Una
notte senza stelle, come una placida, opaca volta di argilla, incombeva sulla
valle e sfiorava le vette dei monti più
elevati. Un silenzio irreale, quasi una sorta di tacito rimprovero, aleggiava su
quel luogo infernale, mentre la pesante cappa del cielo opprimeva la mia anima,
oltremodo oberata dai troppi sensi di colpa e dalle occasioni mancate.
Gli occhi mi bruciavano, mi passai
le dita sulle palpebre e scossi la testa. No, non avevo ragione di credere in
un cambiamento, come non avevo ragione di sperare il fresco ristoro di una
brezza leggera. I miei occhi stanchi si velavano a tratti, a tratti
riconoscevano i contorni di forme familiari, oppure angoscianti, o
semplicemente inesistenti. A volte si chiudevano, serrandosi a protezione di un
universo interiore, forse migliore, forse peggiore, certamente meno labile di
quella piccola parte di mondo che mi era toccata in sorte come patria. Non
potevo, tuttavia, provare sentimenti d’invidia, non era mai stato nel mio
stile. Le mie uniche possibilità di successo si perdevano sconsolate oltre
l’orizzonte, chiuso e oppresso anch’esso per l’eternità dalle sottili e livide
dita di roccia dei monti.
A tratti mi risuonava nella testa,
nitido e cristallino nella memoria, il brontolio cupo del mare del Nord,
attraverso antichi fiordi aperti nella terra e canali stretti e irti di
pericoli e isole ricoperte di brughiere e rugiada, sommerse e abbandonate come
relitti nella nebbia, sotto il cielo pallido e dilatato della notte. Non avevo
ancora vent’anni quando mi recai in quei luoghi in sogno, ma il sogno fu così
reale che il dolore che ne provai rimase inciso sulla mia pelle, con la
certezza di un incubo ricorrente.
Non è l’ombelico del mondo questo, mi
dicevo, è il suo esatto contrario questo stare agli antipodi, mentre i miei
desideri montavano alle stelle come la marea, prima di essere ricacciati
indietro e soffocati da ondate violente come le mareggiate lungo la costa.
Vi erano giorni in cui avevo la certezza
dell’eternità delle cose, dell’immutabilità delle ore e del profilarsi regolare
o discontinuo di una nuova stagione all’orizzonte. Certe volte stringevo i
pugni sconsolato, certe altre vagavo nei bagliori incandescenti di un sogno
musicale, vivendo del ritmo e dell’inafferrabilità delle melodie, o della pura
astrazione matematica dei suoni e delle vibrazioni del contrappunto.
Quando i miei occhi vagavano verso
la sfericità dell’orizzonte, cercavo nella luce crepuscolare della sera in
attesa, una nuova manciata di suoni e colori, un ritmo esotico e interminabile,
o gli accordi di una melodia antica e dimenticata, che il fiato umano avrebbe
potuto riportare alla vita attraverso i piccoli fori di un flauto d’osso.
C’erano giorni in cui avevo la
visione nitida di mondi primordiali e confusi e la certezza che la vita si stesse
svolgendo altrove, per nuovi spettatori, con trame affatto diverse da questa
che stava dipanandosi verso l’epilogo. Ero capace di vagare nella notte, fino a
quando la pioggia filtrava sotto i miei vestiti inzuppati e scivolava sul mio
corpo e l’umidità penetrava dentro le mie ossa, solo per ritrovare l’estatica
contemplazione di un solo istante, che sarebbe potuto durare quanto tutto il
tempo che avevo fino ad allora vissuto.
Già dieci anni erano passati dalla
prima apparizione di quella pallida alba lunare, che aveva macchiato
lattiginosa le cime degli alberi incatenate al cielo e gli aghi di pino scossi
dal cataclisma di acqua e vento dei temporali. Compresi di essere stanco di
lottare per sostenermi contro il vento contrario e fui sicuro di avere raggiunto
una nuova consapevolezza, pur senza esserne certo. Come dire, ero un edificio
senza le fondamenta.
Allora compresi che era proprio giunta
l’ora di andare. La consapevolezza di dover tagliare i legami con il mondo
finora conosciuto non m’indusse sentimenti di tristezza, non insinuò nelle
membra tremori d’incertezza come per febbre, anzi, ero deciso e sicuro di me.
L’alba che sorse il giorno seguente, dopo la notte che passai insonne tra gli
addii e le promesse di ritornare, che sapevo avrei infranto senza rimorso, rischiarò
la stanza e mi diede il segnale della partenza. Non fu difficile partire ed
andarsene per sempre. Quasi sempre, dò il meglio di me nei momenti di tensione,
nelle ore di dolore, negli stadi d’incertezza. Neppure quella mattina fece
eccezione. So distaccarmi da me stesso e, divenuto a un tratto freddo e
razionale, non mi faccio sopraffare facilmente dalle emozioni. Così, mi fu più
facile superare l’ora della separazione. Salutai i miei parenti con distacco sufficiente
a farvi scivolare sopra senza lacrime il mio rimpianto, feci un’ultima carezza
al cane, che mi guardò perplesso, come se mi vedesse per la prima volta e
partii, senza voltarmi indietro.
Il motore rombava, sicuro e affidabile. Macinavo
chilometri sul nero nastro d’asfalto e puntavo dritto a nord. Andavo verso il grande
fiume, con una sola lunga cavalcata. Ero euforico ed eccitato, impugnavo le
redini della vita saldamente nelle mani e la montavo con sicurezza.
Quando arrivai, nonostante fossi stanco del lungo
viaggio e avessi necessità di riposo, mi arresi alla tentazione di andare a
passeggiare sulla riva del fiume, che da tanto tempo desideravo vedere. Scorreva
lento e maestoso. Come un mare longitudinale contenuto tra due lingue di terra,
conteneva a sua volta isolotti e insenature, rade occupate da uccelli pescatori
e bianche spiagge di sabbia, lambite dall’acqua appena increspata. Una barca lo
attraversava lentamente, lasciando una scia bianca. In quel momento, mi voltai
a guardare verso la strada che costeggiava l’argine.
E fu allora che la vidi, che vidi la donna del
fiume. Procedeva per la strada, venendomi incontro. L’avevo vista da lontano,
ma anche da così distante l’avevo riconosciuta. Non so dire cosa trovassi di
familiare in lei, per sostenerlo con certezza, perché, in fondo, non l’avevo
mai vista prima d’allora. Nonostante questo, mi sembrava di conoscerla da
sempre e di rivederla dopo tanto tempo. Quando arrivò vicino a me, rallentò il
passo e ci guardammo. Mi sorrise con cortesia e si fermò.
Non so come, né perché iniziai a parlarle, ma sapevo
che dovevo farlo e lo feci. Non sapevo cosa dirle, ma le parlai. Il mio
cervello era vuoto di pensieri logici, ciononostante parlavo, rendendomi conto delle
parole che stavo articolando, soltanto l’istante stesso in cui le pronunciavo. Ho
solo un confuso ricordo di quei momenti, ma avverto ancora con precisione le
sensazioni che provai. Ero come in trance, parlavo meccanicamente, immerso in
una visione onirica dal tempo sospeso.
Una volta ebbi la possibilità di scegliere tra una
vita immersa nelle profondità abissali delle incertezze, scossa continuamente
dal vento degli incubi e una vita, seppur breve, al di sopra delle nuvole,
sostenuta dall’inconsistenza irreale dell’aria e destinata a schiantarsi, prima
o poi, sulla dura terra, dopo un tragico annaspare tra il vapore acqueo
dell’atmosfera, all’apparire delle prime incertezze.
La donna del fiume ascoltava, assorta.
Non ebbi la prontezza di spirito di
afferrare al volo la scelta che mi era parsa meno pericolosa, né mi fu concesso
il tempo di riflettere sulle qualità che avrebbe avuto il nuovo corso della mia
esistenza. Così decisi di vivere nell’aria, sospeso tra l’oceano e la linea
dell’orizzonte, senza mai più toccare terra, condannato senza possibilità di
appello a vivere una vita interiore, incatenato come Prometeo alla rupe
nebbiosa del cielo, per il resto dell’eternità.
Ecco era finito.
Mi fermai per riprendere fiato. Il fiume scorreva
silenzioso. Ignaro di esistere, continuava a scorrere, accontentandosi di
essere solo il margine estremo, il confine ultimo, l’orizzonte lontano dei miei
pensieri vaganti.
Il tempo pareva essersi fermato, inchiodato a quell’istante
del presente. In quello stesso momento, galassie implodevano, nuove stelle
nascevano, vecchi astri morivano e nessuno poteva farci nulla. Non poteva che
essere un sogno, pensavo, solo nei sogni le ore sono immobili.
Mi pareva che capisse, anzi, guardandola negli
occhi, riflettendomi in quel suo sguardo intenso e dimesso, ebbi netta
l’impressione che avesse compreso ogni singola parola, pausa, espressione, sfumatura
e accento del discorso che, in qualche modo, avevo elaborato, che ne avesse
colto profondamente il senso, sicuramente più di quanto avessi potuto farlo io.
Annuì, ma non rispose nulla, non pronunciò alcuna
parola. Mi sono sempre chiesto da dove avessi preso quelle frasi assurde, quelle
parole sconosciute, ma per quanto mi sia sforzato, non ho mai trovato risposte.
“Vieni con me” le porsi la mano e lei la prese. La
condussi alla mia nuova casa.
La sua pelle era liscia e scivolosa, come quella dei
pesci, il suo corpo era fluido e flessuoso come il giunco piegato dalla
corrente, la cute trasparente come l’acqua. La tenevo tra le braccia, scrutando
nei suoi occhi liquidi e, scorrendo le dita fra i suoi capelli bagnati,
sfioravo i suoi piccoli seni.
Per la prima volta udii la sua voce. Mi parlava dei
vasti oceani delle sue depressioni, dei rosari di maledizioni, delle litanie di
accuse scagliatele contro dagli abitanti della città bagnata dal fiume.
Pianse.
Le baciai la fronte e gli occhi. Si asciugò le
lacrime e di nuovo udii la sua voce.
Non mi hanno mai voluta tra di loro, disse, non mi
hanno mai accolta. Hanno cercato di ferirmi, io non mi so difendere, sospirò. Nella
sua bocca alitava la brezza primaverile.
Le mie uniche armi sono le parole, proseguì. La mia
sola forza sta nelle parole, il mio respiro vive nella purezza delle parole, la
mia vita si dipana come uno scioglilingua, come un rocchetto di filo che svolge
lentamente parole.
La sua voce era il frinire delle cicale, il rumore
del vento tra le foglie.
Il mio passato è ancorato alle parole, continuò. Il
mio presente è costruito su fondamenta incrollabili di parole, il mio futuro ha
il calore vivido dell’alba di nuove parole ancora da inventare e di cui ho
bisogno per narrare le mie nuove storie. Le vorrai ascoltare? mi chiese.
Annuii.
Ora la sua voce era pacata e cristallina, come
l’acqua che scorre sui ciottoli dei ruscelli.
Non ti stancherai di ascoltarle? chiese ancora.
Le risposi che non lo sapevo.
Se non ti stancherai di me, disse, ti resterò per
sempre accanto e danzerò per te sulla coda del vento. Se, invece, non mi
vorrai, tornerò al fiume, scivolerò nelle sue acque e non mi vedrai mai più.
Non andare, le dissi. Stringevo tra le braccia il
suo corpo liquido.
Ci amammo su quel letto estraneo, in quella casa
sconosciuta.
Quando mi svegliai, non c’era più.
La cercai per tutta la casa, corsi fuori, sperando
che fosse in giardino, ma non era neppure lì. L’aspettai seduto sulla soglia con la testa tra le mani, sperando che tornasse. Passò molto tempo, ma non
venne. Era svanita, evaporata come un sogno alla luce del mattino.
Aveva lasciato pochi segni della sua presenza, tracce
umide e bagnate sulle lenzuola del letto, ormai freddo e ostile, nei punti dove
il suo corpo si era adagiato. Mi risuonava ancora alle orecchie la sua voce
fresca e gentile, come i pesci d’argento che guizzano nell’acqua dolce. Ma non
era rimasto nient’altro.
Non ricordavo già più il suo viso, il colore dei
suoi occhi, il taglio della bocca, le sfumature dei suoi capelli. Il vento
disperdeva il suo nome nell’aria, il sole cancellava la sua ombra. Avvertivo un
senso di vuoto nella testa, come un buco dal quale fuggivano via tutti i
pensieri, tutte le emozioni. La brezza alitava al mio orecchio parole
spaventose e instillava nere gocce di tristezza nel mio cuore.
Non restava nulla di lei. Non mi ricordavo neanche
più del suono della sua voce. Dubitai che fosse realmente esistita. Poi
compresi.
Non avevo imparato ad ascoltare le sue storie, avevo
dubitato di esse. Non avevo creduto in lei, non avevo saputo amarla ed era
tornata al grande fiume.
Non la rividi mai più.
COPYRIGHT
2012 ANGELO MEDICI
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Riproduzione vietata
La donna del fiume, che era il titolo originale di questo racconto, è un film di Mario Soldati del 1955, con Sophia Loren e la sceneggiatura di Ennio Flaiano, Giorgio Bassani e Pierpaolo Pasolini. Insomma, il fior fiore della letteratura di quel periodo, e non solo.
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