Portami
di sotto, dove tutto è più reale. Portami dentro stanze vuote ad
ascoltare i vostri silenzi. Portami di sotto e chiudimi dentro la
stanza dove manca l'aria, dove manca l'aria, manca l'aria, manca
l'aria...
E
poi prendi i miei occhi, ecco i miei neri occhi, poiché dove andremo
non serviranno.
Ecco,
ci risiamo. Il passo lento e cadenzato si allontana dalla mia porta e
il fioco lume non proietta più ombre. L'ora di cena è passata da un
pezzo. Bucce marce e pezzi di pane ammuffito li ho raccolti nel
piatto. Fra un po' verranno a riprenderseli i rimasugli di quello che
non può certo chiamarsi un pasto decente. Il sole dev'essere
tramontato col suo solito corredo di incendi e silenzi. Quanto mi
mancano i tramonti. E le albe. Sono un cieco nell'ombra, una talpa
nella sua tana, un uccello notturno rinchiuso nella gabbia della
notte, le cui sbarre sono colonne di luce che feriscono le tenebre.
Rabbrividisco al
chiarore gelato di una luce al neon che ronza come un insetto. Tra
poco la spegneranno e sarà buio pesto. Allora l'oscurità sarà
invadente e pesante quanto una colata di cemento e m'impedirà di
respirare, e il silenzio sarà assoluto.
E
riconoscerò quell'odore, l'unico che si sente qui sotto. L’odore
della terra. Profumo di terra inzuppata, grassa, nera. Radici,
terriccio, vermi. Nero baratro nel quale affonderò un giorno, con un
abbraccio. La terra mi riempie gli occhi, la bocca, il naso. E devo
avere anche il cervello pieno di terriccio, perchè i pensieri mi
s'inceppano di frequente. E' difficile pensare al buio, è difficile
anche respirare qui sotto, figuriamoci pensare.
Se volessi potrei
accendere la torcia che avevo trovato nella mia stanza il primo
giorno. Chissà a chi apparteneva? Ma non sono sicuro che funzioni e,
anche se si accendesse, quanto durerebbe la sua luce prima di spirare
per sempre? Anche se non la uso, la conservo come una reliquia. Qui
sotto è la cosa più preziosa e il solo fatto di possederla, di
possedere la luce, mi fa sentire ricco.
Quand'ero
là fuori, scrivevo. Ma mi pare che siano passati cent'anni. Non so
più se esiste ancora un Là
Fuori,
o se il Qui
Dentro
ha divorato il mondo, sbranato il sole, dilaniato la primavera e il
buio sia ormai l'unica possibilità di esistere. Di continuare a
vivere. Non so più come si fa, non so più impugnare una matita e
tracciare segni sulla carta. Scrivere è nascondersi. Nascondersi
agli occhi del mondo, della folla, della moltitudine. Almeno in
questo ci sono riuscito.
Scrivere è
pericoloso, le parole sono armi a doppio taglio. Un filo di lama per
il significato apparente e formale e l'altro per le verità nascoste.
Quelle che fanno male, quelle che possono anche uccidere. Scrivere?
Nessuno lo fa più, ormai. Tanto nessuno legge, nessuno più si
sobbarca quel rischio. Allora, perchè scrivere?
Devo essere qui da
tanto, perchè mi pare ormai soltanto un sogno. Un sogno dal quale
non riesco a svegliarmi. All'inizio ho cercato di contare i giorni,
memorizzando quante volte si accendeva la luce per la cena. Sono
arrivato a contarne fino a centosettanta, poi i giorni sono diventati
tanti all'improvviso, e ho smesso.
Non mi ricordo
neppure come sono finito qui sotto. Mi sono assopito dall'altra parte
e mi sono risvegliato qui dentro una mattina. Una mattina? Ho
consultato l'orologio, ma è uno strumento ambiguo, a queste
profondità non penetra la luce del sole; tuttavia anche a quel
passatempo ho dovuto presto rinunciare. In verità non sono sicuro
che sia davvero passata l'ora di cena, potrebbe essere qualsiasi ora
del giorno o della notte, ma a che vale saperlo? Non farebbe alcuna
differenza.
Per ingannare il
tempo ho imparato a contare. Se conto lentamente, fino a 1000 so che
è passato un po' più di un quarto d'ora e se arrivo fino a 3.600 è
trascorsa un'ora. Oltre non riesco, la mente si stanca e perdo il
conto. Così, la mia vita si svolge nell'angusto confine di un'ora.
Vivo un'ora alla volta, quando ho voglia di contare. Fra un conteggio
e l'altro, la mia esistenza fluttua nell'oscurità senza tempo. E mi
sembra di essere morto. Forse la morte è soltanto questo: assenza di
luce e di tempo. Niente di cui avere timore. In confronto la vita è
così spaventosa.
Qui è tutto così
strano, ma col tempo ho fatto l'abitudine a questa stranezza, che mi
pare ora la normalità, che ho l'impressione di aver sempre vissuto
così, che la mia vita prima e la mia vita adesso, la mia vita fuori
e la mia vita dentro siano state e siano ugualmente ambigue e
improbabili. Ma c'è qualcosa che non va. Ho la sensazione che mi
sfugga non so che.
Ma non sono lucido
a sufficienza per comprenderlo. Quando mi sveglio, non sono affatto
sicuro di esser desto, e quando mi addormento non so se sono davvero
preda del sonno. Forse aleggio fra l'uno e l'altro stato, senza
dormire mai e senza essere proprio sveglio. Un dormiveglia
nell'incoscienza e nel buio. Ma tutto è così reale, tangibile. I
passi che si allontanano nel corridoio, i rumori delle altre stanze,
posso sentire perfino respirare dalla stanza che confina con la mia.
Dunque non sono solo, anche se non ho mai visto nessuno. In verità,
non vedo neanche chi mi serve il frugale banchetto. Odo un
picchiettare lieve all'uscio, corro ad aprire, ma non c'è nessuno,
sento solo passi allontanarsi in fretta e sul pavimento l'involto del
pasto.
E scopro una fetta
di pane in più, due cucchiai di minestra oltre il solito. Una mano
misericordiosa? Qualcuno conserva ancora in sé uno sprazzo di
umanità nel buio di queste segrete?
E' come una città,
una tana, un alveare che si sviluppa su piani inclinati. Ogni cosa
rotola verso il basso, sempre più a fondo, dove si annidano le
miserie della notte e la tenebra senza fine.
Non so che darei
per far cessare questa mia esistenza sotterranea.
Una gelida corrente
d'aria sibila e s'insinua sotto la fessura della porta, turbina sul
fondo della mia stanza, come gli spifferi di una notte d'inverno. E'
aria pesante, viziata, piena di umidità, sa di acqua e fango. E'
come un segreto vento sotterraneo che visita queste stanze e mi gela
i piedi.
Tremo, fin dentro
le mie ossa. Non so più neppure che faccia ho, se mi è cresciuta la
barba o si sono allungati i capelli, se ho le orbite incavate o le
guance paffute. E del colore dei miei occhi non serbo più alcun
ricordo. Non ci sono specchi. Ma se anche ve ne fosse uno, la luce è
così fioca che dubito avrebbe la forza di riflettermi sulla sua
superficie.
Non parlo più. Ho
scordato come si fa. Se non c'è nessuno ad ascoltare, parlare è
inutile. E anche conversare con se stessi serve soltanto a rinnovare
la noia e seccare la gola. E poi, io parlo solo di quello che so, non
saprei discorrere delle cose che non conosco. Per questo, da quando
sono qui, ho imparato a tacere. I miei silenzi sono profondi quanto
la mia ignoranza. I miei silenzi sono più profondi di questo luogo.
Ho provato a scoprire la verità, ma le ombre le fanno velo e le
tenebre generano mostri. Meglio tacere.
Non credo di aver
fatto qualcosa di sbagliato. Ho sempre fatto quello che mi hanno
detto di fare. E continuo a farlo. Errori, colpe, peccati, io non ne
conosco. Eppure sono qui.
Non so con
esattezza, dicevo, come sono finito qui dentro. Non conservo ricordi,
ma ho come l'impressione di essere comparso per puro caso nel preciso
istante in cui ero atteso. In realtà, non è questo il verbo giusto.
Ad attendermi non c'era nessuno. Come dicevo, qui sotto non ho
incontrato anima viva. Anche se, da certi lamenti di notte, certi
rumori striscianti lungo i corridoi, la pesantezza di passi sopra la
mia testa, so di non esser solo. E quelle voci, appena sussurrate,
che odo a stento, con quel tono speciale che le donne usano di notte
fra loro. Ecco, non so come faccio a esserne sicuro perchè le
percepisco appena, ma quelle voci chiamano il mio nome.
E in qualche modo
mi risultano familiari. Se chiudo gli occhi mi rivedo nella mia
cameretta da bambino, sotto le coperte in una notte di pioggia, e
ascoltavo quelle voci, le stesse che sento ora, appena dall'altra
parte del muro, a decidere il mio destino, allora come ora.
Ero infelice
allora, sono infelice ora. A volte penso che non uscirò mai da
questo buco. E se lo penso, il mio pensiero dura quanto l'eternità.
In un modo o nell'altro siamo tutti condannati all'infelicità.
Là fuori è tutto
vero, qui dentro è tutto falso. Le mani che tastano il mio viso, che
sfiorano i miei occhi, che mi pizzicano le guance sono davvero le
mie? Ed è mio questo corpo che sfiorano o è soltanto la pia
illusione generata da un cervello che si ostina a credere di essere
ancora in vita?
Se cerco di
richiamare alla memoria le circostanze in cui sono precipitato qui in
fondo, la mia mente si rifiuta di tornarvi. Forse è il momento in
cui ho cominciato a capire, forse è l'istante in cui ho cominciato a
morire e l'agonia di quell'attimo si disperde come un'eco
nell'oscurità.
Ma io sono ancora
qui, vivo e vegeto, a sperare contro ogni speranza, di tagliare la
corda.
Alcuni giorni fa,
era notte era giorno, non saprei dire, ho sentito uno scalpiccio, un
rumore lieve, come di zolle di terra che si frantumano. Ho tastato il
pavimento fino alla sorgente del rumore e ho scoperto un buco nel
muro di terriccio. Dal foro, dal contorno irregolare, spirava una
corrente d'aria fresca, l'ho sentita con le dita, l'ho annusata, non
il gelido fiume d'aria che mi ghiaccia i piedi. E' aria pura. Ormai
un lontano ricordo. Poi sotto le dita ho sentito dei filamenti lunghi
e morbidi, ve ne erano alcuni sul pavimento e altri ancora dentro il
piccolo foro. Li ho annusati ma non sono riuscito a riconoscerne
l'odore.
Quando si è accesa
la luce, ho scoperto una piccola talpa. Da dov'è venuta? Ho cercato
di afferrarla ma lei, sbattendo contro le pareti, ha riguadagnato il
suo buco ed è sparita così com'era arrivata. Ho aperto il pugno che
stringeva i filamenti e riconoscendo quello che avevo sul palmo della
mano ho riconosciuto anche il suo odore. Fili d'erba! La talpa se li
è trascinati dietro impigliati alle zampe da qualche prato lassù.
Lassù! Allora esiste ancora una terra su cui cresce l'erba, l'acqua
che la nutre e un sole che le infonde il suo calore. Dio che buon
odore! Mi ero dimenticato come odorasse l'erba. Allora si è riaccesa
in me una nuova speranza. Se la talpa è arrivata fin qui, io posso
arrivare fino alla sua tana, appena al di sotto della superficie e
basterebbe rimuovere le zolle per poter sbucare con la testa nel
campo dove crescono quegli steli d'erba che le si sono attaccati alle
zampe. Basta solo allargare il buco, scavare con le mani una galleria
più ampia, la terra è morbida e friabile, e seguire a ritroso la
sua strada.
La luce si è
spenta e scavo alla cieca come un pazzo. La terra s'infila sotto le
unghie, ma continuo a scavare, di tanto in tanto incontro spuntoni di
rocce taglienti che mi lacerano la pelle, il terriccio s'insinua
nelle ferite e brucia, ma continuo a scavare. Dopo un'ora sono con le
spalle e con la testa dentro il buco.
Ho la terra negli
occhi e nelle orecchie. Ma continuo a scavare e a strisciare, come un
grasso, lurido lombrico. La galleria è angusta e ogni respiro è una
fatica colossale, come se un boa mi avvolgesse dentro le sue spire di
terriccio. Non so quanto tempo è trascorso, quando un boato squarcia
la notte, la terra trema e mi cade addosso, sommergendomi a ondate
rabbiose.
Una sensazione
fastidiosa in testa. Apro gli occhi. Devo essere svenuto. Sento di
nuovo un contatto sgradevole sulla fronte. Cerco in tasca la torcia e
l'accendo. Una mano mi punta in faccia il suo indice accusatore!
Il mio cuore pare
volersi estirpare dal petto ed evadere dalla sua sede fisiologica e
non si calma neppure quando capisco che quella mano era la mia. Sono
caduto sotto la furia della frana e devo essere svenuto assumendo
un'insolita postura, puntandomi in faccia il dito, come se mi
autoaccusassi della mia fuga. Mi sono preso un bello spavento, lo
ammetto, ma sono vivo.
Mi scuoto la terra
di dosso e riemergo. Sputo terra, ho sapore di ferro in bocca. Ma per
fortuna sono indenne. Provo a muovere qualche passo. L'oppressione
delle pareti non mi schiaccia più le costole e posso respirare. Mi
trovo in una sorta di radura sotterranea. Una frana ha forse fatto
crollare un velo di roccia e aperto un varco. Questa vasta piazza
nelle viscere della terra è punteggiata da macchie scure. Sono
imbocchi di cunicoli. Talpe e altri misteriosi animali di questo
mondo occulto devono aver lavorato per secoli, grattando con le loro
zampette la terra di queste gallerie.
E ora che fare?
Ci sono centinaia
di tunnel e non sono sicuro che sbuchino tutti in superficie. Se
imbocco quello giusto, magari in pochi minuti rivedrò la luce del
sole, ma se scelgo quello sbagliato potrei girare per anni
sottoterra, senza emergere mai. Sepolto vivo.
Mentre m'interrogo
se infilarmi a caso in una galleria, o se non sia meglio tornare
indietro, qualcosa guizza all'apertura di un tunnel. E' veloce, ma la
mia mano lo è di più. La avvicino agli occhi e dal pugno sbuca un
musetto grigio e un paio di baffi. E' un topolino di campagna! E' il
segnale che cercavo, vuol dire che siamo vicini alla superficie. Da
qualche parte, sopra la mia testa, forse a non più di tre o quattro
metri, un popolo d'alberi prospera su una nazione d'erba e foglie
morte.
L'ingresso è un
po' stretto, ma gratto alacremente le sue pareti e mi par d'essere
anch'io una talpa all'opera nel suo elemento. Infilo la testa nel
buco. La luce della torcia mi abbandona. Il buio fitto mi preme sugli
occhi, fin quasi a farmeli schizzare fuori dalle orbite. Ma mi faccio
coraggio e penetro lentamente e non senza apprensione nelle tenebre.
Raschio le strette
pareti cercando di dilatarle, scavo e procedo, lentamente, ma
procedo. E sono ancora un verme che striscia il ventre sulla fredda
terra.
Ma c'è roccia qui,
le mani mi fanno male e non riesco più a scavare. Devo
indietreggiare e provare da un'altra parte. A volte per andare avanti
bisogna tornare indietro.
L'idea è buona,
trovo subito un filone di terra morbida, che aggredisco a piene mani.
Un diaframma di terra si sbriciola in pochi istanti e mi ritrovo
ancora nella galleria principale.
E' la strada
giusta, sento un soffio d'aria fresca sul volto e, in fondo in fondo,
lontanissimo, così lontano che sembra un sogno, un debole chiarore.
La luce aumenta man
mano che avanzo, cresce e si dilata nell'atmosfera angusta e
opprimente del cunicolo. Ma ecco, ci siamo, un ultimo colpo e la tana
si scoperchia come una tomba.
Sono
Fuori
e sto respirando. Quest'aria fredda mi lacera la gola, mi brucia i
polmoni. E' come nascere un'altra volta. Metto un passo dopo l'altro
e comincio a camminare. Ho paura di sbattere, dopo i fatidici due
metri della mia stanza, contro il muro di terra. Ma qui non c'è
niente. Soltanto aria. Mi gira la testa e ho la nausea, come se mi
avventurassi sull'orlo di un precipizio. Ma il fondo è solido e non
ci sono voragini in attesa di fagocitarmi. Cammino, sempre più
spedito. Mi fanno male le gambe, ma proseguo. Cammino, sempre più in
fretta. Mi manca il fiato, non sono più abituato. Ma ora corro,
corro sull'erba bagnata, nel prato fangoso, corro su una strada
asfaltata.
Vedo in lontananza
le luci di una città. Le luci ingrandiscono, crescono, si
moltiplicano nutrendosi di oscurità, la tagliano a grandi fette, la
dilaniano, la sbranano e la rigurgitano sotto forma di intensi
bagliori. Ecco la città, una trappola fatta di luci multicolori, e
in fondo alla trappola, la moltitudine senza destino, la folla
multiforme, un mostro dalle molte teste pronto a catturarmi.
Volti, espressioni,
occhi che mi fissano, teste, braccia e gambe e di colpo piombo dentro
una solitudine che non conoscevo, una solitudine affollata; non ho
più freddo fra la gente, la massa calda e vociante mi assedia, mi
conquista e penetra in me. E la vita riprende a scorrere come il
sangue nelle vene. E finalmente sono dentro il mondo, nel flusso
inarrestabile della vita.
Mi pare che il
fiume di gente scorra troppo veloce, la corrente serpeggia fra gli
angoli dei palazzi, le rapide rumoreggiano tumultuose e io sono
soltanto un pezzo di legno trasportato dalla corrente. Non posso che
assecondarla.
Ma le stelle non
corrono più così veloci sopra la mia testa, la corrente sta
rallentando, o meglio, mi sono accorto di essere finito in un flusso
secondario che si assottiglia sempre più fino a prosciugarsi.
Le ultime lingue
d'acqua della fiumana mi depositano ai piedi di due signori ben
vestiti che mi acciuffano e mi trascinano via con loro in un basso
edificio dalla sagoma irregolare, privo d'insegne e di qualsiasi
luce. Insieme imbocchiamo corridoi, scendiamo scale, entriamo in
montacarichi cigolanti, e caliamo, sempre più in basso. Finchè
udiamo un tonfo sordo. Abbiamo toccato il fondo.
La gabbia di ferro
si apre all'improvviso con gran fracasso. Entriamo in un lungo
corridoio, lo percorriamo tutto con passo deciso, io e i miei due
accompagnatori. Ci fermiamo soltanto davanti a una porta. La
riconosco. E' la mia.
E' la stanza 42.
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