Si
può girare a vuoto per una vita intera?
Erano
mesi che giravo a vuoto, mesi che parevano anni. Una vita intera
spesa a girare a vuoto, come la ruota di un ingranaggio costruito
male, che non s’incastra con nessuno, che arrugginisce
nell’inutilità. D’accordo, lo ammetto, non mi piaceva il mio
lavoro, non mi è mai piaciuto prendere ordini e soprattutto,
eseguirli, ma c’è qualcuno a questo mondo a cui piace? Se c’è
portatemelo davanti: o è un santo, o è un masochista.
La
vita mi sembrava grigia e marrone, un composto di fango e polvere,
che gocciolava dal cielo, trasudava dalle mura della città, un
precipitato lordo e greve, opprimente quanto un sudario, che
invischiava la mia vita. Una vita intrappolata in un tempo fangoso,
colava ovunque, s’infiltrava dentro gli occhi, impedendomi di
vedere, s’insinuava nelle orecchie, impedendomi di sentire,
penetrava nella mia bocca, impedendomi di parlare e perfino di
respirare.
Giravo
per fabbriche e uffici, per centri direzionali dai nomi altisonanti e
improbabili, per strade di zone industriali, tristi e fasulle, con i
loro bei capannoni grigi che si perdevano nel vuoto. Strade i cui
nomi evocavano il lavoro. Via dell’Artigianato, viale delle
Industrie, via della Produzione. In alcune remote lande
dell’Australia e del Nord America mettono sempre l’acqua nella
toponomastica, ma di acqua neppure una goccia.
Evaporata
al sole.
Dopo
una serie infinita di no, cominciai a pensare che anche da noi stava
prendendo piede quella visionaria usanza. Mettere il lavoro dove non
c’è n’è, ma soltanto nei nomi delle strade. E il lavoro?
Evaporato
al sole.
Non
c’è dunque più lavoro in Italia? Il lavoro si era come
volatilizzato dalla faccia della terra. Dov’era andato a finire? Da
quali braccia proletarie e vigorose era stato stritolato? In quale
lontano continente un qualsiasi operaio poteva guardarmi un attimo,
beffardo e sornione, prima di avviarsi lento a timbrare il
cartellino?
Conoscevo
certi padri che sorridevano ancora, ma si capiva che avrebbero fatto
qualsiasi cosa per poter mandare i figli a scuola, avrebbero ucciso
altri lavoratori pur di prenderne il posto e poter dare risposte alle
domande che risplendevano negli occhi delle loro creature.
Dietro
ogni porta chiusa c’era un no, dentro ogni fabbrica erano al
completo. Ma io sbirciavo all’interno delle catene di produzione e
vedevo quattro gatti operai che oziavano di qua e di là, gli sguardi
assenti, le teste a ciondolare come vuote, lavoratori stanchi e
tristi, stanchi di nessuna fatica. Già, non è il lavoro ad
affaticare le membra, è la noia a sfiancare, è l’ozio a uccidere.
Ma
che razza di gente siamo noi italiani, capaci di passare dal genio di
Leonardo al ghigno di Totò Riina. Siamo individui mediocri, figli
sporchi e cialtroni di un’Italia sciatta e senza speranza, non
rispettiamo niente e nessuno, neanche noi stessi. Siamo quelli che
gettano le cartacce a terra, invece di usare i cestini. Per scoprire
dove siamo andati, basta seguire la scia di rifiuti che ci siamo
lasciati dietro. Ma sento che abbiamo perso qualcosa in questa crisi,
se il lavoro non c’è più, è segno che abbiamo perso la voglia di
rischiare, di metterci in gioco, e il lavoro langue, i soldi
scarseggiano e le idee pure. Abbiamo perso la capacità di sognare.
Non
c’era nessuno che mi voleva, nessuno che avesse bisogno di me. Ora
come non mai, avrei accettato qualsiasi lavoro, avrei fatto qualunque
cosa, pur di non sentirmi vuoto e inutile.
Chi
siamo noi che nessuno vuole? Mi chiedevo. Scarti, rifiuti non
riciclabili, sottoproduzioni di bassa qualità di una società andata
a male? Chi siamo noi, frammenti sbagliati di un puzzle che non
s’incastrano con niente?
Ero
stato a chiedere lavoro in tutti i posti della città nei quali si
poteva cercare un impiego più o meno onesto e non mi era andata
bene. Cominciai a pensare di stare sul cazzo al buon Dio Onnipotente
e a cercare di ricordare cosa potessi avere fatto per farmi voltare
le spalle così. Ma mi venne subito da sorridere, solo nell'anno
passato, c’era l’imbarazzo della scelta.
Io
non so stare al mondo, è vero, ma neppure il mondo sa stare a me.
Mi
buttai a sedere, senza nemmeno fare caso a dove atterrasse il mio
didietro. Era un posto buio, un incavo d’ombre, una gemma nera fra
i palazzi grigi, l’androne di un edificio tozzo e contorto.
Appoggiai la schiena contro il legno massiccio, confortante del
portone d’ingresso e subito sentii un’ondata di calore penetrare
nel midollo dalle fibre del legno morto, mentre le gambe mi si
congelavano sulla lastra di marmo dell’ultimo gradino, gelido come
una pietra tombale. Accesi una sigaretta, incurante degli sguardi
degli inquilini e della gente che passava a poca distanza dal mio
corpo abbandonato. Di loro vedevo solo piedi e gambe, estremità dal
piglio burbero e severo infilate in scarponi militari, o membra
femminili inserite in frivole e provocanti calzature dal tacco a
spillo, o formali e impettite scarpe nere allacciate, in cui
flottavano estremità frettolose di uomini d’affari.
Se
solo mi fossero stati a sentire! Avrei voluto parlare a tutti quei
piedi, a tutte quelle scarpe indaffarate, che di sicuro erano
collegate a delle orecchie e a un cervello pensante. Ma nessuno mi
ascoltava, nessuno voleva sentire le mie parole.
Se
non mi ascoltate, presto non avrò più nulla da dirvi, li ammonii
mentalmente e il mio sguardo assunse una vaga espressione da
Tutankhamon morente, ma nessuno fece caso alla mia maledizione.
Di
me non fregava un cazzo a nessuno.
Mi
sentivo un buono a nulla, buttato così a sedere sui gradini
nell’ombra del palazzo, nella mia profonda pozza di solitudine.
L’amarezza
mi cadde addosso da ogni parte, come una pioggia fredda e malefica.
Per la prima volta nella mia vita, non sapevo che fare.
Guardavo
i barboni chiedere l’elemosina sui sagrati delle mille, troppe
chiese della città e provavo una sincera invidia nei loro confronti.
Loro
almeno uno scopo nella vita ce l'avevano. Far sentire meglio altri
che, pur menando misere e trascurabili esistenze, non sarebbero mai
stati miseri e trascurabili quanto loro. I barboni andavano troppo
piano, erano come immobili dentro il flusso della vita. Come le
lumache, non esistevano.
Mi
piace guardare la gente che non ha più speranza, che non ha niente,
che non sa più niente, con l’eterna sigaretta incollata alle
labbra e gli occhi vuoti. Penso che sto cominciando a somigliar loro.
Le
regole dell’alveare parlano chiaro: se non hai un lavoro, non sei
rispettabile. Se non hai un soldo, non sei niente.
Ero
e mi sentivo un mediocre, l’uomo qualunque, non avevo nessun
talento, rasentavo la media in tutto quello che facevo. Anche a
scuola. Anzi, ero spesso sotto la media. Ne sapevano qualcosa i miei
genitori, quanto li ho fatti dannare, poveretti, sia leggera la terra
sotto cui riposano.
Non
andavo bene a scuola, soprattutto in matematica, scienze e lingua
straniera, che odiavo. Quel poco d’inglese che so l’ho imparato
da adolescente brufoloso e seguace di Onan, guardando e
riguardando Debbie does Detroit (1) in lingua originale. La
consumai quella cassetta mandando avanti e indietro il nastro per
stopparlo sulle scene clou o per godermele al rallentatore. Era un
porno degli anni ottanta girato con estro quasi documentaristico, in
un tripudio di dettagli anatomici e inquadrature che sezionavano
corpi come bisturi, nel quale attori e attrici dalle capigliature
cotonate tipiche di quegli anni consumavano amplessi sotto le luci
fredde e aberranti di uno studio televisivo, scarno e banale quanto
una camera autoptica. Il vuaccaesse l’avevo fregato a mio
zio, che ne possedeva una collezione infinita. Così, le prime parole
di una lingua straniera che appresi furono bitch, pussy, suck,
shit.
Mi
sentivo incastrato in un frammento di tempo, prigioniero di un
presente grigio, pesante, immobile come l’eternità. La mia vita
era una bolla d’aria congelata, instabile nel vento, ma eterna e
immutabile.
Un
dolore sordo mi squassò il petto. Ero giunto ben oltre la soglia dei
sogni. Ero un uomo disperato, finito, ero un essere mai nato,
condannato a non morire mai, il solo che godesse il privilegio di
calpestare la terra nuda senza proiettarvi la sua ombra. Mi sentii
gli occhi bruciare e soltanto allora mi accorsi che stavo piangendo.
Ma
le mie lacrime erano tardive e inutili quanto una scatola di
preservativi.
Vuota.
Oppure
piena.
Di
preservativi scaduti.
Fate
un po’ voi.
Ripensai
a quando un impiego ce l’avevo. All’inizio non me la passavo
male, facevo qualche lavoretto qua e là, finchè non m’avevano
assunto in fabbrica, a tempo indeterminato. Era la prima volta che
non mi sentivo a termine, in scadenza come un barattolo di pelati. Io
lavoravo e basta, facevo quello che mi dicevano di fare e, a volte,
anche quello che non mi dicevano di fare, ma che intuivo doveva
essere fatto, come sostituire un compagno in sciopero, fare doppio
turno al prezzo di uno e stare in piedi con la febbre. Così,
lavoravo dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina, turno
dopo turno, straordinario su straordinario, faticavo come un asino
dodici ore al giorno, cinque giorni la settimana e il sabato sera mi
stordivo nel buio popolato da corpi sudati di una discoteca di
periferia, oppure soffocavo fra le tette finte di una lap dancer.
Ma quella non era vita. Era solo un esistere giorno per giorno. Non
ero vivo, non ero morto.
Non
ero niente.
Poi,
ho perso il lavoro, l’unico lavoro a tempo pieno e indeterminato di
tutta la mia vita, quel lavoro coccolato, vezzeggiato come un figlio,
per il quale mi ero dannato l’anima e la salute. Mi ha annunciato
la sua morte una lettera di licenziamento. Motivo? Esubero
per riduzione produttiva. Così, ho saputo che era
arrivata la crisi, quella grande, quella nera, quella globale.
Mi
fece bene piangere. Mi sentii stranamente vivo; più vivo, caldo,
palpitante adesso che ero in lacrime, accasciato sul marciapiede come
un cumulo di rifiuti, di quando lavoravo come una piccola ruota
dentata in un gigantesco, spaventoso ingranaggio. Adesso che
l’ingranaggio si era inceppato, che ero un improduttivo avanzo
sociale, un parassita a carico del sistema previdenziale, mi sentivo
vivo.
Inequivocabilmente
vivo.
Ed
era già qualcosa.
(1)
Debbie si fa Detroit.