E'
un bene vivere nel luogo in cui si è scelto di vivere, non dove si è
obbligati. Ma spesso non è così. Non scegliamo la nostra casa, la
nostra strada, la nostra città e i nostri vicini, ma sono altri a
decidere per noi, con minuscoli scatti d'ingranaggi che mettono in
moto una ruota enorme e gigantesca, tutti insieme contribuiscono al
nostro destino. Una sorta di lotteria esistenziale che assegna a
ciascuno il prato in cui metterà radici.
Don
DeLillo (nome completo Donald Richard DeLillo) è nato e cresciuto
nel Bronx, ma i suoi genitori erano italianissimi, emigrati subito
dopo la Grande guerra dal Molise, Montagano, per la precisione, in
provincia di Campobasso. Come ogni italo-americano che si rispetti,
ha frequentato scuole cattoliche fino agli studi universitari e
l'influenza religiosa traspare in molte delle sue opere (1).
Terminati
gli studi, iniziò a lavorare prima come custode di un parcheggio e
poi come pubblicitario - risale a questa fase della sua vita il
profondo interesse per l'arte e la musica, particolarmente al jazz
(ahimè, un genere musicale che mi causa l'orticaria e la nevrosi) e
(finalmente) alla scrittura.
Il
suo talento trovò subito terreno fertile nel Nuovo continente e potè
deflagrare come meritava. Chissà se sarebbe accaduto se fosse
rimasto in Italia.
Nel
1971 ha pubblicato il suo primo romanzo, Americana
(2), un'opera che è un'indagine sul malessere esistenziale, le paure
e le patologie della società moderna, temi che si ritroveranno più
avanti in altre sue opere.
Nel
1973 scrive Great
Jones Street,
la storia di una rockstar che abbandona la sua band nel momento di
massimo splendore, decidendo di svanire dal mondo, nascondendosi in
un anonimo appartamento di Great Jones Street, da cui il titolo.
Credo che nel romanzo ci sia molto del Wakefield
di Nathaniel
Hawthorne,
dai Twice
told tales,
come il tema dell'insopportabilità del quotidiano, del mal di
vivere, del trionfo della noia e della fuga come soluzione ai
problemi. Ma è impossibile sfuggire alle luci della ribalta e il
nascondiglio è ben presto scoperto e il volontario esilio non salva
la rockstar dalla curiosità morbosa della massa e dal turbinio di
agenti, produttori e manager che cercano di guadagnare ancora un
dollaro in più sfruttando il mito. Una narrazione spietata e ironica
sullo starsystem
e l'illusione del successo.
“Erano
somme che colavano dalla mia pelle come tanta pioggia. Somme che in
realtà tornavano a me sotto forma di credito esistenziale. Pranzammo
un'altra volta. Una band suonava musica da ipermercato dal vivo.
Tornammo a casa in silenzio. Ci ritirammo nelle nostre rispettive
camere, desiderando stare soli.”
Alla
fine degli anni settanta DeLillo intraprese un lungo viaggio in Medio
Oriente e in India; successivamente si trasferì in Grecia, dove ha
vissuto per alcuni anni.
Al
ritorno negli Stati Uniti ha scritto Rumore
bianco
(titolo originale, White
Noise)
con cui, nel 1985, ha vinto il National
Book Award.
E' la critica spietata al capitalismo e al consumismo, un rumore
bianco onnipresente, sottofondo della vita moderna e, per quanto mi
riguarda, è il suo capolavoro. Il rumore bianco è la colonna sonora
della società consumista, la televisione, la radio, la musica, la
pubblicità, il traffico, il ronzio d'alveare che non ci abbandona
mai e c'impedisce di ascoltare il silenzio.
“E'
il linguaggio delle onde e delle radiazioni, ovvero quello per il cui
tramite i morti parlano con i vivi. Ed è lì che aspettiamo, tutti
insieme, a dispetto delle differenze di età, i carrelli stracarichi
di merci colorate. Una fila in movimento lento, gratificante, che ci
dà il tempo di dare un'occhiata ai tabloid nelle rastrelliere.
Tutto
ciò di cui abbiamo bisogno, che non sia cibo o amore, lo troviamo
nelle rastrelliere dei tabloid. Storie di fatti soprannaturali ed
extraterrestri. Vitamine miracolose, le cure per il cancro, i rimedi
per l'obesità.
Il
culto delle star e dei morti.”
Gli
interni nevrotici e gelidi che caratterizzano Rumore
bianco,
si ritrovano in Cosmopolis,
romanzo del 2003, che si svolge tutto all'interno di una limousine in
una insolita odissea newyorkese, e che si rivela sinistramente
premonitore nell'anticipare la crisi economica del 2007 (a proposito,
passerà alla storia come Grande
depressione,
Grande
crisi economica,
o Crisi
economica globale?),
segnata dal fallimento epocale della Lehman
Brothers
e dalla nazionalizzazione della Freddie
Mac e
Fanny
Mae.
Don
DeLillo è stato il cantore del sogno americano e della sua crisi,
l'american
beauty (3),
nel devastante e profetico scorcio di fine millennio.
Le
teorie del complotto divengono centrali nella vita dei personaggi che
l'autore descrive. In Running
Dog:
“E'
una Zumwalt automatica calibro 25. Di fabbricazione tedesca. Non ha
la forza di arresto di un'arma a canna pesante, ma non ti capiterà
mai di dover affrontare un rinoceronte, o no?
Un'arma
mortale nascosta. Lo strumento definitivo per determinare
l'appartenenza di un individuo a questo mondo. Era un segreto, una
seconda vita, un secondo io, un sogno, un incantesimo, un intrigo, un
delirio.
Made
in Germany.”,
si narrano le vicende di un gruppo di esaltati a caccia di cimeli
nazisti, sullo sfondo della spietata lotta fra l'individualismo e il
controllo politico–burocratico-sociale.
DeLillo
è stato il lucido osservatore della società americana nel rito di
passaggio al Nuovo millennio e del suo immaginario collettivo, ha
descritto i suoi costumi e la sua decadenza con una scrittura
profonda e ironica, attraverso lo strapotere dei media, il
manicheismo sociale, la religiosità, i riti profani come il Giorno
del ringraziamento,
il
4 di luglio
e il Superbowl
e le liturgie della politica (i caucus,
le primarie e il complesso sistema elettorale statunitense),
tentativi di rendere sacro qualcosa di infinitamente immorale.
La
conquista del potere.
(1)
Underworld
del 1997. Un capolavoro della letteratura postmoderna, nel quale si
sprecano teorie del complotto, dietrologie da guerra fredda,
ossessione mediatica e degenerazioni della cultura popolare.
(2)
Americana
purtroppo è uscito in Italia soltanto nel 2000. DeLillo è stato
scoperto molto tardi dalla madrepatria, ma questo è un destino
comune a molti suoi figli.
(3)
Ricordate il bellissimo film del 1999 di Sam
Mendes,
con Kevin
Spacey,
Annette
Bening
e Mena
Suvari?
E, sempre sullo scorcio di fine millennio, Strange
days
(4), duemila o non più duemila?
(4)
Ancora una nota alla nota. Film del 1995 di Kathryn
Bigelow,
con Ralph
Fiennes,
Angela
Bassett
e Juliette
Lewis,
nonché stravolta canzone e omonimo album del 1967 dei Doors.
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