.
“Tremila pesetas.”.
Andammo dietro l’albero. La presi per la vita e l’attirai a me. Sentivo forte il suo odore di donna e di polvere e sudore e del sole della strada.
“A proposito” feci “Domando sempre pagamento anticipato, quindi fuori i tremila”
Lei mi guardò sbigottita, i suoi grandi occhi neri s’accesero nella notte. Poi comprese.
“Tu disgrassiato!” disse e mi afferrò dolcemente per il collo, mentre un inaspettato sorriso rivelava i suoi nobili lineamenti.
Era bella. Avrebbe potuto essere una principessa in terra d’Africa, ma in quella notte di Spagna era solo la regina delle puttane.
 
 
              4. Nella casa a occhi chiusi
 
L’aria sapeva di corpi sudati, di profumo da donna in svendita al centro commerciale, dolciastro e nauseante come una bibita gassata e di accessori in latex. Avrei potuto scrivere una storia a occhi chiusi, lasciandomi guidare solo dagli odori e dai suoni che il respiro artificiale del condizionatore mi portava al naso e alle orecchie.
Sentivo attraverso la mano il velluto dei divani del privèe, il freddo bagnato dei bicchieri, il velluto di gambe di donna e ancora il velluto dei divani del privèe. Poi, la piacevole freschezza di un giovane corpo sconosciuto, labbra umide e calde sulla pelle, la trepidazione di una bocca in attesa e la soffice consistenza di seni sontuosi.
E il fruscio di letti disfatti nel buio di una stanza, il tintinnio del ghiaccio nei bicchieri e il lamento di una donna, come un canto.    
 
 
5. Fratelli e sorelle del Kossovo

 

Shefrah distendeva il corpo sinuoso e poggiava la testa sull’anca di Nydah. Nydah abbandonava il capo su un fianco di Shefrah. I capelli corvini delle sorelle kossovare si fondevano in una sola fluente chioma che ardeva come viva fiamma e il sole plasmava sulla sabbia l’ombra di una figura mitologica bicefala. Così unite, si crogiolavano al sole, languidamente distese sulla spiaggia del mare. Nessuno osava avvicinarsi a meno di cinque metri dalle ragazze e tutti sapevano perché. Tranne gli italiani.

Quando gli audaci militi dell’italica avanguardia estesero il loro territorio di conquista agli asciugamani occupati del Kossovo, conobbero anch’essi la verità e pensarono bene di chiedere l’intervento delle Nazioni Unite.

“Non possiamo uscire, non possiamo andare in discoteca, non possiamo parlare con gli estranei.”, disse Shefrah.

“Nostro fratello non vuole.”

 
 
6. Il dipinto appena servito
           
La paella bollente esalava vapori profumati dalla scodella di coccio smaltato. Il nero di seppia sovrastava il rosso pompeiano dei pomodori, e gamberi dai riflessi ramati e mitili di bistro erano esposti come in una natura morta. I crostacei sfumavano la loro lucentezza nel biancore del riso e la birra gelata Cuzcos spargeva bagliori giallo cadmio alla vivida luce del sole.
Poco lontano, Paco il cameriere ammirava soddisfatto il dipinto appena servito.
 
7. Un’azione, un gol
 
Il Real Madrid avanzava impetuoso, travolgendo la pur strenua difesa del Deportivo La Coruna. Alle azioni della squadra di casa mancava, però, il gol.
Le amiche spagnole giocavano a carte, prestando un occhio distratto alla televisione e, di tanto in tanto, al gioco. La loro attenzione era tutta per gli ospiti dell’albergo. Erano letteralmente rapite da volti stranieri, da sguardi inconsueti, da gesti insoliti. Il fidanzato inglese non si curava affatto di loro, mostrava grande interesse per la partita, non perdendosene un’azione e non gli importava alcunchè degli ospiti dell’albergo.
Le ragazze erano molto attratte dagli italiani. Con loro avevano instaurato un reciproco gioco di sguardi e sorrisi. Il loro interesse era contraccambiato e cresceva a ogni nuova occhiata, ma non aveva ancora raggiunto il livello che gli italiani speravano.
Ma, dopo tante azioni del Real, la prima e unica folata offensiva del Deportivo ebbe il dono della trasformazione in rete. Le ragazze esultarono.
Entrò in quel momento un giovane dal volto misterioso, si affacciò sulla porta e con un solo sguardo abbracciò l’intero salone. I suoi occhi azzurri scintillarono nella penombra e si soffermarono per un breve istante sulle due amiche. Poi uscì e tornò in strada.
Le ragazze si erano ammutolite sotto il peso del suo sguardo e arrossirono. Era forse l’uomo più bello che avesse mai calpestato la terra di Spagna? Esse si guardarono in volto alcuni istanti e decisero che si, lo era. Si alzarono dal tavolo da gioco, attraversarono la hall ticchettando e si affrettarono a raggiungerlo.
Non avevano degnato di una parola o di uno sguardo gli italiani, né tantomeno il fidanzato inglese.
La partita intanto era terminata. Egli spense il televisore e si avvicinò agli italiani.
“Un azione, un gol” disse loro e si avviarono insieme al bar a berci su.
     
 
              8. La danzatrice
 
La danzatrice sul cubo osservava un tedesco attempato con l’addome voluminoso, sdraiato comodamente sul lettino da spiaggia, guardava un gruppo di giovani che tracannava sangria, attingendola da una colonna di plastica trasparente alta più di un metro e notava la sbronza allegra di un crucco dagli occhi neri. Quindi il suo sguardo si soffermava su un paio di donne dai capelli corti che sghignazzavano sorseggiando grossi boccali di birra e sui fianchi ancora acerbi di certe ragazzine bionde che si dimenavano nel ritmo forsennato e pensava che da più di un’ora si trovava lassù, seminuda, esposta agli sguardi di tutti, ad agitarsi a suon di musica.
Allora, s’immaginò trasparente come l’aria e le parve che gli sguardi le trapassassero il corpo da parte a parte senza farle alcun male. Come avrebbe voluto liberarsi dalle catene della gravità che la tenevano ancorata a quel pulpito traballante. Allora, si concentrò ancora un poco e si sentì subito libera e leggera, senza peso.
Un tedesco alto e forte chiese alla cameriera di portargli dell’altra sangria, una donna di mezz’età, ma ancora in grado di attrarre sguardi maschili, si arrampicò su un alto sgabello e accavallò le gambe, mentre un’altra, più giovane, diede un bacio sulla bocca all’uomo che le stava accanto. Intanto la danzatrice si sentiva sempre più lieve e sempre più trasparente e non si rendeva conto di aver smesso di danzare. E rimase immobile sul cubo come una statua su un piedistallo.
Prima una mano, poi un’altra e un’altra ancora, la additarono e mille occhi si fissarono su di lei, a rimirare quell’insolito avvenimento. Ma la ballerina, con gli occhi sognanti e persi nel vuoto, non si era accorta di essere diventata, all’improvviso, oggetto di tanta attenzione. Perfino la musica si arrestò e un silenzio irreale calò sulle persone. Tutti guardavano a bocca aperta con il volto dipinto dallo stupore, alcuni boccheggiavano come pesci perché la sangria si era fermata loro in gola e articolavano espressioni gutturali e incomprensibili.
Nulla aveva più alcun senso, come il sole che tramontava e la folla ammutolita, e il cubo pareva un piedistallo abbandonato dalla statua che doveva sostenere. La danzatrice aveva spiccato il volo e planava ora sulla spiaggia, ora verso i bassi fondali vicino alla costa, dove indugiava sospesa nell’aria e, assumendo nel suo volo più destrezza ed equilibrio, si diresse, senza più timore, verso il mare aperto.
 
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venerdì 5 dicembre 2014

Amore part time




“Io non ho più piacere di stare con te”. Non ce l’ho più. Mi sono imposto, e ho smesso, di desiderarti, per evitare continui rifiuti, continue frustrazioni. Desiderarti non serve a niente. Quindi, non ti desidero più, perché so bene che desiderarti è inutile. Per me sei e resterai un grande mistero, proprio non ti capisco. Non comprendo la tua freddezza, il tuo continuo anteporre altri a me.

Io sono sempre l’ultimo della lista, quello che chiude la fila, che chiude la porta, che butta i rifiuti nel cestino, quello che, se avanza tempo, bene, altrimenti, va bene lo stesso. Io sono quello che non chiede più, perché conosce la perfetta inutilità della domanda. E dell’attesa.

Io sono quello che non ti cerca più, perché sa della profonda futilità della sua ricerca. E sono anche quello che si meraviglia della tua meraviglia, del tuo stupore a sentirsi dire le cose che ho appena detto, come fossero bizzarrie inesplicabili profferite da un essere venuto da mondi lontani e non semplici conseguenze del tuo atteggiamento.
Come non si può vivere a tempo, a termine, a part time, così l’amore non può attendere turni e scadenze, non può aspettare che la persona amata ci degni della sua attenzione. Così, come un fiore che, una volta, era stato bello e profumato, esso sfiorisce, invecchia e muore.
 

martedì 25 novembre 2014

Costruire la città verticale


 

            Una città va edificata dalle fondamenta, prima lo scavo del terreno, poi la gettata di cemento, la costruzione dei piani intermedi e infine, la conquista del cielo con una scalata di mattoni, blocchetti e tondini di ferro. Nella mia città, invece, si costruiscono prima i tetti e i solai e solo dopo le fondamenta. Nella mia città è tutto sottosopra. le persone oneste stanno in galera, i farabutti e gli assassini girano liberi per strada. E se uno vuole essere libero e non diventare un delinquente, mi dispiace, ma ha sbagliato città, non ha altra scelta che andarsene.

La città verticale è diversa da tutte le altre. Innanzitutto, non esiste in alcun luogo al mondo, ma, al tempo stesso, tutte le città del mondo ne contengono almeno un pezzo che le somiglia in maniera sorprendente. Così, se per caso vi capiterà di aggirarvi per le strade della mia città, troverete dei luoghi che vi sono familiari. Ma, vi consiglio di stare con gli occhi aperti. E’ piena di insidie e pericoli e tentazioni. E si parla una lingua bizzarra, che tronca la coda alle parole per risparmiare; ed è una lingua che ha perso il tempo futuro. Forse perché chi la parla ha perso la speranza.

Così, non ho potuto usarlo neppure io nella narrazione. In compenso, mi sono potuto sbizzarrire con una gamma cromatica infinita: il bianco, il nero e le loro infinite gradazioni. E già, perché io immagino il passato come una foto in bianco e nero e anche le storie scritte al passato assumono questa bicromia illimitata. L’imperfetto è un tempo aperto, alcune cose sono appena accadute o possono ancora accadere e sono i passi degli attori sulla scena a stabilire la differenza fra l’azione in fieri, solo immaginata, e l’azione concreta; il presente, unica eccezione alla consecutio temporum declinata al passato, è schiacciato sul reale e non offre profondità o prospettiva, in compenso, rende le scene molto drammatiche. Il passato remoto è risultato appropriato per modellare la definitività degli eventi: quello che doveva accadere è accaduto, ciò che è stato è ormai incancellabile. A volte li ho mescolati nello stesso capitolo, per dare ritmo, movimento, prospettiva. Spero di non aver pasticciato troppo.

Anche con la caratterizzazione dei personaggi.

Le caratteristiche del personaggio devono emergere dalla storia, da quello che dice, da quello che pensa, da quello che fa, da come interagisce con gli altri attori del copione e non da un approccio descrittivo, come invece eccezionalmente ho fatto ne La città verticale, dedicando quasi un intero capitolo a delineare la figura del protagonista. Ma ciò rispondeva a un’esigenza ben precisa: far risaltare la mancanza di una ferma volontà nel personaggio del prete in crisi, che vacilla nella sua fede. Queste incertezze generano tensione nel raccontare e fanno sì che il tessuto narrativo, che rende monchi gli eventi di qualsiasi motivazione, assuma un sapore alquanto assurdo e grottesco, come io stesso anticipavo in Ubi pus, ibi evacua, prefazione al romanzo, nella quale avevo parlato di vicende che parevano tratte dal teatro dell’assurdo, del grottesco e del surreale, ma che dimostrano quanto, a volte, può essere assurda, grottesca e surreale la vita stessa.

            Ogni trama contiene in sé innumerevoli possibilità di soluzione e sceglierle vuol dire iniziare a scrivere. Non ci sono regole, anche se, spesso, si sceglie la soluzione meno ovvia per spiazzare il lettore, stimolare la sua curiosità, tenerlo legato al testo e dare una risposta alla sua domanda: “come va a finire?”. E io rispondo. Ma non subito. Intanto, bisogna scegliere il punto di vista narrativo. In fondo, è come avere una telecamera e bisogna decidere se puntarla sul protagonista, sul comprimario, sul paesaggio o sullo scrittore, se ha scelto l’io narrante, e anche se accostarsi più a un personaggio e allontanarsi da un altro. Se invece puntiamo la telecamera su noi stessi e ci mettiamo vicino al lettore, al suo livello, diciamo, ma un po’ più avanti, in quanto siamo a conoscenza di qualche elemento in più che fa evolvere e proseguire la narrazione, è come se gli dicessimo: “Dai seguimi, andiamo a vedere quello che succede”. Invece, il punto di vista della narrazione in terza persona scaraventa lo scrittore fuori dalla sua storia, egli la guarda dall’alto, come se fosse Dio, e come Lui, è onnisciente e onnipotente, non interferisce con il suo eroe e ne resta distante. Ma può capitare che, nonostante tutte le cautele, il personaggio sfugga dal controllo e lo scrittore è costretto a inseguirlo, a esortarlo, a supplicarlo a comportarsi in un certo modo desistendo da un altro, ma questi non lo ascolta e continua a fare quello che vuole. Allora, la sua disobbedienza costringe il suo creatore a interferire con lui, a dialogarci, a minacciarlo anche, ma questo fa di lui un narratore impotente, che non ha la forza di dirigere i suoi personaggi entro i confini della trama che ha ipotizzato. A me, per fortuna, capita raramente, riprendo subito le redini dei miei personaggi e il controllo sulla trama. Sono un po’ un tiranno, lo confesso, voglio che facciano quello che dico, altrimenti prendo la gomma e li cancello dalla storia. E infine, non mi piace dialogare con loro, preferisco tenermene discosto, perché credo che queste relazioni conferiscano un sapore ottocentesco, moralistico e didascalico alla narrazione. E poi, i personaggi di un romanzo devono restare chiusi in un libro e non entrare mai nella vita reale. Attenzione, quindi, a chiudere bene i vostri libri dopo averli letti.

            Ma torniamo alla costruzione del personaggio.
Per tutta la vicenda il protagonista principale si dibatte incerto fra l’azione e la desistenza, che equivale a una resa incondizionata alla legge del più forte, e solo il finale rivela che le incertezze vengono da lui superate e che il suo punto di svolta è ancora nella fede. Non più nella fede in Dio, divenuto un simulacro di divinità, assurdo, lontano e falso quanto un crocifisso di plastica made in China, ma nella fede verso il quartiere, la città, la sua gente. In fondo, cos’è la fede se non un atto d’amore? Un amore incondizionato che non ha bisogno di prove e che non ammette esitazioni. Ed è in nome dell’amore per quelle persone, che egli accetta di compiere il sacrificio sublime di distruggere la sua vita e tutto ciò che era stato fino a quel momento, gettando alle ortiche l’abito talare, per salvare il suo popolo e portare a compimento il compito di ogni pastore: condurre al sicuro il suo gregge.

venerdì 21 novembre 2014

Il poeta con picco e pala


 

Pascal D’Angelo, nome d’arte di Pasquale D’Angelo, nato a Introdacqua (AQ), emigrò negli Stati Uniti a sedici anni, da analfabeta, menando una vita durissima per cantieri edili, fabbriche, ferrovie e dovunque vi fosse da lavorare. In America non solo imparò a leggere e scrivere, ma si affermò anche come poeta.

Ecco il racconto straziante del suo addio all’Italia e allo stesso tempo della scoperta del treno e della velocità e infine, del mare, che avrebbe attraversato, da una sponda all’altra, da un continente all’altro.

Sentii il fragore del treno – né muli né cavalli a trascinarlo – quindi la stretta di mio padre che m’incitava a salire in carrozza. L’ultimo bacio di mia madre. Il resto sparì tra la nebbia delle mie lacrime. Stavamo andando verso l’ignoto. Il frastuono della prima galleria e quelle luminose macchie improvvise mi fecero trasalire dallo spavento, e smisi di piangere. Quindi sfrecciammo fuori. Il mondo là attorno sembrava una grande giostra. Colline e montagne ci venivano incontro all’impazzata, si dilatavano, poi si sgonfiavano; le case ci scivolavano accanto: prima bianche, quindi svanivano nuovamente in una verde macchia indistinta. Infine, ci fu uno scenario mozzafiato. Eravamo appena usciti da una galleria ad incredibile altitudine, lanciati a tutta velocità verso la pianura campana. Un abbagliante luccichio dilagava tutto intorno e andava a perdersi ai confini del mondo. Sulle prime ebbi paura. Poi pensai: ‘Il mare! Quella dev’essere la cosa che chiamano mare!’

                                                                                              (Son of Italy)

Quante emozioni deve avere portato quel giorno che lo strappò alla sua terra nel suo cuore di fanciullo: la paura dell’ignoto, mentre tremante di freddo e insonnolito, si separava per sempre da sua madre, un’altra paura, stavolta per l’apparire di un mostro metallico che ruggiva e sbuffava vapore: il treno che lo portava a Napoli, dove lo aspettava il piroscafo per il Nuovo Mondo e, infine, la scoperta del mare, quel luccichio ammaliante che dilagava tutto intorno e che non aveva mai visto.

Non rivide mai più l’Italia e i monti dell’Abruzzo, nè ebbe più le carezze e i baci di sua madre. Mori a soli trentotto anni per una banale occlusione intestinale. Se ne andò così, con la banalità e la noncuranza dei suoi giovani anni, quasi tutti spesi nel Nuovo Mondo, the pick and shovel poet, il poeta con picco e pala.

sabato 15 novembre 2014

Love is like suicide


Love is the first kind of suicide”

said the priestman to the silent bride…

(Love Suicide, Tranzgenic)

 

“L’amore è la prima forma di suicidio” disse il prete alla sposa silenziosa.

Lei sollevò il viso e tirò su dal naso. Aveva gli occhi verdi, notò il sacerdote, arrossati dal pianto. Le lacrime scendevano lente sulle sue gote e liquefacevano il trucco, come una maschera di cera. E rivoli scuri già violavano il bianco vestito nuziale. Si udiva un brusio oltre l’altare. Laggiù, tra le ombre delle navate, i fedeli non osavano esternare il loro stupore, la loro perplessità e, infine, la noia. Essi si contentavano di scambiare commenti sottovoce con il vicino di banco, un bisbiglio, un fiotto di parole veloci nelle orecchie del prossimo, niente di più, ma le voci del niente, a decine, a centinaia, si fondevano in un cupo borbottio, un ronzio d’alveare.

“E ora, che fare?” pensò il prete. Quella era la prima volta che gli capitava una cosa del genere. Certo, era già accaduto che qualche nubendo ci ripensasse e non si presentasse il giorno fatidico e, addirittura, che i dubbi e le perplessità assalissero gli sposi al momento di pronunciare il fatidico sì. Ma erano sempre le spose a piantare i futuri mariti sull’altare, come vecchie cornacchie spelacchiate nei loro impeccabili completi scuri, a beccare ormai inutili e tristi chicchi di riso. Mai, a memoria di prete, la sua infallibile memoria di prete, era capitato che fosse lo sposo a non farsi vedere.

Apollonia, era quello il nome della giovane sposa dal volto liquefatto, singhiozzava in silenzio. Aveva un viso minuto e fresco, che la faceva sembrare quasi una bambina fasciata nel lungo vestito bianco. Un testimone di nozze faceva tintinnare nervosamente le fedi nella tasca dei pantaloni e il suo era un sorriso vacuo e superfluo.

 

Lov is laik suisaaaaid…. ululavano intanto i Tranzgenic alla radio e torturavano le orecchie di un giovane al volante, che cercava di districarsi nel traffico domenicale facendo fischiare le gomme dell’auto. Aveva gli occhi pesti, segno di una notte insonne, l’ennesima e si sentiva un incendio dentro lo stomaco. Era vestito con un completo scuro, elegantissimo, ma i polsini, sguarniti dai gemelli, erano liberi di fluttuare nelle maniche troppo larghe della giacca e dalla camicia sbottonata fuoriusciva un ciuffo scuro di orrendi peli toracici.

Girolamo era in ritardo, maledettamente in ritardo. Era il giorno del suo matrimonio ed era in ritardo. La sera prima aveva avuto luogo l’addio al celibato. Il programma prevedeva che i suoi amici gli pagassero da bere in tutti i bar della città e lo avevano fatto, poi, avevano cantato a squarciagola canzoni oscene per strada e pisciato praticamente dietro ogni albero o siepe che avevano intralciato la loro folle passeggiata. L’unico fuori programma era stato quando gli avevano offerto un coito con l’unica puttana incontrata a quell’ora e fatto il tifo per lui come allo stadio.

Begli amici.

Era rincasato alle sei del mattino, la sbornia era passata, ma gli doleva la testa, un male lancinante, che si riacutizzava ogni volta che pensava che di lì a qualche ora avrebbe dovuto sposarsi. E si che davanti a ogni bicchiere che aveva bevuto, davanti a ogni albero dietro il quale aveva orinato e perfino davanti alla prostituta che aveva inalberato, aveva sempre pensato a lei, soltanto a lei. Apollonia era sempre nei suoi pensieri. Ma era un pensiero strano, a volte gradevole, altre, spiacevole. Sentiva di amarla profondamente, ma gli faceva ribrezzo la sua pelle così chiara e gli occhi, di quella tonalità di verde che gli dava allo stomaco. Poi tornava a pensare a lei con tenerezza ma, subito dopo, tornava a odiarla.

In fondo al viale, si materializzò la sagoma scura e inquietante della cattedrale di San Teodoro. Accelerò, il muso dell’auto si sollevò e la cattedrale prese a ingrandirsi e ad avvicinarsi più velocemente. Più si avvicinava e più premeva il piede sull’acceleratore, più dava gas e più la cattedrale s’ingrandiva e non smise neppure quando l’ebbe superata.

Cosa sto facendo? Si chiese sbalordito, ma invano comandò al piede destro di sollevarsi dall’acceleratore e di pestare sul freno, ma la cattedrale era una sagoma scura e non più inquietante che rimpiccioliva dentro lo specchietto retrovisore.

 

In chiesa faceva caldo. Si era al mese di aprile, ma la primavera era stata molto precoce e già s’intravedevano le dolcezze del cielo di giugno. E, lentamente, madre terra sorgeva, ancora una volta, tra le mura morte di noia della città. Il prete ebbe un lampo di genio, alzò una mano e comandò al coro d’intonare un peana. Ma non era la solita Marcia nuziale di Mendelssohn, o l’Ave Maria di Schubert, si trattava di qualcosa che ricordava stranamente la linea melodica della cucaracha, ma molto più blanda di ritmo. Era indubbiamente una marcia, ma per la sua lentezza, era molto più simile a una marcia funebre, o a un requiem, con il quale gareggiava per solennità e mestizia. Però sortì l’effetto sperato. Il brusìo si placò, i fedeli credettero che lo spettacolo stesse per cominciare e forse lo credette anche la sposa, perché smise di piangere. Ma la marcia non finiva, lo spettacolo non cominciava e ben presto tutti si resero conto che si trattava solo di uno stratagemma per far passare il tempo.

 

Una distesa biancolatte fuggiva rapida a lato della strada. Erano mucche al pascolo. Beate loro, pensò Girolamo, che non dovevano pensare al lavoro, alla casa, al mutuo, al matrimonio, ma solo a ingurgitare quintali e quintali di buona erba e la sera, nella quiete tiepida e vaporosa della stalla, farsi strizzare le tette da una specie di piovra metallica che si nutriva del loro caldo latte e non dovevano mica sposarsi.

Sposarsi? La parola gli provocò un tuffo al cuore e lo precipitò nell’angoscia. Era il giorno del suo matrimonio e si trovava chilometri lontano dalla sposa, dalla cattedrale, dalla città. Controllò l’orologio. Era mezzogiorno. Sicuramente Apollonia era in lacrime, disperata, a chiedersi che fine avesse fatto, e i genitori di lei ad augurarsi che la fine che avesse fatto fosse stata davvero brutta, mentre i suoi genitori, che speravano il contrario, per poco non venivano alle mani con i consuoceri. Gli invitati, ormai sfatti nei loro eleganti vestiti attillati e scomodi, certamente fremevano per prendere la via del portale, ma anche le uscite laterali avrebbero fatto al caso, però, non si arrischiavano a muoversi dal banco per non prendersi la responsabilità di quella fuga che tutti agognavano e che avrebbe messo la parola fine su quel matrimonio. Solo i bambini, che possedevano il dono dell’innocenza ma non ancora quello della pazienza, frignavano annoiati e importunavano tutti i parenti che capitavano loro a tiro: “Mamma, papà, nonno, zia, non si sposano più?” E i familiari interpellati cercavano di zittirli con sorrisi ipocriti e risposte che suonavano sciocche e pretenziose.

Il tempo, in effetti, era passato. Ben venti minuti, tanto era durata la nenia funeral – psichedelica che il prete aveva fatto propinare agli invitati. Ma ora non si poteva più fingere, non si poteva più attendere. Il sacerdote impugnò il microfono e con voce decisa disse: “Signori, il matrimonio è annullato. Questo è tutto. Dio vi benedica” E levò in alto l’indice e il medio uniti. Per un istante restò fermo con le dita in alto, come in una sorta di minaccia, poi le abbassò lentamente, quindi le volse dapprima a destra e poi a sinistra, completando in fretta la benedizione. Si levò ancora un mormorio tra i fedeli, stavolta di soddisfazione. Poi gli invitati sciamarono per il portale e le uscite laterali, lasciandosi dietro un silenzio cupo. Andò via anche il prete. Apollonia rimase sola all’altare.

 

Girolamo non sapeva dove andare, voleva soltanto fuggire via, lontano, via dalla città corrosa dall’ipocrisia della gente perbene, via da quella società putrefatta che si sgretolava senza motivo. E anche la sua vita si stava sbriciolando, come un idolo di pietra abbattuto dal peso della ragione. Intanto il panorama scorreva silenzioso oltre il finestrino. Il vetro si riempì di goccioline, cominciava a piovere. Si sentì un perfetto idiota a vagare nelle campagne senza meta, senza scopo, fuggendo dal nulla, il nulla che era dentro di sè, il nulla che sentiva di essere.

“Sono un fallito” disse tra sé “Fallito come fidanzato, fallito come amante e, anche come marito sono un fallito. Fallito senza neppure aver cominciato.”

Quando era un marmocchio si era messo in testa di diventare scrittore. Voleva scrivere un successo letterario, un romanzo che facesse ridere, che facesse piangere e anche arrabbiare e commuovere.

Bene, ora poteva farlo.

Bastava che scrivesse della sua vita, che faceva ridere, che faceva piangere e anche arrabbiare e, a volte, commuovere. Però, non aveva mai avuto manie di grandezza, non si era mai sentito tanto autorevole e megalomane da permettersi un’autobiografia e ne aveva sempre rimandato la redazione a quando sarebbe stato vecchio. I vecchi sono noiosi, più dei giovani in crisi. E anche megalomani. In ogni caso, se uno vuole diventare scrittore, prima o poi deve pur scrivere e l’unico modo per iniziare a scrivere è scrivere. Ma Girolamo non l’aveva mai fatto.

 

Apollonia non aprì il portale. Lo spalancò letteralmente, pensando di trovarsi davanti una folla di volti e di doverli affrontare.  La luce del giorno tumefatto di pioggia e di nuvole l’abbagliò e quando i suoi occhi si adattarono, vide che non c’era nessuno. Nessuno l’aveva attesa, nessuno aveva aspettato per sussurrarle una parola gentile o per un gesto di conforto, o almeno, per porgerle un ombrello. Neppure i suoi genitori. Bè, quanto a loro, non c’era da farsi illusioni. Era l’ultima arrivata di una famiglia numerosa e si era sempre sentita un’intrusa. Una bocca in più da sfamare, una femmina per giunta, da tirar su in fretta per sbatterla fuori di casa il prima possibile. Suo padre e sua madre avevano accolto la notizia del suo fidanzamento con Girolamo con le lacrime agli occhi. Ma quelli non erano lucciconi di felicità, nelle loro pupille brillava il riflesso dei quattrini. I simboli degli euro, dei dollari e delle sterline giravano vorticosamente nei loro occhi come in una slot machine: erano i bigliettoni che suo padre e sua madre avrebbero risparmiato accollando al futuro marito il suo sostentamento. Da quell’istante avevano atteso con febbrile impazienza il giorno del suo matrimonio. Apollonia aveva il vago sentore che non sarebbe potuta tornare a casa.

Fuori diluviava come se il cielo cadesse a pezzi. Dove andare? Grosse gocce di pioggia la colpirono con il fremito di dita gelide, i capelli le s’inzupparono e la magnifica acconciatura, costata tre ore di torture sulla sedia del parrucchiere, crollò senza gloria. La pioggia punteggiò di macchie più scure il vestito da sposa, Apollonia gettò via il velo, ridotto a un asciugamani bagnato, tirò su con entrambe le mani la gonna e cominciò a camminare.

Non sapeva dove andare, la pioggia non accennava a smettere e iniziava a farsi prendere dallo sconforto, quando la sua attenzione fu richiamata da una gigantografia su un muro, anch’essa solcata da rivoli d’acqua piovana. Nell’immagine, una bottiglia di Southern Comfort vuota a metà, una chitarra elettrica dalla superficie scrostata, una ragazza ripiegata su se stessa, in ginocchio sul pavimento, e non si capiva se vomitasse o inseguisse un sogno con gli occhi aperti, perso, chissà come, tra le mattonelle del pavimento. Sul manifesto campeggiava, a caratteri cubitali, una scritta: LOVE IS LIKE SUICIDE.

 

La ragazza si rimise in piedi. No, decisamente non stava vomitando. Prese la chitarra, si avvicinò al microfono e cominciò a cantare.

Love is the first kind of suicide, said the priestman to the silent bride…

Aveva una voce limpida e seducente. La chitarra spargeva uno strato armonico, un po’ ruvido, che tuttavia non sovrastava la sua voce, anzi, si fondeva magnificamente con essa. Non era blues, ma avrebbe potuto esserlo. Non era rock, ma qualcosa che gli somigliava molto. Girolamo non aveva mai sentito nulla del genere. Era un patito di musica, anzi, la sua passione a volte sconfinava nell’ossessione, ma erano anni che non ascoltava qualcosa di veramente nuovo, qualcosa di originale. I suoni che udiva si nascondevano sotto una densa patina di dejà vu, o meglio, di dejà entendu, tanto da fargli credere che il rock fosse un genere musicale sorpassato e morente. Eppure, una cosa così non l’aveva mai udita. Dunque, asciugandosi gli occhiali maculati di gocce di pioggia, si avvicinò per vedere meglio, per sentire meglio.

Sunday morning and the rain begins to fall…

Aveva scorto un luccicore in fondo alla strada, nel tramonto fosco della sera, si era avvicinato e le luci si erano rivelate l’insegna di un locale, qualcosa a metà strada fra un bar e un ristorante e forse era entrambe le cose, o forse, nessuna di esse. Era uno di quei locali che si trovano all’improvviso in mezzo al nulla, aggrappati a una provinciale qualunque, un ristoro per i viaggiatori, anche se di viaggiatori non se ne vede neanche l’ombra. Solo poveri cristi parcheggiati che attendono la fine del giorno. E la strada da qualche parte viene e da qualche parte va. Si materializza dal nulla, scorre attraverso il nulla e, sempre nel nulla, svanisce.

And I must be an acrobat to talk like this and act like that…

Amore e suicidio, eros e thanatos, due forze antitetiche in perenne conflitto, come un acrobata che sfida la forza di gravità su un filo sottile teso nel vuoto. Ma ora Girolamo vedeva chiaro nel buio della sua indecisione che l’amore e la morte sono due facce della stessa medaglia. Amore è morte, morte è amore. La morte spinge verso l’amore e l’amore spinge verso la morte, all’annullamento del se fra le braccia dell’altra. E, non sapere più chi siamo è come morire.

Girolamo si avvicinò al banco e ordinò un caffè. Un caffè? A quell’ora? In quel luogo? Il barista lo guardò come si guarda un unicorno, ma gli servì il caffè. Girolamo avvicinò la tazzina e intinse le labbra nel liquido nero e oleoso. Aveva un sapore improbabile. E quell’odore di muffa, di chiuso e stantio, che impregnava anche le vesti del barista e la polvere sul bancone e le ragnatele tra le bottiglie dei liquori e anche sui volti dei radi avventori, che lo scrutavano, lo indagavano con curiosità viva, perché, in fondo, loro erano sempre gli stessi, ormai quasi complementi d’arredo, ci si accorgeva di loro solo quando erano assenti, e Girolamo invece no, lui era quello nuovo, il cittadino, il forestiero. E analizzavano ogni suo gesto, lo sondavano per capire se la loro cupa disperazione equivaleva alla sua, se in fondo alla sua anima si annidasse ancora qualche residuo d’umanità che puzzava come la loro.

 

Apollonia trasalì. Qualcuno le aveva toccato una spalla.

“Signora… ehm… signorina…” si corresse.

C’era un uomo davanti a lei, un tipo alto, più del suo Girolamo, con gli occhi scuri, più del suo Girolamo, era bello, molto bello, più del suo Girolamo – o avrebbe dovuto dire Girolamo e basta, senza aggettivi possessivi – e alla sua apparizione la pioggia era cessata.

Apollonia gli sorrise, un po’ imbarazzata, quando si rese conto che il tizio non aveva il potere di fermare la pioggia, ma la sua unica virtù era il possesso di un ombrello. Quell’uomo era bello come un peccato, anzi, di più, era bello come un sogno, e nel sogno udì la sua voce chiederle di sposarlo. I sogni non sono la realtà, ma solo il riflesso di quest’ultima sulle tempeste dell’inconscio, eppure lei arrossì ugualmente alla domanda e si costrinse a tornare al mondo reale.

 

La ragazza smise di cantare e si avvicinò. Girolamo scoprì in quell’istante di avere il testosterone alle stelle. Pensò di avere mal di testa proprio per quello, e anche i testicoli gli dolevano, pieni com’erano di lattescente, sacro seme della vita. A volte i suoi sogni erano popolati dalle femmine più luride e lascive e anche quando vegliava la sua mente era ottenebrata da contorte fantasie sessuali. Il membro si ergeva solo a sfiorarlo e l’antica arte di Onan stentava a placare la fame e la sete. Questa condizione sopraggiungeva una o due volte al mese, e quella sera era una di esse. La ragazza era vicinissima, poteva sentire il suo profumo dolciastro, che non copriva il sentore di ascelle sudate. La sua presenza lo ammaliava e lo turbava, al tempo stesso, e generava in lui un torrente impetuoso, un fiume sul punto di straripare.

Supercalifragilistichespiralisexy fu l’unica parola che gli sbucò fra le labbra e che cercò, invano, di pronunciare.

 

“Vuole sposarmi?” chiese l’uomo bello come un sogno. Però non veniva dall’etereo mondo dei sogni, era una persona in carne e ossa e si chiamava Fausto. “Poiché indossa già l’abito da sposa e c’è una chiesa proprio dietro l’angolo…”

“Non mi prenda in giro, non sono in vena, come potrà immaginare”

Ma era in vena più di quanto non desse a vedere. Difatti, già si asciugava le lacrime, perché quell’uomo era alto ed elegante e le sue mani curate annunciavano una casa calda e accogliente e un florido conto in banca. Ma non fu solo per i soldi che Apollonia si risvegliò nel suo letto, il giorno seguente. La notte era scorsa fluida e senza intoppi, un fiume di dolcezze tra guanciali tiepidi e lenzuola disfatte. Non era stato solo sesso, ma neppure amore. Il modo migliore per ricominciare.

 

“Forse dovresti osare… “ Le sue sopracciglia s’inarcarono due volte, per meglio accentuare quanto stava per aggiungere “… di più”. E sorrise.

Girolamo sorrise a sua volta, ma si smarrì subito nel candore dei suoi denti, arse nel rosso vivo delle sue labbra, la cantante coprofaga, mangiatrice d’uomini, che merda siamo. E intanto ripensò a quel suo amore fasullo, quell’amore farlocco che l’aveva quasi condotto all’altare, quell’amore “sperpero dell’anima nello scempio d’ogni pudore[1] e, al tempo stesso, alla sua morte fra le braccia di un’altra donna, la sua dissoluzione e, infine, la sua assenza. Un non esistere, che era anche peggiore della morte. Uno sperpero, un vero scempio.

Stava per cadere ancora, stava per morire ancora, ma non ne era poi così afflitto. C’è un uccello notturno, non ne ricordava il nome, che crede di rinascere ogni volta che sorge la luna, ma all’alba giace nel suo ultimo sonno. E il suo nome non è Araba Fenice. Si nasce, si vive e si muore, una volta sola. E per quel poco di marito che era stato, una parvenza, un simulacro appena accettabile per le convenzioni sociali, si affrettò a precipitare nell’abisso oscuro di un altro essere umano.

Si risvegliò in un letto umido e disfatto, nella plumbea luce del mattino e lei non c’era più. Come da programma, pensò. Il piano di sopra era un albergo a ore e altri come lui si stavano risvegliando come naufraghi, fuggitivi, evasi per qualche ora dalla cella di un’esistenza decorosa e uniforme come una coltre di neve, creature che per abitudine avrebbero ingurgitato tazzine di caffè bollente scottandosi la gola e addentato di fretta i loro stracchi cornetti surgelati, senza sentirne il gusto, come tutti i giorni, prima di ripartire.

Si rivestì alla meglio, si sciacquò il viso e scese da basso. Lo aspettava la sua dose di caffè bollente per ustionarsi la gola e il cornetto surgelato da sbocconcellare in fretta, prima di svanire anche lui sulla strada del nulla, confuso agli altri viaggiatori. Il barista, gli occhi divorati dal sonno, gli porse un foglietto. C’erano scritti un nome e un numero di telefono. Girolamo lesse, finì il caffè, salutò il barista e lo gettò via. Non aveva alcuna intenzione di morire un’altra volta, di legare a doppio filo la sua vita a quella di una donna.

Eppure, era stato più reale quel sogno di bambola che aveva tenuto tra le braccia e tra le gambe quella notte, di milioni di altre donne in milioni di altre notti che l’avevano preceduta. Ma era giunta l’ora di aprire gli occhi e riprendere il cammino.

Si avviò verso la sua automobile e la raggiunse, degnandola di una sola, breve occhiata, ma continuò a camminare. Incedeva lento sotto la pioggia, dentro il fango viscido, come in un sogno balordo del mattino, untuoso e ambiguo, ma non si fermò. Raggiunse il ciglio della strada, oltrepassò la striscia d’erba ingiallita, ma non si fermò. Non si fermò neppure quando i suoi piedi invasero l’asfalto nero e lucido della provinciale.

Non vide il tir che sopraggiungeva alle sue spalle, non udì l’urlo greve e lacerante del claxon, né l’aspro stridio dei freni. Non sentì nulla.

Nelle sue orecchie riecheggiavano le note di una canzone.

Love is like suicide…

 

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[1] William Shakespeare, Sonetto CXXIX.