Odore
di terra bagnata, il fondo del bosco screziato di luci e ombre, il sole
ingaggia una battaglia con le chiome dei pini e dei faggi e spesso ne è
sconfitto. Macchie gialle interrompono la monotonia del verde, quasi nero
all’ombra. Fiori di taràssaco, buoni per il risotto.
Non
è l’ora, non è il luogo, non era il caso di venire qui. Il letto era caldo e la
stanza ancora buia, i tentacoli del sonno erano inestricabili e pure li ho
spezzati con l’acciaio della mia volontà.
Non
vorrei essere qui, non lo vorrei neppure se mi pagassero tutto l’oro del mondo.
Vorrei evaporare al sole di maggio, come un pugno di lacrime di rugiada e
svanire in un alito di vento.
Non
vorrei essere qui, eppure ci sono e questo è un fatto immutabile che sconvolge
le mie illusioni, le scompiglia, le spazza via come un vento impetuoso, è un
maglio che m’inchioda al muro di una nuova consapevolezza.
Le
cime aguzze delle vette si liberarono in quel momento dalle nubi che le avevano
cinte come calde berrette da notte. L’alba giungeva fresca e preziosa, prodiga
di raggi solari, che svegliavano la stretta vallata incuneata tra le ripide
montagne. Passavo tutto il tempo a naso insù, non lo facevo da quand’ero bambino.
A causa della bassa statura, ero costretto a guardare il mondo degli adulti con
un eterno mal di collo, che si protrasse ben oltre l’adolescenza. Ma, nel giro
di una sola settimana, crebbi di venti centimetri, come gli asparagi che
crescono al limitare del bosco, di colpo, dopo la pioggia.
Non
ero più abituato alle vette. Me le sentivo addosso, un’orda di giganti immobili
e silenti. Mi mancava il fiato e annegavo tra vortici di vertigini.
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ANGELO MEDICI
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