venerdì 25 settembre 2015

Il nome della libertà


 

Ho iniziato a occuparmi in modo serio dei Sanniti, cioè dei miei progenitori, soltanto nel 1997, dopo la lettura del fondamentale Il Sannio e i Sanniti di Edward Togo Salmon. Ricordo di aver pensato in quell’occasione che solo un inglese, cioè uno straniero, poteva scrivere la nostra storia.

Oggi mi sono ricreduto. La nostra storia possiamo scriverla noi. Mi riferisco a Viteliù Il nome della libertà di Nicola Mastronardi, scrittore molisano.

Al di là del vivo apprezzamento per la qualità della scrittura e della poesia che vive nel romanzo, credo che vi fosse un’imperante necessità di scrivere Viteliù, di dare cioè alla luce un libro che, al di là delle ricerche archeologiche e gli intenti storiografici che si possono rinvenire in altre pubblicazioni con taglio però scientifico, mostrasse, con gli occhi del cuore, le vicende della nostra amata terra all’Italia e al mondo, perché, diciamo la verità, nessuno la conosce, né la nostra terra né la sua storia, ancora duemila anni dopo la maledizione di Lucio Cornelio Silla.

Nella postazione alla seconda ristampa l’autore ha giustamente parlato di marketing territoriale nella scia del romanzo e sappiamo entrambi quanto la nostra terra ne abbia bisogno.

Ma io credo che si possa fare ancora di più.

Sono anni che passo nottate a studiare le cartine geografiche del Sannio antico; oggi si parla tanto di federalismo e macroregioni: il grande Sannio può rinascere e vivere ancora; Viteliù può essere la punta di lancia di un grande progetto politico: riunificare il Sannio, riunire la discendenza delle antiche stirpi sannite alla loro amata terra per tentare di scrivere la storia di un Sud, una volta tanto, diverso.
Io sono certo che la caparbietà, il coraggio e la fermezza che contraddistinguevano gli antichi guerrieri ci scorra ancora nelle vene e potremo impiegarli, stavolta, in modo pacifico rispetto a quando combattevamo per l’onore e la libertà, ma sempre al servizio della nostra piccola patria.

sabato 19 settembre 2015

L'odore dei bar




C’erano, se ci sono ancora non lo so più, dei bar in cui tutto era familiare, il barista e la moglie che accoglievano rosei e sorridenti gli avventori, la lucida esposizione dei liquori con nomi di altri tempi, Vermuth, Fernet Branca, Amaro Giuliano, Vecchia Romagna… (chi è che beve più queste cose?), l’odore del caffè, la luce gialla e calda nelle serate d’inverno… Entri, ti scrolli di dosso il freddo e sei come a casa.

Casa, ecco la parola giusta, quando entravo in quei locali mi pareva di essere a casa. Non a casa mia, certo, ma a casa loro, di quegli osti burberi ma buoni come il pane, benevoli, spesso baristi improvvisati, poco avvezzi alla gente, ancora con i calli sulle mani e nella schiena la fatica dei campi, e le loro donne dietro il bancone, floride e sorridenti, familiari e rassicuranti come vecchie zie.

Ecco, a me sembrava di entrare in casa loro, come se il bar o l’osteria fossero propaggini, prolungamenti, estensioni della loro stessa casa e, infatti, a volte si sentiva, sopra il puzzo delle sigarette, l’aroma del brodo che cuoceva sul fuoco, di là del muro.

Appena dall’altra parte.

mercoledì 16 settembre 2015

La valigia


 

            Florin attraversò il campo goffamente. L’alba con forbici di luce alla mano ritagliava la sua figura dall’oscurità e così dal cartoncino del fango e delle pozzanghere prendeva forma la sua immagine ricurva.

            Nelle baracche cominciava a brillare qualche luce, si aprivano le porte e sbucavano teste dai capelli arruffati. Le luci si accendevano, le teste si moltiplicavano e su tutti quei volti era dipinta la stessa espressione. La stessa domanda.

Se Florin non era mai partito, perché si trascinava dietro una grossa valigia?

Fu costretto a fermarsi davanti alla sua baracca. Una folla di ombre dai capelli irsuti gli sbarrava la strada. I bambini accarezzavano la valigia. Uscì sua moglie.

“Bè, cos’è questa confusione? Non avete di meglio da fare? Su, entra Florin, entra.”

Al riparo del suo rifugio ritrovò i gesti consueti e afferrò la tazza che gli porgeva Zirel. Il caffè era fangoso e amaro, ma l’aveva sognato per tutta la notte sotto la luna fredda e gelida. Il letto si mosse e alcune teste emersero da sotto le coperte, Dulcea, Kostantin e Pavel si svegliarono. Florin tolse dalla giacca un fagotto e lo rovesciò sulla tavola. Alcune monete rotearono e poi si fermarono. Una cadde sul pavimento. Zirel si affrettò a raccoglierla.

“Tutto qua?” chiese guardando la valigia.

“Tutto qua” ripetè Florin, guardando anche lui la valigia.

“E quella?”

“E quella, niente.” E si affrettò a riporla sotto il materasso.

“Come niente?”

“Niente.”

Zirel andò verso il letto, ma Florin le si parò davanti. Zirel lo spinse e Florin le tirò i capelli. Lei gli diede un calcio, lui una sberla, Zirel gli graffiò il viso e lui le tirò un pugno in bocca. La moglie sputò sangue, lo guardò furente e gli saltò addosso. Caddero rotolando sul pavimento, senza smettere di colpirsi, davanti ai figli che li guardavano, non troppo stupiti, del resto. A un certo punto, Zirel gli fu sopra e sollevò una pentola con l’evidente intenzione di rompergli la testa, ma si fermò proprio nel momento di farlo. La mano a pugno di suo marito si era aperta e l’indice mostrava la valigia. Zirel sorrise, un sorriso imperfetto, e pose una mano sulla maniglia.

Florin l’aiutò a metterla sul letto, era molto pesante, vi s’installarono accanto e presero ad accarezzarla. Florin fece scattare il meccanismo di chiusura. “No, aspetta!” urlò sua moglie.

Dalle finestre della baracca, poco più che buchi turati alla meglio con fogli di polietilene, entrava ormai la luce del giorno e le sagome di teste dai capelli arruffati. Florin risistemò la valigia sotto il materasso, Zirel uscì urlando e le sagome scomparvero.

“Dobbiamo stare attenti, Zirel.”

Zirel annuì e guardò le finestre con occhi da felino.

“Ma cosa ci sarà dentro?”

“Non lo so, ma è pesante. Forse dei vestiti, ma prima, mentre la portavo qui, ho sentito qualcosa di duro, una forma solida.”

“Una scatola?” Gli occhi di Zirel, che erano già grandi, si fecero ancora più grandi.

“O un cofanetto, oppure un… Come si chiama?”

“Un portagioie?”

“Si, proprio quello!”

“Pensa quante cose potremo fare. Comprare vestiti nuovi e la televisione e potrò farmi la messa in piega.”

“Io voglio un quintale di salsicce, una stecca di sigarette e… E un’automobile!”

“E tantissimi colori, le patatine fritte e la playstation!” Fecero Dulcea, Kostantin e Pavel.

“Zitti voi.” Urlò Zirel “Andate fuori a giocare”. Poi, guardò negli occhi il marito e gli sussurrò: “Oggi non usciamo per nessun motivo, stiamo di guardia alla valigia e domani, prima che spunti il sole, scappiamo via da qui.”

Detto, fatto. Florin stette tutto il santo giorno davanti alla porta della baracca a fumare, Dulcea, Kostantin e Pavel mantennero la promessa e non si fecero più vedere per il resto della giornata, mentre Zirel vide morire il giorno a cavallo della valigia, dimenticando perfino di fare i suoi bisogni.

Quando la sera allungò le ombre nella stanza, apparecchiarono una magra cena e mandarono i figli a letto prima del solito. Ma la moglie che sussurrava cavalcando una valigia era una cosa che non si vedeva tutti i giorni e a Florin fece uno strano effetto. Quella notte si guardarono negli occhi e la catapecchia traballò più del solito, eppure non ci fu vento. Quando le assi smisero di scricchiolare, si addormentarono mano nella mano, come bambini, con un tenue sorriso dipinto sulle labbra.

Florin si svegliò all’improvviso. Aveva sentito un rumore. Infilò la mano sotto il letto.

La valigia era sparita.

Zirel urlò, i figli piansero, Florin bestemmiò. Il vento gelido entrava dalla finestra da un largo squarcio nel polietilene.

“Ecco da dove sono entrati.” Pensò.

Uscì dalla baracca. Un’oscurità fangosa ammorbava il campo. Non era ancora sorto il sole. Dalla finestra si dipartiva un solco nel fango, che pareva essere stato tracciato da qualcuno che trascinasse un oggetto molto pesante.

“Ed ecco da dove sono usciti.”

Le tracce terminavano davanti all’uscio di una casupola.

Florin tornò indietro.

“Presto Zirel e anche voi ragazzi, venite con me.”

Zirel prese una padella, Dulcea, Kostantin e Pavel un bastone a testa e Florin nascose un coltello nella manica. Arrivarono alla stamberga e si acquattarono nell’ombra. Florin non sapeva che fare.

“Dobbiamo sfondare la porta e riprenderci quello che è nostro” disse Zirel.

I ragazzi annuirono.

Allora Florin si stiracchiò come faceva al risveglio, spinse il petto in fuori e assunse un’aria truce. Ma non accadde nulla.

“Dai Florin, dai sfondala” gli bisbigliò Zirel torcendogli un orecchio.

Proprio in quell’istante, la porta si aprì, Zirel lo spinse dentro e Florin si ritrovò addosso a un vecchio. Era Papà Miroslav che probabilmente usciva a far pipì. Il vecchio urlò, lo abbracciò non si sa per quale motivo e crollarono insieme sul pavimento di legno con un gran frastuono. Si svegliò Miroslav figlio, che era un omone grande e grosso, e anche sua moglie, che era un donnone grande e grosso, e anche i loro figli, che erano ragazzoni grandi e grossi. L’unico magro era il nonno.

Nell’oscurità partì un pugno e si scontrò casualmente con l’occhio di Florin. Malgrado avesse un occhio offuscato dal buio e l’altro abbagliato dai lampi prodotti dal cazzotto di Miroslav, egli riuscì a scorgere una forma a parallelepipedo in fondo alla stanza. Era la valigia! Zirel l’abbrancò e faticò non poco a trascinarsela dietro aiutata dai suoi figli. Florin capì che era giunto il momento di coprire la ritirata ai suoi e si dispose di buon animo a ricevere altri colpi dai Miroslav.    Gli arrivò una padellata in testa, un dito nell’occhio sano e un calcio dove non brucia il sole. Il vecchio Miroslav gli morse una mano, Florin urlò dal dolore e si chiese come avesse potuto perché gli mancavano tutti i denti. Ma riuscì a divincolarsi, e zoppo e accecato scappò verso il suo tugurio, però si strappò i calzoni su un chiodo malandrino che reggeva le assi di casa Miroslav.

“Presto, chiudi Zirel” disse ansante, reggendosi le braghe.

Intanto, tutto il campo si era svegliato. Una calca nera e silenziosa si ammassava nello spiazzo fangoso. Sentì Miroslav arringare la folla, spiegando che la valigia era sua perché Florin gliel’aveva venduta e ora era venuto a riprendersela. Dalla massa di corpi scuri salì un sordo mormorio di sdegno.

“Non è vero, non è vero” dovette giurare e spergiurare Florin davanti allo sguardo felino di sua moglie, che tremava da capo a piedi.

Miroslav urlò qualcosa che non riuscirono a capire e poco dopo udirono colpi sordi alla porta: tentavano di sfondarla. Allora ammucchiarono il tavolo e le sedie contro l’uscio e tavole e suppellettili addosso alle finestre. I colpi alla porta cessarono e calò il silenzio. La roccaforte era riuscita a resistere all’assedio?

Un fulmine squarciò il cielo nero e illuminò a giorno il campo, lo schianto del tuono li fece sobbalzare e cominciò a piovere. Le gocce cadevano sulle lamiere del tetto, rigavano i fogli di polietilene e ticchettavano nei catini posti sotto i noti buchi del tetto. Sentirono voci avvicinarsi e poi un forte odore di benzina. Non fecero in tempo a dir nulla che la baracca prese fuoco. Erano dei folli, dementi, pazzi da legare. Volevano bruciarli vivi per una valigia?

Zirel prese Dulcea e Kostantin in braccio, Florin si caricò Pavel sulle spalle e, presa la valigia, spalancò la porta e volò fuori. Sulle loro reni si abbatterono pugni e calci e poi bastoni e pietre. Mani perfide cercavano di afferrarli, piedi lesti tentavano di far lo sgambetto. Ma non riuscirono a prenderli. Corsero a perdifiato, senza voltarsi una volta a vedere chi li colpiva. Si fermarono soltanto quando dietro di loro la strada fu vuota e silenziosa. Nessuno più li inseguiva. Lontano, così indietro da sembrare il passato, la baracca crepitava in un immenso rogo.

Smise di piovere. La luna lottava contro brandelli sfilacciati del temporale e illuminava a tratti i loro volti tumefatti e sanguinanti.

Che fare adesso? Certo avevano riconquistato la valigia, ma la loro umida, decrepita casetta era andata a fuoco. La strada si perdeva nel buio e nel fango costeggiando il fiume. A dirla tutta, non era un grande fiume, ma neppure un torrentello; era un corso d’acqua che aspirava a esser grande, e tuttavia, annegava in mare, senza ricever alcun affluente. Ma come ogni fiume che si rispetti, aveva il suo bravo ponte. Un ponte importante, perché sopra ci passava l’autostrada.

Zirel si sentì chiamare dal marito. Florin le indicava un sentiero che si perdeva nel buio sotto gli argini, fra il gorgogliare delle acque, proprio sotto il ponte. Per loro non era la prima volta dormire sotto i ponti, ma per i figli si, erano sempre riusciti a metter loro un tetto, seppur bucato, sopra la testa. Zirel li guardò e le venne da piangere. Ma non c’era alternativa e seguì il marito giù nella golena.

Florin andò in cerca di legna secca e accese il fuoco. Bagliori rossastri si riflessero sui volti, sull’acqua nera del fiume e sulle arcate del ponte. Così andava decisamente meglio, un dolce tepore pervase le loro membra indolenzite e si guardarono. O almeno, Florin ci provò perché aveva entrambi gli occhi gonfi e pesti e riusciva a inquadrare soltanto pochi gradi d’orizzonte. Ma quel ristretto campo visuale fu sufficiente a fargli stringere il cuore in una morsa. Vide i suoi figli infreddoliti, con i capelli strappati, i volti e le mani piene di graffi e tagli. Le lacrime rigavano il viso di sua moglie, facendosi strada su una densa patina sporca e untuosa; nella lotta furibonda con i Miroslav le si era strappato il vestito e una profonda scollatura metteva in mostra il seno ancora florido. Egli sentì di amarla, come non l’aveva amata mai; in quell’alba livida sotto il ponte, accanto al fiume, sentì di amare alla follia quella donna, i suoi figli, la sua famiglia, tutto ciò che gli restava, tutto quello che aveva al mondo. Non gli era rimasto più niente. Tranne la valigia.

In quell’istante gli sguardi di tutti si posarono insieme sul misterioso e pesante bagaglio, ma nessuno osava muoversi. L’acqua scorreva dettando il tempo a tutte le cose, il ponte era un arco scuro che trapassava la notte, il suo dardo un fuoco che ardeva sui volti.

Florin si avvicinò alla valigia, guardò Zirel e i suoi figli e fece scattare la serratura. Un silenzio di tomba scese sulla famiglia. Lentamente, sollevò il coperchio e il bagliore rossastro delle vampe illuminò l’interno. Nessuno disse nulla, poi Florin la richiuse. La falce della luna lacerò i resti del temporale e illuminò i loro volti. Dieci occhi rimasero a fissare l’acqua nera che scorreva sotto il ponte.

 

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