Tutto ebbe inizio con sguardi bassi, mani protese e subito
rifiutate, con sorrisi non ricambiati, con parole che nessuno osava ripetere,
che risvegliavano rancori sopiti, soffocati sotto coltri di conformismo e
quieto vivere. Ogni cosa ebbe inizio e proseguì in quello stato di astio
latente. Nessuno sapeva dove sarebbero finiti, nessuno poteva conoscere
l’epilogo e neppure sospettarlo. S’illudevano che l’amore avrebbe risolto ogni
cosa, che avrebbe illuminato a giorno anche la notte più oscura, ora che le
loro notti si facevano così frequenti, ma temevano anche che l’orgoglio potesse
schiacciare sotto i suoi pesanti piedi quell’amore giovane e pulito,
quell’amore appena nato e già in pericolo, che una mano nera e artigliata agitava
a suo piacimento nell’abisso della tristezza e del dolore.
Allora l’aveva cercata.
A dire il vero, era tutta la vita che la cercava. Nella
sua casa, tra le sue braccia, nella sua solitudine l’aveva cercata, nei giorni
di luce, nei giorni d’ombra, nei giorni di vento. E continuava a cercarla.
Spasmodicamente. Voleva tutto di lei. I sorrisi, i baci incerti frutto della
sua eterna indecisione, i sogni e gli incubi, i desideri svaniti nel nulla, le
parole mai dette, simili a gocce sospese dalle labbra e sul punto di cadere, ma
mai pronunciate.
E le lacrime.
Raccoglieva appunto le sue lacrime una ad una, come
gioielli da incastonare in una corona di spine, da porle sul capo, quando,
vestita da sposa, l’avrebbe condotta all’altare il giorno delle nozze. Erano
affamati di luce e di suono, eppure assenti, come bocche che si spalancano
senza parlare, assenti, come occhi che si aprono senza guardare. Dalle mani,
dagli occhi e dalle bocche l’amore risplendeva per un breve istante, ma,
riflettendosi negli specchi paralleli delle loro anime, li confondeva. Allora lui
la rivedeva, stranita e confusa, strana come strani sanno essere solo i sogni e
tentava di offrirle in dono le parole che non aveva mai voluto ascoltare, le
porgeva lacrime che non aveva pianto, le regalava le parole che non le aveva
mai detto.
Aveva provato numerose volte a dichiararle le
ragioni per le quali le imputava il loro fallimento, la distruzione dei loro
sogni. Aveva pensato, riflettuto, elucubrato, s’era scervellato, ma neppure una
volta era riuscito a dirle di quei maledetti motivi. Gli era risultato
impossibile. Allora aveva pensato, riflettuto, elucubrato, s’era scervellato e
aveva provato a scriverle il perché di tale impossibilità, ma neppure in quel
caso c’era riuscito. Poi, un giorno, come per un brusco risveglio, aveva
finalmente capito dove stava lo sbaglio, dove si nascondeva l’errore, in quale
luogo, frazione o parte oscura dei suoi pensieri si annidasse l’equivoco. Non
erano addebitabili a lei tali supposti motivi, erano imputabili solo a se stesso.
Non la sapeva amare.
Avuta la rivelazione, aveva provato a spiegarle in
mille modi gli errori in cui era incorso, gli equivoci che avevano ingannato la
sua percezione. Ma lei era stata irremovibile. Aveva inteso il suo non sapere amare, come non amare, aveva interpretato la sua
confessione come la fine dell’amore, la resa senza condizioni, la sepoltura
prematura di quel sentimento ancora fresco e palpitante, la loro pietra tombale.
Profondamente ferita dall’equivoco, aveva reagito ferendo a sua volta. Aveva preteso
di poter smettere di amarlo, semplicemente imponendoselo, s’era convinta di
poter fermare i loro cuori, semplicemente impedendo loro di battere, affogando
le loro stesse vite in un secchio pieno di veleno e di rancore.
E ogni volta che s’incontravano era un continuo
braccio di ferro, una corsa a primeggiare sull’altro nei sentimenti, nelle
bontà, nelle emozioni, perfino nella rabbia, nell’angoscia e nelle perfidie
reciproche. Tutte le volte che s’incontravano, veniva messa in scena una
disfida infinita, assurda e inutile, quanto la sua crescente intensità. Erano
così intenti a colpirsi, a ferirsi e a farsi male il più possibile, che non si
avvedevano di null’altro.
Era una battaglia senza quartiere di una guerra
combattuta solo per abitudine, una lotta corpo a corpo, all’ultimo sangue, un
abbraccio mortale non ispirato tuttavia dal desiderio, che non lasciava morti a
terra, solo feriti condannati a sopravvivere e soprattutto nessun vincitore, ma
solo eterni sconfitti, perché nessuno poteva vincere a quel gioco.
A quel gioco si poteva soltanto perdere.
Si rendevano conto che non esisteva più alcuna via
d’uscita, che non era più possibile alcuna salvezza. Semplicemente, il tempo a
loro disposizione era terminato, la partita era stata giocata e il suo esito,
per quanto scontato, era ormai deciso ed era proprio davanti ai loro occhi, a
certificare il loro fallimento. Entrambi sapevano bene che non ci sarebbe
potuto essere un intervallo per riprendere fiato, che nessuno avrebbe chiamato
il time out per riflettere sul da
farsi, che non ci sarebbe stato un terzo tempo per rimettere di nuovo tutto in
discussione. Sapevano bene che non sarebbero state concesse proroghe o
dilazioni.
Lo sapevano fin troppo bene.
Così, quel corpo che aveva amato senza compromessi e
che aveva dato carne e sangue alla loro progenie, profilo di quell’anima pura,
tanto bella e così stranamente simile alla sua - una volta vibravano
all’unisono, come risonanze armoniche sulle corde di una chitarra – non era più
per lui. Quel corpo così amato e
desiderato, conteso e conquistato palmo a palmo con una lotta feroce, quel
corpo conosciuto a fondo come un continente esplorato centimetro per centimetro
- colline e dolci pianure, coste e insenature e in fondo, il bosco fresco e
oscuro a celare la porta socchiusa -, quel corpo non aveva più significato, non
aveva più valore.
Quel corpo con il tempo era tornato ad essere del
tutto sconosciuto, come se rovi, edere rampicanti e piante parassite si fossero
riappropriate degli spazi loro sottratti e li celassero di nuovo alla vista,
era tornato ad essere del tutto ignoto, quanto può esserlo una terra appena emersa
dalle acque, i cui contorni siano stati solo abbozzati da geografi inesperti su
una mappa polverosa e dimenticata dal tempo. Quel corpo, come un’isola avvolta
nella nebbia, cinta da mari bui e spaventosi, era ormai lontano e
irraggiungibile.
Persino nei mesi che seguirono la separazione fisica
e l’imposizione delle distanze, nella condanna alla castità forzata il suo corpo
chiamava ancora quello di lei, come il moncherino cerca l’arto amputato, che,
per un riflesso condizionato, crede di muovere ancora. Il suo corpo desiderava
quel corpo, anelava unirsi ad esso, non poteva farne a meno. Pativa la perdita
come un’ingiusta privazione, il distacco, come una crudele, ma necessaria
amputazione Con una sofferenza lenta e atroce, peggiore della fame e della
sete, il suo corpo pativa l’abbandono.
L’aveva amata tanto, senza interruzioni, senza
compromessi, tanto da stare male, tanto da impazzire, tanto da non credere di
poter amare in quel modo disperato e ineluttabile, di quell’amore devastante,
sadico e totalitario, con la stessa costanza della fiammella di una candela che
illumina per sempre la notte, senza mai consumarsi.
Lei lo lasciava senza fiato per quante volte la
guardasse. Era bella.
Lei lo lasciava senza fiato per quante volte l’ascoltasse.
Era crudele.
Ma non era più per lui, non gli apparteneva più. Forse,
non gli era mai appartenuta.
E tuttavia, la sola idea che potesse amare qualcun
altro, che dovesse spartirla con altri uomini, lo faceva letteralmente uscire
di senno. Questo sospetto aumentava ogni giorno e come un tarlo, gli rodeva il
cervello, lo imprigionava in una follia accecante, lo immobilizzava in una camicia
di forza, densa di sudori malati. Era ormai divenuta un’ossessione per lui. Sentiva
impellente, come un bisogno fisico, la necessità di liberarsi, sapeva di dovere
spezzare quei legami morbosi che ancora l’avviluppavano a lei.
E all’improvviso, lei se n’era andata.
Se n’era andata così, su due piedi, senza una
parola, senza un addio, senza una lacrima. Nemmeno un lamento, quando le aveva
affondato la lama nel petto, senza quasi voltarsi indietro a guardarla per
l’ultima volta, mentre andava via con il volto illuminato dall’espressione
beffarda delle persone, che vogliono restare da sole a godersi finalmente la
vittoria.
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