In Molise abitano 350.000 persone. Di
esse, circa 10.000 sono croati, altri 10.000 greco – albanesi, poi un numero
imprecisato di rom e sinti e una discreta comunità araba (la moschea e il
cimitero islamico sono realtà dagli anni sessanta del secolo scorso).
Gli zingari (mi spiace chiamarli così,
perché pare dispregiativo, ma credo che pochi conoscano termini come romanì, sinti e korakhanè) sono
arrivati in Molise tra il Quattrocento e il Cinquecento e da allora, viviamo
casa a casa in pace con loro, non vi è ricordo del più piccolo screzio tra la
loro comunità e quella molisana. Certo, i rom hanno le loro tradizioni e noi le
nostre, ma non ho mai riscontrato altrove la tolleranza e il senso di
ospitalità che c’è in Molise.
In Molise sono arrivati i Sanniti, si
sono trovati bene e sono rimasti. Poi sono arrivati i romani (scrivo romani con
la minuscola, perché li odio, hanno sconfitto i nostri combattivi predecessori),
si sono trovati bene e sono rimasti, e poi i Normanni, i Longobardi, gli
Spagnoli, i Saraceni (gli unici a non essere rimasti, ma avevano altre
intenzioni) e così via, fino a oggi.
Conclusione: chi viene in Molise non se
ne va più, perché si sta troppo bene. Se solo fossimo meno isolati come
territorio e avessimo qualche risorsa in più che non ci costringesse a
emigrare, sarebbe proprio un paradiso terrestre. Abbiamo il mare e le montagne,
siamo una piccola Svizzera o una Scozia in miniatura (non lo dico a caso, il
grande romanziere Piovene aveva
scritto che i paesaggi del Molise gli ricordavano la bellezza tragica delle Highlands scozzesi, uno sfondo ideale per
il Macbeth),
buon cibo e brava gente, lavoratrice e caparbia, che non si lamenta mai, anche
se si ricordano di noi solo quando si devono pagare le tasse.
In verità, siamo italiani misconosciuti.
Pochi sanno dov’è il Molise. A me è capitato di sentirlo situare tra l’Alto Adige e le Marche e spesso lo confondono, chissà perché, proprio con
quest’ultima regione. Segno che i programmi scolastici ministeriali dedicano
sempre meno attenzione alla geografia e questo è il risultato. Una volta c’era
addirittura un sito creato con lo scopo di mettere in dubbio l’esistenza della
regione http://copiaeincolla.wordpress.com/2007/10/19/molise-confronting-the-evidence/.
Lo slogan del sito era “Molise, I want to believe”, Molise,
voglio crederci (nella tua esistenza), che è praticamente lo stesso motto
che si trova sulle t-shirt degli appassionati di ufologia, sotto la faccia
improbabile di un alieno schiantatosi a Roswell.
Chissà, magari scopriamo che Roswell
è unito al Molise da un corridoio
spazio – temporale… A parte l’ironia, quel sito coglieva un fondo di verità. La
scarsa conoscenza, se non l’indifferenza degli altri italiani nei nostri
confronti, se non una vera e propria intolleranza, manifestata dal catalogarci
nel multiforme calderone dei terroni sporchi, lamentosi e cattivi, con lo scopo
di affibbiarci comunque una categorizzazione che li faccia stare tranquilli. La
gente, si sa, si tranquillizza se può ricondurti a qualche categoria
prestabilita, è la diversità, l’inclassificabilità, che destabilizza.
Io sono un po’ del Molise e un po’ no.
Mia madre certamente lo è, mio padre no. Così nelle mie vene scorre tumultuoso
sangue geograficamente misto, molisano, campano, pugliese, sangue pazzo che mi
rende così irrequieto e instabile come una piramide a testa in giù in bilico
sul proprio vertice. Ma, forse, quel mix ematico è un vantaggio, un dono. Da
qualche parte ho letto che l’inquietudine
è la materia prima della creatività. Così mi spiego questo post e tutti
quelli che ho scritto in precedenza e che scriverò (o, almeno, è quello che
spero) e che avrete la pazienza e la bontà di leggere (e anche questo è quello
che spero).
Fino ai primi anni settanta del Novecento,
il Molise era la regione più povera d’Italia, falcidiata dalle carestie e dalle
emorragie delle emigrazioni. Agli inizi del 2000 avevamo fatto passi da
gigante, si era sviluppato qualche embrione d’industria e pareva che il turismo
stesse per decollare, il PIL cresceva, tanto che eravamo usciti dall’Obiettivo
1 di Agenda 2000 dell’Unione Europea, quello delle Regioni in ritardo di
sviluppo e stavamo per entrare nell’Obiettivo 2 dei territori con qualche
carenza sociale, economica e infrastrutturale meno grave (per capirci meglio,
dirò che in tale Obiettivo vi erano anche alcune zone del Nord Italia). La G.C.S.E.
(Grande Crisi Socio – Economica), ahimè, ci ha fatto rimpiombare nel medioevo.
Quando avevo vent’anni e pochi soldi in
tasca, le vacanze estive le consumavo, insieme alle scarpe, vagabondando zaino
in spalla per paesi e vallate, boschi e montagne. Esploravo il Molise, la mia
terra. Vacanze low cost, si direbbe
oggi, anzi, without cost, per essere
precisi, ma non mi sono mai divertito come allora, quando giravo praticamente
senza un soldo in tasca.
A volte, ci capitava di accamparci tenda
a tenda, a fianco agli zingari. La sera accendevano il fuoco e noi univamo le
nostre chitarre alle loro fisarmoniche, le nostre voci gagè ai loro canti gitani, le nostre mani e i nostri piedi alle
loro danze. Si mangiava, si beveva, si cantava e si ballava insieme e nessuno
ci ha mai portato via niente. Anzi, ci hanno dato molto, ogni volta. Ci hanno
aperto le loro tende e i loro cuori, insegnandoci le loro canzoni, spiegandoci con
pazienza le loro tradizioni orali e, quando era ora di salutarci, lo facevamo a
malincuore, con il sorriso sulle labbra e un nodo alla gola, sussurrando: “Lacio drom”.
Buon viaggio.
Il
miglior augurio che si possa fare a un popolo sempre in cammino.