Non ho molto tempo per la pausa
pranzo, le mie giornate lavorative sono frenetiche e spesso sono come
risucchiato in un vortice nel quale il tempo scorre veloce, le lancette
avanzano inesorabili e finisco per timbrare il cartellino molto oltre l’orario
di uscita. E uscendo incontro per le scale gli impiegati che rientrano, avendo
già terminato il loro pasto. Così, non mi resta molto tempo per mangiare. Del
resto, mi accontento di un primo – generalmente un piatto di risotto alle
ortiche, una ciotola di cuori di burro al vapore, oppure una porzione di
pizzoccheri alla valtellinese – e un contorno abbondante, che fa da antipasto e
da secondo, il tutto innaffiato da un buon bicchier di vino. Consumo il mio
frugale e veloce pasto, sbirciando, fra un boccone e l’altro, i titoli in prima
pagina. Le notizie, quelle no, non ho il tempo di approfondirle, lo farò a casa,
se mi avanzerà del tempo. Così, quando rientro al lavoro ho gli occhi pieni di
slogan a caratteri cubitali: il Pil scende, la disoccupazione sale, la
preoccupazione regna sovrana.
Tuttavia, quello che davvero
desidero non è tanto riempirmi la pancia, quanto godere di alcuni minuti di
tranquillità che possano spegnere l’incendio della mia testa in fumo per lo
stress. Parlo il minimo indispensabile, giusto per l’ordinazione e, ascolto
ancor meno. Lo so, non risulto troppo simpatico, ma cercate di comprendermi, ho
davvero poco tempo. Ora, se i camerieri assecondano questo mio desiderio di
tranquillità, tutto fila liscio, consumo velocemente il mio pasto, sorbisco il
caffè mentre pago il conto – perché tempo ce n’è sempre meno e, tanto per
cambiare, sono in ritardo – e me ne vado. Ma a volte non accade. Essi scambiano
il mio desiderio di quiete per freddezza, alterigia, eccesso di riservatezza. Credo
in verità che mi giudichino un cliente alquanto stravagante, che arriva tardi,
pretende di essere servito immediatamente e chiede il conto prima di aver
finito di mangiare, e fanno quanto in loro potere per molestarmi con la scusa
di portar via il piatto che non ho ancora terminato e al quale mi aggrappo con
le unghie e con i denti come se fosse l’ultimo pasto di un condannato a morte.
Oppure, mi chiedono se desidero altro, mentre sono ancora a metà del primo, o
se possono portare il caffè quando ho appena messo in bocca la prima
forchettata del contorno. Ma la domanda più seccante di tutte è: “Tutto bene?”.
E io, cosa dovrei rispondere? Che andrebbe bene se ti levassi dai piedi e mi lasciassi
mangiare in santa pace. Ma non lo faccio, in fondo il cameriere sta lavorando,
mica si diverte e io nutro un profondo rispetto per il lavoro, anche se chi lo
svolge è a volte importuno e fastidioso.
Ecco, in quei casi, sono costretto a
difendere la mia isola privata dal vento impetuoso dell’invadenza con occhiate
fulminanti e feroci e, il più delle volte, è sufficiente, non devo ricorrere al
mio arsenale di battute taglienti e glaciali, sempre a portata di mano.
Era da poco che frequentavo quel
ristorante, me l’avevano descritto come un posto tranquillo e devo dire che non
si erano sbagliati, per questo andavo sempre lì. Da qualche tempo avevo la
fortuna di essere servito da una cameriera che aveva compreso appieno i miei
desiderata e faceva del suo meglio per soddisfarli. Così, quando entravo in
sala, la cercavo con lo sguardo e poco dopo potevo approdare all’isola di
tranquilla felicità che aveva apparecchiato per me.
Generalmente,
dopo che mi ero seduto a tavola non la degnavo di uno sguardo, i miei occhi non
salivano oltre il livello del tavolo, immerso com’ero nelle pagine di carta
stampata, ma mi piaceva molto vedere le sue mani candide e curate che si
affaccendavano sulla tovaglia. Tuttavia quel giorno, non ne ricordo bene il
motivo, forse perché dovetti ripeterle l’ordinazione che non aveva ben
compreso, o per qualche altra causa che ora mi sfugge, i miei occhi indugiarono
un po’ nei suoi, prima che entrambi ci ritraessimo in reciproco imbarazzo.
Ne
nacque una sorta d’intesa tacitamente proclamata, che si rafforzava giorno per
giorno, fra rapidi sorrisi, gesti garbati e rarefatte parole che, a una lettura
superficiale, avevano un significato banale e ordinario, ma che, a un livello
più profondo, potevano significare tutt’altro. Ed era il tutt’altro che intuivo
in quei gesti cortesi e in quelle parole gentili a intrigarmi. Certo non v’era
nulla di eccezionale. Erano frasi banali come: “Desidera altro?”, o “Tutto
bene?”, accompagnate a volte da un lieve sfiorarci le mani che avveniva come
per caso, domande alle quali avrei voluto rispondere che no, non andava tutto bene
da quando c’era lei a servirmi e che l’altro che desideravo non era ancora vino
o un caffè, ma i suoi occhi nocciola chiaro, i suoi capelli color del miele, le
sue labbra rosate e le sue mani candide e curate.
Quegli
occhi mi riportavano indietro nel tempo, avevo sedici anni e mi piaceva una
certa ragazza, il suo sguardo mi bastava per una notte intera e l’estate alla
fine della scuola durava quanto l’eternità. Com’erano fragili quegli anni, e
come eravamo fragili noi.
Un giorno arrivai in anticipo. Un
bel sorriso illuminò il suo volto e mi accolse con parole e gesti più gentili
del solito. Aveva i capelli legati dietro la nuca e la luce artificiale del
salone si spandeva sul suo capo in un fulgore color del rame. C’erano
pochissimi clienti, a parte me. Dopo aver ordinato, come se avessimo atteso un
tacito segnale, iniziammo a conversare amabilmente, da buoni conoscenti, come
non eravamo. Parlavamo della vita, della mia e della sua, che erano come banche
i cui conti non tornavano.
Un
tedesco al tavolo accanto la chiamò con suoni crudeli che parevano rigurgiti e
dovette allontanarsi. Il tempo era volato ed era tardissimo. Non avevo mangiato
neppure un boccone. Mi alzai e mi diressi al banco per il caffè e il conto.
Mescolai
lentamente lo zucchero nel caffè, otto volte in senso orario e otto volte in
senso antiorario e ancora daccapo. Avrei voluto che il tempo si fermasse.
Quando portai la tazzina alle labbra il caffè era freddo e rabbrividii. Pagai e
salutai.
“Ciao”
disse e mi parve il verso di un felino in amore, e forse lo era davvero. Feci
finta di non accorgermi dell’ammiccare repentino che velò per un istante la
luce che brillava nei suoi occhi e mi allontanai nel vento e nella pioggia.
Ma la
pioggia era troppo fitta e il vento troppo impetuoso e tornai subito sui miei
passi. La trovai ancora alla cassa ad armeggiare con fatture e ricevute e conti
che non tornavano. Sorrise. Non mi parve affatto stupita del mio ritorno. Era
sicura di aver seminato bene in me. Era vero. Il seme era germogliato e già si
faceva una pianta rigogliosa. Mi piaceva il colore dei suoi capelli, la luce nei
suoi occhi, così mi lasciai condurre nella sua stanza.
Volle
accendere soltanto una candela per rischiarare il buio. E non fu una cattiva
idea.
La
luce rivestiva il suo corpo nudo di tenui bagliori, un alone caldo, rosato le
sfiorava i seni, la vita, le anche, il ventre. Sciolse i suoi capelli. Era come
un acquerello dipinto sulle tenebre con il pennello intinto nella debole luce di
una fiammella. E, di fronte a una tavola apparecchiata da mille delizie,
scoprii di avere fame.
Lei cercò
i miei occhi e sorrise ancora per dire sì.
E
svelò un tesoro nascosto, celato nella profondità del suo mistero.
E io
lo conquistai quel tesoro, lo ebbi tutto per me, e ancora e ancora e ancora, finchè
non giacemmo avvinti, sfiniti, estranei, in una coltre di nuvole.
La
candela si spese. Una folata di vento, credetti, e mi affrettai a riaccenderla.
Fui interrotto da una luce abbagliante, improvvisa. Il suo bagliore era freddo
e asettico, insopportabile, tanto che avrei scambiato il dono della vista con la
luce calda e imperfetta della candela. Non era stato il vento. Mi cacciò dal
suo letto. Il re era stato spodestato dal trono.
Raccolsi
i miei vestiti. Mi ritrovai ancora nel vento e nella pioggia, la notte era
durata un’ora soltanto e già il mio trono era caduto. Avevo il suo profumo
addosso e sulla punta delle dita, il suo sapore nella bocca e il suo calore
dentro il cappotto. Mi misi a correre. Perché devo camminare, se posso correre?
Perché devo strisciare, se posso volare? Ma era lei a trattenermi al suolo, a
fare di me un verme che striscia e si graffia il ventre sulla fredda terra.
Non
misi mai più piede in quel ristorante. Passai giorni che furono un inferno di
incubi famelici e striscianti. Poi, mi accorsi che qualcosa era cambiato. Fuori
era primavera inoltrata e la città stiracchiava le membra di cemento al suo
calore. Allora sorse e crebbe forte in me il desiderio di rivederla. Cominciai
a pensare a lei notte e giorno, invece di lavorare, facevo sogni a occhi
aperti, fantasticando su un nostro futuro a due, ma mi svegliavo sudato e
ansante nel cuore della notte, perché quel sogno si era trasformato in un
incubo. Non saprei dire né come né perché, ma quella donna così bizzarra era
entrata in punta di piedi nei miei sogni e non se ne voleva andare. Così un
giorno tornai al ristorante e mi sedetti al tavolo più appartato. Venne un
cameriere a ricevere l’ordinazione e mi accorsi che il suo sorriso era
sarcastico, senza che mi potessi spiegare il perché. Di lei nessuna traccia.
Mangiai
senza gusto cuori di burro al vapore, che in altri momenti avrei apprezzato. Masticavo
lentamente e mandavo giù i bocconi senza sentire alcun sapore, come quando si
ha il raffreddore. Poi, ordinai un caffè e mi avviai a pagare il conto.
E la
vidi. Sbucò da dietro una tenda e mi comparve davanti, come faceva ogni volta
con i clienti, per preparare la ricevuta. Era un po’ ingrassata dall’ultima
volta, ma era splendida e raggiante. Con gesti freddi e veloci preparò il
conto, senza guardarmi mai negli occhi, tanto che dubitai che mi avesse
riconosciuto. Allora le presi una mano e fu costretta a vedermi. Sul suo volto
si dipinse un’espressione di disappunto, che tentò di celare con un velo di
freddezza, ma non ritrasse la mano. In quel momento, udii una sorta di miagolio
e mi sporsi sul bancone incuriosito, per vedere da chi provenisse quel verso.
Dietro la tenda socchiusa c’era una culla e dentro la culla un bambino.
Erano
trascorsi nove mesi dalla perdita del mio regno.
Si
divincolò dalla presa e si affrettò a richiudere la tenda. Poi, mi spinse verso
la stanza adiacente. Non ero riuscito a vedere in volto chi dormiva nella
culla.
Seppi
che il suo più grande desiderio era quello di avere un figlio, ma non cercava un
padre per lui. Aveva amato molto e molto aveva sofferto per amore, non avendo mai
trovato l’uomo che potesse proteggerla e scaldarla nelle lunghe notti
d’inverno. Così, aveva giurato a sé stessa che mai più un uomo sarebbe stato
tanto importante da ridursi in ginocchio ai suoi piedi. Voleva un re per far di
lei la regina di una notte, un monarca a tempo determinato che abdicasse, che
rinunciasse al trono in cambio di una notte d’amore. E poi svanisse per sempre
e che le tenebre cancellassero il suo nome come quello dei morti. E così era
stato. In un colpo solo, il re di una sola notte si era lasciato dietro una
vedova e un orfano.
A
quella donna non importava nulla di me. Non aveva voluto sapere chi fossi, da
dove venivo, se fossi in grado di garantirle un tetto e a quanto ammontava il
mio conto in banca. A lei non importava un fico secco di me. Le erano
interessati un bel paio di occhi neri, questo sì, e membra solide che dovevano
aver rivelato al suo istinto di donna le caratteristiche di una discendenza forte
e sana. Nient’altro. I baci, gli abbracci, le carezze nel buio, i sospiri, le
mie dita fra i suoi capelli, i suoi occhi nei miei, erano orpelli, ornamenti,
fronzoli del mistero della vita. Essa non aveva apparecchiato che meri contorni
del pasto, mentre la portata principale, di due soli ingredienti, cromosomi x e
y, già si preparava nel buio del suo ventre.
Le
chiesi più volte, la implorai, la supplicai di lasciarmi vedere suo figlio, mio
figlio, una sola volta e poi sarei sparito per sempre dalla loro vita, dal loro
regno sul quale sentivo di non poter vantare alcun diritto. Non ci fu nulla da
fare. Fu irremovibile, dura e tagliente come una roccia modellata dal ghiaccio e
dai venti. Non mi permise di vedere il bambino. Seppi solo che era un maschio e
godeva di ottima salute. Poi dovetti prendere la porta.
Tuo
figlio ha i tuoi occhi, mi parve di sentire.
Mi
voltai, ma era già sparita dietro la tenda di velluto nero che nascondeva mio
figlio e non seppi mai se fosse stata davvero lei a pronunciare quella frase, o
la mia immaginazione a inventarsi quelle parole con intento consolatorio.
Mi
sentivo a pezzi. Ancora una volta abbandonavo senza gloria quel luogo infausto,
affranto, sconfitto, abbattuto come la statua di un sovrano spodestato. Non
sapevo da dove venivo né da che parte andavo e il paesaggio era conforme al mio
stato d’animo. Una distesa brulla, piatta, indecifrabile come il mistero che mi
stava crescendo nel cuore. Un re senza una terra, la terra senza un re. Un
padre senza il figlio, il figlio senza un padre. Non riuscivo a risolvere
quell’enigma, senza riconnettermi alla mutata sensibilità dei miei anni. Se
tutte le donne del mondo avessero rinunciato agli uomini, come un sesso ormai
inutile e superato, lo avrei accettato, ma così no, non riuscivo a farmene una
ragione. Eppure, più mi allontanavo da quel luogo, più sentivo che quella donna
e quel bambino non avevano più alcun significato per me, erano stati un mero
incidente di percorso, un’impronta lungo il sentiero del destino che dovevo
lasciarmi dietro.
Come
una lente d’ingrandimento concentra i raggi solari in un solo punto
luminosissimo e appicca il fuoco, così concentrai le mie riflessioni esclusivamente
su me stesso. E giunsi a una conclusione. Ero io il padre e al tempo stesso il
figlio. Com’era possibile? Il padre e il figlio di me stesso? Ebbene sì, ciò
era possibile, ma solo in un sogno. Era stato soltanto un sogno, un balordo
infingimento, un delirio razionale, una bizzarra interconnessione temporale di
due linee vitali e null’altro? Alla domanda non riuscii a far seguire una
risposta. Ma mi accorsi che non mi faceva più male.
E
sotto la lente deformante della mia coscienza, lentamente presi fuoco. E arsi,
arsi fino in fondo, mi dibattei fra le fiamme dell’infermo, fiammate catartiche
si sprigionarono all’interno del mio essere e bruciai completamente. Andai
completamente a fuoco. E di ciò che ero stato rimase soltanto cenere.
Mi
ritrovai, non so come, nei pressi di casa mia. Meccanicamente salii le scale e
aprii la porta. Avevo in mente qualcosa. Ed era più forte di me.
Dovevo
fare qualcosa che non serviva a niente.
Mi
sedetti allo scrittoio, accesi la lampada, distesi un foglio e impugnai un
mozzicone di matita. In cuor mio ero sicuro, pur senza rinvenirne una ragione,
che quell’atto, nella sua perfetta inutilità, potesse servire a qualcosa.
E
come segni arcani tracciati da un bastone sulla sabbia del mare, vocali,
sillabe e consonanti nascevano sul foglio, e crescevano e si moltiplicavano.
Finito il foglio, ne prendevo un altro e ricominciavo daccapo. In pochi minuti,
la scrivania era ricoperta di decine di fogli di carta da me vergati, e
altrettanti ve n’erano ai miei piedi. Il pavimento aveva mutato colore e ora
camminavo sulla neve vergine, scivolando a ogni passo, ora fluttuavo su quella
distesa di carta, che era stata foglia, corteccia e albero ed era ora la cosa
più effimera al mondo, la vita di un uomo racchiusa in un pezzo di carta.
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ANGELO MEDICI
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