lunedì 30 dicembre 2013

Corpo a corpo


Tutto ebbe inizio con sguardi bassi, mani protese e subito rifiutate, con sorrisi non ricambiati, con parole che nessuno osava ripetere, che risvegliavano rancori sopiti, soffocati sotto coltri di conformismo e quieto vivere. Ogni cosa ebbe inizio e proseguì in quello stato di astio latente. Nessuno sapeva dove sarebbero finiti, nessuno poteva conoscere l’epilogo e neppure sospettarlo. S’illudevano che l’amore avrebbe risolto ogni cosa, che avrebbe illuminato a giorno anche la notte più oscura, ora che le loro notti si facevano così frequenti, ma temevano anche che l’orgoglio potesse schiacciare sotto i suoi pesanti piedi quell’amore giovane e pulito, quell’amore appena nato e già in pericolo, che una mano nera e artigliata agitava a suo piacimento nell’abisso della tristezza e del dolore.

Allora l’aveva cercata.

A dire il vero, era tutta la vita che la cercava. Nella sua casa, tra le sue braccia, nella sua solitudine l’aveva cercata, nei giorni di luce, nei giorni d’ombra, nei giorni di vento. E continuava a cercarla. Spasmodicamente. Voleva tutto di lei. I sorrisi, i baci incerti frutto della sua eterna indecisione, i sogni e gli incubi, i desideri svaniti nel nulla, le parole mai dette, simili a gocce sospese dalle labbra e sul punto di cadere, ma mai pronunciate.

E le lacrime.

Raccoglieva appunto le sue lacrime una ad una, come gioielli da incastonare in una corona di spine, da porle sul capo, quando, vestita da sposa, l’avrebbe condotta all’altare il giorno delle nozze. Erano affamati di luce e di suono, eppure assenti, come bocche che si spalancano senza parlare, assenti, come occhi che si aprono senza guardare. Dalle mani, dagli occhi e dalle bocche l’amore risplendeva per un breve istante, ma, riflettendosi negli specchi paralleli delle loro anime, li confondeva. Allora lui la rivedeva, stranita e confusa, strana come strani sanno essere solo i sogni e tentava di offrirle in dono le parole che non aveva mai voluto ascoltare, le porgeva lacrime che non aveva pianto, le regalava le parole che non le aveva mai detto.

Aveva provato numerose volte a dichiararle le ragioni per le quali le imputava il loro fallimento, la distruzione dei loro sogni. Aveva pensato, riflettuto, elucubrato, s’era scervellato, ma neppure una volta era riuscito a dirle di quei maledetti motivi. Gli era risultato impossibile. Allora aveva pensato, riflettuto, elucubrato, s’era scervellato e aveva provato a scriverle il perché di tale impossibilità, ma neppure in quel caso c’era riuscito. Poi, un giorno, come per un brusco risveglio, aveva finalmente capito dove stava lo sbaglio, dove si nascondeva l’errore, in quale luogo, frazione o parte oscura dei suoi pensieri si annidasse l’equivoco. Non erano addebitabili a lei tali supposti motivi, erano imputabili solo a se stesso.

Non la sapeva amare.

Avuta la rivelazione, aveva provato a spiegarle in mille modi gli errori in cui era incorso, gli equivoci che avevano ingannato la sua percezione. Ma lei era stata irremovibile. Aveva inteso il suo non sapere amare, come non amare, aveva interpretato la sua confessione come la fine dell’amore, la resa senza condizioni, la sepoltura prematura di quel sentimento ancora fresco e palpitante, la loro pietra tombale. Profondamente ferita dall’equivoco, aveva reagito ferendo a sua volta. Aveva preteso di poter smettere di amarlo, semplicemente imponendoselo, s’era convinta di poter fermare i loro cuori, semplicemente impedendo loro di battere, affogando le loro stesse vite in un secchio pieno di veleno e di rancore.

E ogni volta che s’incontravano era un continuo braccio di ferro, una corsa a primeggiare sull’altro nei sentimenti, nelle bontà, nelle emozioni, perfino nella rabbia, nell’angoscia e nelle perfidie reciproche. Tutte le volte che s’incontravano, veniva messa in scena una disfida infinita, assurda e inutile, quanto la sua crescente intensità. Erano così intenti a colpirsi, a ferirsi e a farsi male il più possibile, che non si avvedevano di null’altro.

Era una battaglia senza quartiere di una guerra combattuta solo per abitudine, una lotta corpo a corpo, all’ultimo sangue, un abbraccio mortale non ispirato tuttavia dal desiderio, che non lasciava morti a terra, solo feriti condannati a sopravvivere e soprattutto nessun vincitore, ma solo eterni sconfitti, perché nessuno poteva vincere a quel gioco.

A quel gioco si poteva soltanto perdere.

Si rendevano conto che non esisteva più alcuna via d’uscita, che non era più possibile alcuna salvezza. Semplicemente, il tempo a loro disposizione era terminato, la partita era stata giocata e il suo esito, per quanto scontato, era ormai deciso ed era proprio davanti ai loro occhi, a certificare il loro fallimento. Entrambi sapevano bene che non ci sarebbe potuto essere un intervallo per riprendere fiato, che nessuno avrebbe chiamato il time out per riflettere sul da farsi, che non ci sarebbe stato un terzo tempo per rimettere di nuovo tutto in discussione. Sapevano bene che non sarebbero state concesse proroghe o dilazioni.

Lo sapevano fin troppo bene.

Così, quel corpo che aveva amato senza compromessi e che aveva dato carne e sangue alla loro progenie, profilo di quell’anima pura, tanto bella e così stranamente simile alla sua - una volta vibravano all’unisono, come risonanze armoniche sulle corde di una chitarra – non era più per lui.  Quel corpo così amato e desiderato, conteso e conquistato palmo a palmo con una lotta feroce, quel corpo conosciuto a fondo come un continente esplorato centimetro per centimetro - colline e dolci pianure, coste e insenature e in fondo, il bosco fresco e oscuro a celare la porta socchiusa -, quel corpo non aveva più significato, non aveva più valore.

Quel corpo con il tempo era tornato ad essere del tutto sconosciuto, come se rovi, edere rampicanti e piante parassite si fossero riappropriate degli spazi loro sottratti e li celassero di nuovo alla vista, era tornato ad essere del tutto ignoto, quanto può esserlo una terra appena emersa dalle acque, i cui contorni siano stati solo abbozzati da geografi inesperti su una mappa polverosa e dimenticata dal tempo. Quel corpo, come un’isola avvolta nella nebbia, cinta da mari bui e spaventosi, era ormai lontano e irraggiungibile.

Persino nei mesi che seguirono la separazione fisica e l’imposizione delle distanze, nella condanna alla castità forzata il suo corpo chiamava ancora quello di lei, come il moncherino cerca l’arto amputato, che, per un riflesso condizionato, crede di muovere ancora. Il suo corpo desiderava quel corpo, anelava unirsi ad esso, non poteva farne a meno. Pativa la perdita come un’ingiusta privazione, il distacco, come una crudele, ma necessaria amputazione Con una sofferenza lenta e atroce, peggiore della fame e della sete, il suo corpo pativa l’abbandono.   

L’aveva amata tanto, senza interruzioni, senza compromessi, tanto da stare male, tanto da impazzire, tanto da non credere di poter amare in quel modo disperato e ineluttabile, di quell’amore devastante, sadico e totalitario, con la stessa costanza della fiammella di una candela che illumina per sempre la notte, senza mai consumarsi.

Lei lo lasciava senza fiato per quante volte la guardasse. Era bella.

Lei lo lasciava senza fiato per quante volte l’ascoltasse. Era crudele.

Ma non era più per lui, non gli apparteneva più. Forse, non gli era mai appartenuta.

E tuttavia, la sola idea che potesse amare qualcun altro, che dovesse spartirla con altri uomini, lo faceva letteralmente uscire di senno. Questo sospetto aumentava ogni giorno e come un tarlo, gli rodeva il cervello, lo imprigionava in una follia accecante, lo immobilizzava in una camicia di forza, densa di sudori malati. Era ormai divenuta un’ossessione per lui. Sentiva impellente, come un bisogno fisico, la necessità di liberarsi, sapeva di dovere spezzare quei legami morbosi che ancora l’avviluppavano a lei.

E all’improvviso, lei se n’era andata.

Se n’era andata così, su due piedi, senza una parola, senza un addio, senza una lacrima. Nemmeno un lamento, quando le aveva affondato la lama nel petto, senza quasi voltarsi indietro a guardarla per l’ultima volta, mentre andava via con il volto illuminato dall’espressione beffarda delle persone, che vogliono restare da sole a godersi finalmente la vittoria.

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lunedì 16 dicembre 2013

Un racconto dell'alba


Una notte senza stelle, come una placida, opaca volta di argilla, incombeva sulla valle e  sfiorava le vette dei monti più elevati. Un silenzio irreale, quasi una sorta di tacito rimprovero, aleggiava su quel luogo infernale, mentre la pesante cappa del cielo opprimeva la mia anima, oltremodo oberata dai troppi sensi di colpa e dalle occasioni mancate.

            Gli occhi mi bruciavano, mi passai le dita sulle palpebre e scossi la testa. No, non avevo ragione di credere in un cambiamento, come non avevo ragione di sperare il fresco ristoro di una brezza leggera. I miei occhi stanchi si velavano a tratti, a tratti riconoscevano i contorni di forme familiari, oppure angoscianti, o semplicemente inesistenti. A volte si chiudevano, serrandosi a protezione di un universo interiore, forse migliore, forse peggiore, certamente meno labile di quella piccola parte di mondo che mi era toccata in sorte come patria. Non potevo, tuttavia, provare sentimenti d’invidia, non era mai stato nel mio stile. Le mie uniche possibilità di successo si perdevano sconsolate oltre l’orizzonte, chiuso e oppresso anch’esso per l’eternità dalle sottili e livide dita di roccia dei monti.

            A tratti mi risuonava nella testa, nitido e cristallino nella memoria, il brontolio cupo del mare del Nord, attraverso antichi fiordi aperti nella terra e canali stretti e irti di pericoli e isole ricoperte di brughiere e rugiada, sommerse e abbandonate come relitti nella nebbia, sotto il cielo pallido e dilatato della notte. Non avevo ancora vent’anni quando mi recai in quei luoghi in sogno, ma il sogno fu così reale che il dolore che ne provai rimase inciso sulla mia pelle, con la certezza di un incubo ricorrente.

            Non è l’ombelico del mondo questo, mi dicevo, è il suo esatto contrario questo stare agli antipodi, mentre i miei desideri montavano alle stelle come la marea, prima di essere ricacciati indietro e soffocati da ondate violente come le mareggiate lungo la costa.

Vi erano giorni in cui avevo la certezza dell’eternità delle cose, dell’immutabilità delle ore e del profilarsi regolare o discontinuo di una nuova stagione all’orizzonte. Certe volte stringevo i pugni sconsolato, certe altre vagavo nei bagliori incandescenti di un sogno musicale, vivendo del ritmo e dell’inafferrabilità delle melodie, o della pura astrazione matematica dei suoni e delle vibrazioni del contrappunto.

            Quando i miei occhi vagavano verso la sfericità dell’orizzonte, cercavo nella luce crepuscolare della sera in attesa, una nuova manciata di suoni e colori, un ritmo esotico e interminabile, o gli accordi di una melodia antica e dimenticata, che il fiato umano avrebbe potuto riportare alla vita attraverso i piccoli fori di un flauto d’osso.

            C’erano giorni in cui avevo la visione nitida di mondi primordiali e confusi e la certezza che la vita si stesse svolgendo altrove, per nuovi spettatori, con trame affatto diverse da questa che stava dipanandosi verso l’epilogo. Ero capace di vagare nella notte, fino a quando la pioggia filtrava sotto i miei vestiti inzuppati e scivolava sul mio corpo e l’umidità penetrava dentro le mie ossa, solo per ritrovare l’estatica contemplazione di un solo istante, che sarebbe potuto durare quanto tutto il tempo che avevo fino ad allora vissuto.

            Già dieci anni erano passati dalla prima apparizione di quella pallida alba lunare, che aveva macchiato lattiginosa le cime degli alberi incatenate al cielo e gli aghi di pino scossi dal cataclisma di acqua e vento dei temporali. Compresi di essere stanco di lottare per sostenermi contro il vento contrario e fui sicuro di avere raggiunto una nuova consapevolezza, pur senza esserne certo. Come dire, ero un edificio senza le fondamenta.

            Allora compresi che era proprio giunta l’ora di andare. La consapevolezza di dover tagliare i legami con il mondo finora conosciuto non m’indusse sentimenti di tristezza, non insinuò nelle membra tremori d’incertezza come per febbre, anzi, ero deciso e sicuro di me. L’alba che sorse il giorno seguente, dopo la notte che passai insonne tra gli addii e le promesse di ritornare, che sapevo avrei infranto senza rimorso, rischiarò la stanza e mi diede il segnale della partenza. Non fu difficile partire ed andarsene per sempre. Quasi sempre, dò il meglio di me nei momenti di tensione, nelle ore di dolore, negli stadi d’incertezza. Neppure quella mattina fece eccezione. So distaccarmi da me stesso e, divenuto a un tratto freddo e razionale, non mi faccio sopraffare facilmente dalle emozioni. Così, mi fu più facile superare l’ora della separazione. Salutai i miei parenti con distacco sufficiente a farvi scivolare sopra senza lacrime il mio rimpianto, feci un’ultima carezza al cane, che mi guardò perplesso, come se mi vedesse per la prima volta e partii, senza voltarmi indietro.

Il motore rombava, sicuro e affidabile. Macinavo chilometri sul nero nastro d’asfalto e puntavo dritto a nord. Andavo verso il grande fiume, con una sola lunga cavalcata. Ero euforico ed eccitato, impugnavo le redini della vita saldamente nelle mani e la montavo con sicurezza.     

Quando arrivai, nonostante fossi stanco del lungo viaggio e avessi necessità di riposo, mi arresi alla tentazione di andare a passeggiare sulla riva del fiume, che da tanto tempo desideravo vedere. Scorreva lento e maestoso. Come un mare longitudinale contenuto tra due lingue di terra, conteneva a sua volta isolotti e insenature, rade occupate da uccelli pescatori e bianche spiagge di sabbia, lambite dall’acqua appena increspata. Una barca lo attraversava lentamente, lasciando una scia bianca. In quel momento, mi voltai a guardare verso la strada che costeggiava l’argine.

E fu allora che la vidi, che vidi la donna del fiume. Procedeva per la strada, venendomi incontro. L’avevo vista da lontano, ma anche da così distante l’avevo riconosciuta. Non so dire cosa trovassi di familiare in lei, per sostenerlo con certezza, perché, in fondo, non l’avevo mai vista prima d’allora. Nonostante questo, mi sembrava di conoscerla da sempre e di rivederla dopo tanto tempo. Quando arrivò vicino a me, rallentò il passo e ci guardammo. Mi sorrise con cortesia e si fermò.

Non so come, né perché iniziai a parlarle, ma sapevo che dovevo farlo e lo feci. Non sapevo cosa dirle, ma le parlai. Il mio cervello era vuoto di pensieri logici, ciononostante parlavo, rendendomi conto delle parole che stavo articolando, soltanto l’istante stesso in cui le pronunciavo. Ho solo un confuso ricordo di quei momenti, ma avverto ancora con precisione le sensazioni che provai. Ero come in trance, parlavo meccanicamente, immerso in una visione onirica dal tempo sospeso.

Una volta ebbi la possibilità di scegliere tra una vita immersa nelle profondità abissali delle incertezze, scossa continuamente dal vento degli incubi e una vita, seppur breve, al di sopra delle nuvole, sostenuta dall’inconsistenza irreale dell’aria e destinata a schiantarsi, prima o poi, sulla dura terra, dopo un tragico annaspare tra il vapore acqueo dell’atmosfera, all’apparire delle prime incertezze.

La donna del fiume ascoltava, assorta.

            Non ebbi la prontezza di spirito di afferrare al volo la scelta che mi era parsa meno pericolosa, né mi fu concesso il tempo di riflettere sulle qualità che avrebbe avuto il nuovo corso della mia esistenza. Così decisi di vivere nell’aria, sospeso tra l’oceano e la linea dell’orizzonte, senza mai più toccare terra, condannato senza possibilità di appello a vivere una vita interiore, incatenato come Prometeo alla rupe nebbiosa del cielo, per il resto dell’eternità.

Ecco era finito.

Mi fermai per riprendere fiato. Il fiume scorreva silenzioso. Ignaro di esistere, continuava a scorrere, accontentandosi di essere solo il margine estremo, il confine ultimo, l’orizzonte lontano dei miei pensieri vaganti.

Il tempo pareva essersi fermato, inchiodato a quell’istante del presente. In quello stesso momento, galassie implodevano, nuove stelle nascevano, vecchi astri morivano e nessuno poteva farci nulla. Non poteva che essere un sogno, pensavo, solo nei sogni le ore sono immobili.

Mi pareva che capisse, anzi, guardandola negli occhi, riflettendomi in quel suo sguardo intenso e dimesso, ebbi netta l’impressione che avesse compreso ogni singola parola, pausa, espressione, sfumatura e accento del discorso che, in qualche modo, avevo elaborato, che ne avesse colto profondamente il senso, sicuramente più di quanto avessi potuto farlo io.

Annuì, ma non rispose nulla, non pronunciò alcuna parola. Mi sono sempre chiesto da dove avessi preso quelle frasi assurde, quelle parole sconosciute, ma per quanto mi sia sforzato, non ho mai trovato risposte.

“Vieni con me” le porsi la mano e lei la prese. La condussi alla mia nuova casa.

La sua pelle era liscia e scivolosa, come quella dei pesci, il suo corpo era fluido e flessuoso come il giunco piegato dalla corrente, la cute trasparente come l’acqua. La tenevo tra le braccia, scrutando nei suoi occhi liquidi e, scorrendo le dita fra i suoi capelli bagnati, sfioravo i suoi piccoli seni.

Per la prima volta udii la sua voce. Mi parlava dei vasti oceani delle sue depressioni, dei rosari di maledizioni, delle litanie di accuse scagliatele contro dagli abitanti della città bagnata dal fiume.

Pianse.

Le baciai la fronte e gli occhi. Si asciugò le lacrime e di nuovo udii la sua voce.

Non mi hanno mai voluta tra di loro, disse, non mi hanno mai accolta. Hanno cercato di ferirmi, io non mi so difendere, sospirò. Nella sua bocca alitava la brezza primaverile.

Le mie uniche armi sono le parole, proseguì. La mia sola forza sta nelle parole, il mio respiro vive nella purezza delle parole, la mia vita si dipana come uno scioglilingua, come un rocchetto di filo che svolge lentamente parole.

La sua voce era il frinire delle cicale, il rumore del vento tra le foglie.

Il mio passato è ancorato alle parole, continuò. Il mio presente è costruito su fondamenta incrollabili di parole, il mio futuro ha il calore vivido dell’alba di nuove parole ancora da inventare e di cui ho bisogno per narrare le mie nuove storie. Le vorrai ascoltare? mi chiese.

Annuii.

Ora la sua voce era pacata e cristallina, come l’acqua che scorre sui ciottoli dei ruscelli.

Non ti stancherai di ascoltarle? chiese ancora.

Le risposi che non lo sapevo.

Se non ti stancherai di me, disse, ti resterò per sempre accanto e danzerò per te sulla coda del vento. Se, invece, non mi vorrai, tornerò al fiume, scivolerò nelle sue acque e non mi vedrai mai più.

Non andare, le dissi. Stringevo tra le braccia il suo corpo liquido.

Ci amammo su quel letto estraneo, in quella casa sconosciuta.

Quando mi svegliai, non c’era più.

La cercai per tutta la casa, corsi fuori, sperando che fosse in giardino, ma non era neppure lì. L’aspettai seduto sulla soglia con la testa tra le mani, sperando che tornasse. Passò molto tempo, ma non venne. Era svanita, evaporata come un sogno alla luce del mattino.

Aveva lasciato pochi segni della sua presenza, tracce umide e bagnate sulle lenzuola del letto, ormai freddo e ostile, nei punti dove il suo corpo si era adagiato. Mi risuonava ancora alle orecchie la sua voce fresca e gentile, come i pesci d’argento che guizzano nell’acqua dolce. Ma non era rimasto nient’altro.

Non ricordavo già più il suo viso, il colore dei suoi occhi, il taglio della bocca, le sfumature dei suoi capelli. Il vento disperdeva il suo nome nell’aria, il sole cancellava la sua ombra. Avvertivo un senso di vuoto nella testa, come un buco dal quale fuggivano via tutti i pensieri, tutte le emozioni. La brezza alitava al mio orecchio parole spaventose e instillava nere gocce di tristezza nel mio cuore.

Non restava nulla di lei. Non mi ricordavo neanche più del suono della sua voce. Dubitai che fosse realmente esistita. Poi compresi.

Non avevo imparato ad ascoltare le sue storie, avevo dubitato di esse. Non avevo creduto in lei, non avevo saputo amarla ed era tornata al grande fiume.

Non la rividi mai più.

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lunedì 25 novembre 2013

Io, Hemingway e l'iceberg


Scrivere è come una droga. Quando comincio non riesco a smettere e quando smetto sento un male fisico e insopportabile, funesto come una crisi di astinenza e netto come il taglio delle membra.

Hemingway ha scritto, invece, ne Il principio dell’iceberg (The Fifth Column and the First Fourty – Nine Stories), che quando smette di scrivere si sente svuotato, ma nello stesso tempo anche carico, come quando ha fatto l’amore con qualcuno che ama. Io a volte, quando faccio l’amore mi sento solo svuotato.

Nel precedente post, ho pubblicato il racconto di un venerdì sera particolare, Friday night. Era la mia versione di un racconto di Hemingway, intitolato Oggi è venerdì. Era da un po’ che volevo metterci le mani e farne una variante meno scarna e teatrale e più narrativa.

Spero non me ne vogliate.

Naturalmente Hemingway resta Hemingway e io solo me stesso.

giovedì 21 novembre 2013

Friday Night


La bettola era affollata di avventori. Era venerdì sera, ora di punta. Contadini dalle vesti lacere, stanchi della fatica dei campi e muratori, falegnami e altri artigiani si potevano riconoscere dalla polvere, dalla segatura e da altri frammenti del loro lavoro, impigliati nei capelli e nelle barbe. Prostitute siriane facevano gruppo a sé. Ogni tanto una di esse si staccava dal gruppo vociante e sguaiato, che costituiva anche il nucleo principale del locale, intorno al quale gli avventori ronzavano come mosche, per andare a proporre a qualcuno di essi prestazioni irripetibili.

Chini sui loro bicchieri, su assi di legno inchiodati insieme da tempo immemorabile a costituire un lungo bancone di bar, stavano tre personaggi pensierosi. Tra questi e il resto della bettola c’era il vuoto e nessuno osava attraversarlo e avvicinarsi, neppure le prostitute.

“Bello spettacolo, oggi vero?” disse Frusciante.

“Già” rispose Morales laconico. Aveva un’aria sofferente.

“Jeremiah, un altro giro!” ordinò Kozlowski.

“Grazie tenente!” esclamò tutto accaldato Frusciante.

“Cos’hai Morales?”

“Niente, ho mal di testa. E’ tutto il giorno che ho mal di testa”

“Sei qui da troppo tempo” disse Frusciante.

“Già, da troppo” rispose laconico Morales, tornando a tuffare lo sguardo dentro il suo bicchiere vuoto.

“Ecco un altro giro signori!” esclamò Jeremiah il vinaio arrivando con le coppe.

“Questo è quello buono, come le avevo promesso, tenente. Rosso scuro, come il sangue. Alla vostra salute, signori!”

Nel servirli, Jeremiah urtò il braccio di Morales, rovesciando parte del vino.

“Gesù Cristo!” esclamò.

“Dove?” si allarmarono i militari. L’oste sbiancò.

“Da nessuna parte” rispose Morales abbassando il tono della voce “Imprecavo”

“E’ che siamo tutti un po’ nervosi da questo pomeriggio” fece il tenente al vinaio, tentando di giustificarsi.

“Ho mal di testa” disse Morales.

“Questo le farà bene, signore” disse l’oste “E’ di quello buono, che tengo in riserva”.

Poi, avvicinandosi al tenente “Non lo servo mica a tutti” aggiunse sussurrando e ammiccando “Dico bene, tenente?”

Il tenente non rispose. Quell’ammiccare repentino e fraudolento gli aveva fatto venire i brividi. Si volse e con un rapido roteare d’occhi scandagliò tutta la bettola. Meglio darsi un’occhiata alle spalle, ogni tanto. Una delle prostitute siriane ricambiò la sua ampia guardata con un’occhiata invitante. Il tenente declinò l’invito abbassando lo sguardo sulla sua coppa di vino.  

“Perché, che è successo oggi pomeriggio?” chiese l’oste con malcelata indifferenza.

“Raccontagli tenente”

“Si raccontaglielo tenente” fece Morales “E raccontagli di come si è oscurato il cielo, di come è caduta la folgore, di come si è rivoltata la terra!“ aggiunse dolorante.

In effetti, quel pomeriggio, una grossa nuvola nera si era levata a occidente e aveva tagliato a metà il cielo. Era una nuvola strana, fosca e densa, gravida di presagi, che gettava una mesta ombra oscura sulla terra e prometteva tempesta. Le due metà del cielo si guardavano minacciose, come un occhio nero guarda un altro occhio azzurro, come se l’inferno ed il paradiso si scrutassero grandiosi e imponenti e si specchiassero l’uno nell’altro, due abissi gemelli e antitetici. Poi, l’occhio nero aveva inghiottito quello azzurro e tutto era sparito nella sua ombra, come se mai nulla fosse esistito sulla faccia della terra.

“Taci soldato!” fece imperioso il tenente “E’ segreto militare” aggiunse con un tono che non ammetteva repliche.

Si fece silenzio e spensero i loro pensieri nei bicchieri. L’oste se ne stava ritto in piedi presso di loro, dall’altra parte del bancone, contemplandosi i piedi con evidente imbarazzo. Si chiedeva perché mai gli fosse venuto in mente di porre quella domanda, ma la sua curiosità aveva avuto il sopravvento e ora si arrovellava cercando un plausibile e neutro argomento di conversazione per poter interrompere quell’imbarazzante silenzio. Per sua sfortuna, Frusciante arrivò prima di lui.

“Io dico che se l’è cavata bene oggi” disse.

Altro silenzio trapassato da sguardi interrogativi. L’oste ebbe un presentimento e tentò di arretrare, ma trovò subito il muro.

“Si, il tizio oggi sulla croce” aggiunse Frusciante.

“Voglio dire, non è da tutti, si è comportato in modo esemplare. Sai, quando ti inchiodano le mani, non è un bel momento e poi, quando tirano su la croce, è la parte  più terribile, sapete, io ne ho visti tanti e in quel momento tutti vorrebbero scendere, se potessero e fuggire via lontano, ve lo assicuro e invece lui, lui neanche un lamento.” insistè Frusciante.

“Non so, ho mal di testa” rispose Morales.

“Diceva che era il figlio di Dio, ma allora, mi domando, se era davvero figlio di Dio, perché non è sceso dalla croce e non ci ha inceneriti tutti con un solo sguardo?” continuò Frusciante con noncuranza.

“Balle, tutte balle!” fece il tenente.

Il bettoliere si fece ancora più pallido e tentò di scomparire nell’ombra.

“E poi, tutta quella folla, tutta quella gente che è venuta a vederlo morire sulla croce. Non c’è mai nessuno alle esecuzioni, solo i parenti stretti, a volte neppure quelli, perché provano vergogna.” incalzò Frusciante.

L’oste prese a tremolare nell’ombra, ma nessuno potè vederlo.

“E c’erano tante donne e come piangevano! Ho sentito dire che gli uomini della sua banda l’avevano abbandonato, l’hanno tradito e lasciato solo lì a morire. Ma le donne no, loro lo hanno seguito fino all’ultimo. E il resto della storia la conoscete già, tuoni, fulmini e saette e tutta la gente che scappava, che confusione! Insomma, è stato proprio un bello show!” andava avanti Frusciante imperterrito e non c’era verso di farlo tacere. Era piuttosto brillo.

“Sentite, dobbiamo proprio parlarne?” chiese implorante Morales “Ho mal di testa!”

“Ha ragione” ammise subito Kozlowski “Basta così soldato!” intimò a Frusciante.

Poi, rivolto a tutti “E adesso ascoltatemi bene. Il tizio sulla croce non era figlio di Dio, figlio di Dio è solo l’Imperatore e questo è il motivo per cui era sulla croce. Era solo un millantatore, un agitatore sociale, andava dicendo in giro che tutti gli uomini sono liberi e uguali. E questo è l’altro motivo per cui era sulla croce. E vi pare poco? Tutti gli uomini sono liberi e uguali? Queste sono idee pericolose, qualcuno prima o poi finisce per crederci e si mette in testa di fare la rivoluzione! Al giorno d’oggi si va sulla croce per molto meno.”

Mentre Kozlowski così tuonava, l’oste rabbrividiva nella sua ombra e si fece silenzio nell’osteria. Perfino le prostitute ascoltavano il tenente, mute e immobili come splendide statue silenziose.

“Era un delinquente, un farabutto, un bugiardo ipocrita come tutti gli altri, ecco cos’era, altro che figlio di Dio! E non è sceso dalla croce, non ha lanciato fulmini dagli occhi e fiamme dal culo e la pioggia, il temporale e il terremoto quando è spirato sono stati solo coincidenze. Era un uomo come tutti gli altri, come me e come voi!”

Fece una pausa per prendere fiato “Anche se devo ammettere che è stato piuttosto in gamba oggi sulla croce”

“Allora perché ho mal di testa?” chiese Morales “E perché mi sento un vuoto dentro, così profondo che nemmeno questo buon vino riesce a colmare?”

“Perché mi sento male da morire?”

“Sei qui da troppo tempo” rispose Frusciante.

“Si” fece eco il tenente “Sei qui da troppo tempo.”

“E’ lei che è qui da troppo, tenente!” dichiarò Morales con tono inaspettatamente duro.

“Ed è da troppo tempo nell’esercito. Ha combattuto troppe guerre e si è chiuso in sé stesso, perché ha perso la fiducia nei suoi simili” concluse con sicurezza, guardandolo dritto negli occhi, piantandogli addosso quei suoi occhi azzurri intensi, non più offuscati dal mal di testa e ora  limpidi come un’accusa.

Il tenente lo guardò con meraviglia, ma in cuor suo sapeva che il soldato aveva detto il vero. Era e sapeva di essere un uomo colmatosi di odio e abituatosi a odiare. L’impatto profondo con la vita lo aveva fatto crescere, diventare adulto in poco tempo, sacrificando a essa i suoi anni migliori. Attraverso gli occhi azzurri di Morales rivedeva la sua gioventù, la sua vita sprecata al servizio dell’Impero, tutte le battaglie che aveva combattuto, i compagni che aveva perso, i nemici sconfitti, in un enorme cumulo di morti, morti, morti, morti ovunque e sopra di loro la perfida ingannatrice con la falce in pugno e il suo sussurro indecifrabile nella bocca senza labbra. E adesso, in quella notte di un venerdì fuori dal tempo, in quella bettola lurida e nauseabonda dall’altra parte del mare, si accorse di avere appena avuto un altro scontro con la vita e di essere diventato vecchio in un colpo solo. Ma non rispose a Morales, si limitò a sorridere e disse:

“Torniamo in caserma”

“Sei fortunato Jeremiah, oggi è giorno di paga” aggiunse lasciando un gruzzolo di monete sonanti sul bancone.

“Grazie, signor tenente!” disse una voce dall’ombra. L’oste si era accorto che erano in quantità superiore al dovuto.

“I soldi sono come la merda, Jeremiah, più li maneggi, più ti sporchi.” fece il tenente rovesciando indietro la testa ed esplodendo in una grassa risata.

L’oste li seguì con lo sguardo mentre si allontanavano verso l’uscita e gli altri clienti si scansarono per lasciarli passare. Uscì dall’ombra ed emise un sospiro di sollievo. Si sentì lieve e poco importante, quasi fosse stato trasparente nella sua bettola di infimo ordine. Poi contò con cura le monete che gli avevano lasciato i soldati, le fece tintinnare nella mano e sorrise soddisfatto.
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lunedì 18 novembre 2013

Una grande bellezza

Il tema portante del mio racconto L’alieno (ne L’impero del vento – SBC Edizioni 2013) è lo scontro tra scienza e umanesimo, un conflitto durissimo, con conseguenze drammatiche, simbolicamente rappresentato dalle figure di un ostinato ufficiale scientifico e il tentativo di ribellione di uno studioso di lingua e letteratura universale.
Io sono convinto che questa contrapposizione si riproduca all’infinito nel nostro quotidiano in forme sempre nuove, che, tuttavia, ricalcano i medesimi schemi. In questo credo di essere, io stesso, il frutto della dicotomia tra studi scientifici e studi umanistici, originatasi a seguito della riforma della pubblica istruzione Croce – Gentile. Non per niente, prima della laurea in giurisprudenza, sono stato studente del liceo classico e, anche se all’epoca non ne ero tanto convinto, ora lo dico con orgoglio.
Dopo la riforma degli studi, si reputò con sicurezza che la bellezza fosse evaporata dalle materie scientifiche e si potesse ritrovare solo in quelle umanistiche.
Ma vi è chi sostiene che il bello non rifugga neppure i settori scientifici del sapere, compresa, ahimè, la matematica, verso la quale nutro una profonda, istintiva avversione. Sinceramente faccio molta fatica a vedere il bello nella “sezione aurea” o nei logaritmi, trovo il pensiero matematico troppo astruso e freddo, privo di emozioni e ritengo, invece, che la bellezza sia soprattutto questo, emozione dinanzi a un verso poetico, godere della curva morbida e piena di una scultura, della pennellata ricca e pastosa di un dipinto, assaporare il fraseggio armonico di una melodia, anche se devo ammettere che vi è un rapporto molto stretto tra musica e matematica, che non potrebbero esistere l’una senza l’altra. Per non parlare della seduzione dei sistemi filosofici alla base del pensiero occidentale, anche se, in alcuni casi, la fascinazione che ha esercitato sulle masse attraverso il pensiero distorto di alcuni oligarchi ha prodotto grandi mali. Ma come diceva La Rochefoucauld, la filosofia trionfa facilmente sui mali passati e sui mali futuri, ma quelli presenti trionfano su di lei.
Tuttavia, se consideriamo la scienza come il tentativo di capire, spiegare e riprodurre in forma non empirica le leggi che regolano la bellezza dell’universo – il moto dei pianeti, la perfezione simmetrica dei frattali, il fascino quasi geometrico di alcuni minerali -, allora, forse posso comprendere.
Marie Curie sosteneva che la scienza fosse una grande bellezza, forse nel senso che ho appena espresso. Ma io resto della mia opinione, quella con cui avevo aperto il post e credo di avere dalla mia parte il punto di vista di Tommaso d'Aquino, che sosteneva che il bello è ciò che è gradito agli occhi (Pulchra sunt quae visa placent).
Mi dispiace, ma non sono in grado di cogliere l’ineffabile, sfuggente bellezza dei numeri.

giovedì 7 novembre 2013

Intervista a Antonio Passagli


Oggi ospito Antonio Passagli, ovvero colui che ha scritto la prefazione alla mia trilogia di racconti “L’impero del vento” e colgo l’occasione per porgli alcune domande sulla scrittura e sullo scrivere, in genere.
-          Antonio, tu hai scritto alcuni saggi su Emerson e Thoreau e so che sei un grande estimatore dei trascendentalisti, tra i quali, Hawthorne… -
-          Già. Tutti conoscono La lettera scarlatta, ma pochi hanno letto i Twice told tales, una raccolta di racconti apprezzata perfino da Borges
-          Ma tu ti consideri più uno scrittore, o più un saggista? –
-          Direi che, senza dubbio, sono un saggista amante della filosofia, ma mi interesso anche di letteratura, soprattutto americana –
-          Quali sono i tuoi scrittori preferiti? –
-          Credo di non avere scrittori preferiti, ma mentirei se non citassi Poe, Hemingway, Steinbeck e De Lillo e, passando per il vecchio continente, anche Sartre, Camus, Gide... e Malaparte. In generale, però, preferisco parlare di filosofia… -
-          Vai avanti –
-          Ecco, vedi, Henry David Thoreau era sia un filosofo, che uno scrittore, per essere modesto, dirò che era un po’ come me. Egli passò molti anni nella natura, abitando in una capanna, per ritrovare sé stesso. Il frutto del suo estraniamento dal mondo fu il Walden. Ma voglio leggerti un passo della Disobbedienza civile, che trovo ancora molto attuale:
«Questa è, di fatto, la definizione di una rivoluzione pacifica, se una simile rivoluzione è possibile. Se l'esattore delle tasse, od ogni altro pubblico ufficiale, mi chiede, come uno ha fatto:
"Ma cosa devo fare?"
La mia risposta è:
"Se vuoi davvero fare qualcosa, rassegna le dimissioni".
Quando il suddito si è rifiutato di obbedire, e l'ufficiale ha rassegnato le proprie dimissioni dall'incarico, allora la rivoluzione è compiuta. » -
-          Direi proprio di si. E’ ancora attuale. E Antonio Passagli scrittore ? –
-          Ho scritto alcuni racconti brevi. Da qualche tempo sto lavorando a un romanzo, ma per varie vicissitudini, non ne sono ancora venuto a capo –
-          Che tipo di vicissitudini? –
-          Diciamo pure guai. In fondo, il mio cognome è molto simile a quello di un famoso Antonio… -
-          Intendi Antonio Passaguai? –
-          Già, proprio lui. Lo conosci? –
(Risata) - Ne ho sentito parlare. Comunque, ho letto alcuni tuoi racconti. Li ho trovati molto raffinati, la tua scrittura è molto netta e precisa. Sono storie che definirei simmetriche, parallele, l’una collegata all’altra. Mi hanno ricordato molto Borges. Ma parlami del tuo romanzo da terminare –
-          E’ un romanzo di mare, una storia un po’ alla Conrad, solo che si svolge ai nostri tempi e devo aggiungere che, stranamente, richiama la tragedia del Costa Concordia, solo che l’avevo scritta prima che accadesse –
-          Forse sei stato profetico –
-          Direi di no. Faccio meglio ad ammettere che mi sono ispirato al Lord Jim di Conrad, alla parte in cui l’equipaggio con grande codardia abbandona la nave e i passeggeri al proprio destino, credendo che stia per affondare, ma i passeggeri riescono con grande coraggio a riportare la nave a terra, sani e salvi… -
-          Si, ho letto Lord Jim e devo dire che, in genere, adoro Conrad, anche se preferisco Nostromo, Cuore di tenebra e i Racconti del mare. Sai, ripensando alla rivoluzione secondo Thoreau, che mi hai letto prima e a Lord Jim, mi viene da pensare che sembrerebbe quasi che la classe politica stia abbandonando al proprio destino la nave Italia e noi italiani, che siamo i suoi passeggeri, dobbiamo trarci d’impaccio con le nostre forze, senza contare su di essa… –
-          Mmmm, lettura interessante. Io però, mi riferivo a un aspetto più letterario, che politico. Sai, il comandante Schettino e il comandante De Falco, quello del “Vada a bordo c… !” per intenderci, sembrano usciti dalla penna di Conrad
-          Paragone interessante e affascinante. I romanzi di mare, in genere, sono piuttosto affascinanti, no? –
-          Direi proprio di si e aggiungo che il mare è il rifugio di chi non ha patria –
-          Sembra una frase degna del Capitano Nemo di Verne… -
-          E invece, ho solo parafrasato Nick Sloan, ovvero, colui che ha fatto sì che il relitto del Costa Concordia tornasse a galleggiare come si conviene a una nave, una bella nave… –
-          Davvero? –
-          Già, proprio così –
-          Perché dici “rifugio di chi non ha patria”? Non ne hai forse una? –
-          Una patria formale ce l’ho, com’è vero che sono italiano. Ma una patria sostanziale, la sto ancora cercando… -
-          Vuoi dire che non ti trovi bene in Italia? –
-          Non sempre… -
-          Intendi per la situazione politica, per la crisi economica e dei valori, per la società italiana? –
-          Un po’ per tutto. Diciamo che se voi siete d’acqua dolce, io sono di acqua salata. Sempre acqua è, ma mi manca qualcosa, mi manca il sale della vita. –
-          E in Italia manca –
-          Già, un pesce d’acqua salata non sopravvive in acqua dolce, ma una volta non era così, c’era più attenzione all’arte, alla cultura, più fervore in svariati campi. Oggi sembra che la crisi economica abbia distrutto non solo il PIL, ma ci abbia anche risucchiato il cervello e divorato il cuore –
-          Analisi impietosa, ma veritiera, temo –
-          Purtroppo si… e volevo aggiungere, se posso… -
-          Dì pure –
-          Volevo dire che il mio problema è di carattere esistenziale. In realtà, la questione è che io esisto solo nei tuoi romanzi… –
-          Già. E’ vero. E se Schettino e De Falco sembrano usciti dalla penna di Conrad, come dicevamo prima, tu, senza ombra di dubbio, sei uscito dalla mia –
-          Ed è ora che rientri nelle pagine del tuo libro. Ma devo chiederti un’ultima cosa prima d’andare –
-          Certo, chiedi pure –
-          Quando pensi di pubblicarlo? –
-          Bè, ora sono un po’ impegnato con la revisione del mio primo romanzo. Diciamo che tra un paio d’anni si potrebbe aprire una finestra interessante… -
-          Allora dovrò avere pazienza… -
-          Purtroppo, si. Antonio, desidero ringraziarti pubblicamente per la bella prefazione che hai voluto scrivere per il mio libro… -
-          E’ stato un vero piacere –
-          Grazie ancora e buona fortuna –
-          In bocca al lupo! –
-          Crepi! –