Non
c’ero quando lei morì. Non me lo perdonerò mai. Avrei voluto tenerla in braccio
per l’ultima volta, la mia bionda Camilla, mentre esalava il suo ultimo respiro
e cercava i miei occhi per affondarvi i suoi, forse pieni di paura.
Non
me lo perdonerò mai. Anche se era solo un cane. La mia dolce Camilla.
Certo
non era un cane letterario, come Argo (1) di Ulisse, come Bauchan (2) di Thomas Mann, o Randy (3) di Carofiglio. E, perché no, mademoiselle Cocotte (4) di Maupassant. Era solo un cane. Ma era il
mio.
Per
anni continuai a sentire le sue unghie ticchettare sul pavimento delle stanze
della casa di mia madre, nella sua andatura caracollante e un po’ goffa. Era in
discreto sovrappeso. Non conosco come si determini il peso forma canino, ma lei
lo era di sicuro. Se dovessi paragonarla a una persona, credo che sarebbe stata
una biondona tutta curve e delizie e molto, molto dolce. Mi ricordo che quando
tentava di correre, ci si metteva d’impegno, si preparava a scattare come un
centometrista, ma la sua corsa era patetica, credo che non abbia mai sfrecciato
oltre i due chilometri all’ora. E poi, si stancava subito, soprattutto negli
ultimi tempi.
L’ho
amata? Si può amare un cane? Si, si può amare un cane, io l’ho fatto e anche
lei ha amato me. Decisamente. Una volta, a causa di un infortunio - ero ingessato
dal collo all’ombelico – mi sono fatto un’intera estate in poltrona, ma lei non
mi ha mai lasciato solo, neppure per un minuto. Per farla mangiare o uscire a
fare i suoi bisogni, si era costretti a trascinarla via di peso, tra molti
ringhi e tentativi di mordere. Ma non ha mai morso nessuno. Era tutta una finta
per far vedere che era feroce. Un cane affezionato alla casa che abitava e ai
suoi occupanti. Prendeva un aspetto serio, ringhiava e abbaiava, digrignando i
denti, ma nessuno le dava retta, non si poteva credere che una cagnetta rotonda
e burrosa come lei, potesse addentare polpacci e caviglie. E avevano ragione.
Ma l’impegno, il coraggio e la dedizione che dimostrava nel difendere noi e la
sua casa, quando, spesso a torto, ci credeva in pericolo, era commovente.
Una
volta scovò una pericolosa vipera che si era introdotta nel nostro giardino.
Prese ad abbaiare furiosamente per richiamare la nostra attenzione e intanto,
aveva iniziato una strana danza davanti al rettile; se questo tentava di
sgusciar di lato, lei subito gli saltava davanti, se strisciava verso l’altro,
lei gli si parava davanti. Un ballo ritmico tutt’intorno al serpente, che a
volte portava le sue zampe vicinissimo ai suoi denti veleniferi. Un balletto
che si dimostrò efficace, perché la vipera non riuscì a muoversi fino a quando
non le fracassammo la testa con una pietra.
Ma
ne capitò un’altra. E fu un caso molto strano. Era notte fonda, la casa era
avvolta dal silenzio e i raggi bluastri della tv rischiaravano la penombra. Io ero
mezzo addormentato davanti al televisore e nel dormiveglia accarezzavo la sua
testolina morbida. A un tratto sentimmo un tonfo e subito dopo, strida
acutissime provenire dalla cucina. Ci precipitammo di là e vidi due occhi
gialli emergere dall’oscurità. Vi fu un gemito più terrificante dei precedenti,
uno stridio che pareva una minaccia. Mi si gelò il sangue nelle vene. Una
figura nera si muoveva nella penombra. A occhio e croce giudicai che una strega
era apparsa nella cucina e profferisse oscure minacce. Camilla fece due abbai
di circostanza, molto formali, tanto per ricordare a me, ma soprattutto a lei,
che era un cane da guardia e poi, si rifugiò spaventatissima fra le mie gambe. Solo
quando la fuliggine si fu diradata, capii cos’era accaduto. Una grossa civetta
era caduta, attraverso la canna fumaria, dentro il camino e cercava
disperatamente una via d’uscita. Liberare la civetta, fu più arduo che svelare
il mistero, ma, aiutandomi con una rete da pesca, ci riuscii. Camilla però non
smise di tremare e dovetti portarmela a letto perché non volle saperne di
dormire nella sua cuccia. L’uccellaccio notturno proprio non le era
piaciuto.
Io
credo che in punto di morte, abbia avuto paura, ma non di morire. Credo che
abbia avuto paura di lasciare il mondo morbido, caldo e accogliente che il
destino aveva riservato a lei, cucciolo di pochi giorni, abbandonata in un
cassonetto dei rifiuti. Paura di dover lasciare le persone che si erano prese
cura di lei. Amava tanto la sua casa e le persone che l’abitavano. Quando sentì
che era giunta la sua ora, d’istinto andò a cercare mia madre, forse si ricordò
di quando lei l’allattava con un biberon per neonati e credo che la
considerasse davvero anche sua madre. Ma mia mamma non fece in tempo a
prenderla in braccio, che lei morì ai suoi piedi. Ogni volta che me lo
raccontava, i suoi occhi si riempivano di lacrime. Era una di famiglia, diceva,
giurandomi che non avrebbe mai più preso un cane, perché nessun altro animale
avrebbe potuto colmare il vuoto che aveva lasciato.
Ancora
oggi, quando torno a casa di mia madre, avverto quel senso di vuoto, pare
sempre che manchi qualcosa, o che ci sia troppo silenzio, come quando qualcuno
sposta un mobile o stacca un orologio da un muro dopo tanti anni che è stato lì
e di fronte alla parete vuota non sai dire cosa manchi davvero, per tutto il
tempo che hai passato a fissarla, senza accorgerti di ciò che c’era. Ecco, lei
era così. Una presenza discreta, che faceva parte della casa. E te ne accorgevi
le rare volte che non c’era. E se, guardando bene la parete nuda e spoglia, puoi
vedere la sagoma che il mobile o l’orologio vi ha lasciato per lo scorrere del
tempo, forse anch’io posso vedere il profilo della sua ombra canina tra le
ombre della casa.
Se
penso a lei, mi tornano in mente gli anni giovani della mia vita, anni freschi e
sereni, che sono corsi via veloci, sorvegliati dalla sua discreta presenza. Non
sfuggiva davvero nulla al suo occhio vigile, neppure quando dormiva. Sapeva
tutto della casa e di noi e partecipava a ogni evento, lieto o infausto che
fosse. Gioie e dolori, novità e partenze, matrimoni e funerali, lei aveva il suo
posto.
Mi
viene da sorridere se penso alle sue marachelle e soprattutto al suo modo di
farsi perdonare, un modo molto speciale: assumeva un’aria afflitta e drammatica,
da tragedia greca e mi guardava con quegli occhi tristi e pieni di pentimento,
cercando di cogliere il più piccolo segno di tregua. Poi, cominciava ad avanzare,
quasi strisciando, sulle zampe posteriori fino ad appoggiarmi in grembo il capo
e in quella posizione mi guardava con certi occhi guaendo piano. A quel punto,
mi era passata qualsiasi velleità punitiva e non mi veniva altra voglia che di
accarezzarla sulla fronte, come le piaceva. E lei, sicura di essere stata
perdonata, fuggiva via a razzo, a saltare sui divani come una bambina
impertinente.
Una
volta, ci fece molto preoccupare, perché da diversi giorni non riusciva a fare
i suoi bisogni e temevamo un blocco intestinale. Decidemmo allora di portarla
dal veterinario. Lo studio del veterinario era un posto che lei non amava.
Forse sentiva l’odore della paura degli altri pazienti. Fatto sta che, appena
capiva dove eravamo diretti, si impuntava sulle zampe anteriori come un mulo
greco e non c’era verso di tirarla dentro, così tutte le volte dovevo
prendermela in braccio e varcare la soglia dell’ambulatorio con una tempesta di
pelo che mi ribolliva tra le braccia. Anche quella volta fece le bizze e
dovetti faticare non poco per trascinarmela dietro, ma, appena arrivati, lei
fece i suoi bisogni proprio davanti alla porta del veterinario. Credo che la
paura del dottore le abbia fatto vincere la stitichezza. Ne fui molto
sollevato, anche se dovei ripulire tutto per bene.
Dolce
Camilla. Per anni dopo la sua morte ho continuato a sentire l’odore del suo
pelo morbido e folto. Per anni ho sognato di accarezzarla. Cosa darei per vedere
ancora una volta la sua sagoma comicamente abbondante e riascoltare l’intero
campionario dei suoi versi. Ma quello che, di tutti i sensi, mi manca di più è
il tatto, mi manca da morire non poterla accarezzare sulla fronte, proprio fra gli
occhi, come le piaceva da impazzire, tanto che se non lo facevo io, infilava la
testa sotto la mia mano e si accarezzava da sola. Mi manca non poterle tirare
dolcemente le orecchie e far scorrere le dita della mano, come punte di
rastrello sul pelo folto del suo dorso.
Qualche
giorno dopo la sua morte mi venne a trovare. In sogno. Scodinzolava, ma aveva
già gli occhi cerchiati da un alone nero. Mi diede un colpetto con il muso
umido e freddo, proprio sulla mano, era il suo saluto, faceva così quando aveva
voglia di giocare o di farsi accarezzare, e poi, scappò via. Forse una nuova
cuccia, una ciotola piena e un altro padrone l’attendevano da qualche
parte.
(1)
L’odissea.
(2)
Cane
e padrone.
(3)
Né
qui né altrove.
(4)
Storia
di un cane.
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