Dio
fece Adamo, poi Eva, infine,
si
costruì una chitarra e cominciò a suonare.
Era
blues.
Tom Hancock era un bambino come tutti gli altri,
forse un po’ più silenzioso e più basso dei suoi compagni, ma nient’altro di
particolare. Almeno fino a quel giorno, il giorno in cui aveva visto Elvis
Presley in televisione impugnare la chitarra e intonare Heartbreak Hotel, dimenandosi come un forsennato. Tom era rimasto incantato dai suoi abiti assurdi, ricoperti di
borchie e lustrini, dall’acconciatura che sfidava la forza di gravità e
soprattutto da quella musica farcita di riff selvaggi e lancinanti, sparati a
raffica dalla sua chitarra. Aveva stabilito che se quel signore dalla
capigliatura improbabile e vestito in modo così eccentrico poteva imbracciare
una chitarra a quel modo e cantare a squarciagola, allora poteva farlo anche
lui.
Ancora non lo sapeva, ma da quel giorno niente
sarebbe stato più lo stesso.
Cominciò a costruire chitarre elettriche. Le faceva,
a imitazione di quelle vere, con cartone e legno e quanto alle corde, bastava
il fil di ferro, che solo a sfiorarlo tagliava le dita. Dopo averle suonate a piacimento, le fracassava in
terra a mò di zappa e appiccava il fuoco con i miseri resti, proprio come aveva
visto fare in tivù da un altro strano personaggio, che con quegli occhi
spiritati poteva essere solo venuto da un altro pianeta. Poi prendeva un altro
pezzo di legno, un altro pezzo di cartone e ricominciava daccapo.
Dopo aver assistito alla distruzione della decima chitarra,
suo padre disse a sua madre: “Donna, sta
cercando di dirci qualcosa” e decise che era arrivato il momento di
iscriverlo a una scuola di musica.
L’insegnante di musica nella scuola della città era
un uomo onesto, che conosceva bene i propri limiti. Alla prima lezione, iniziò
da dove avrebbero iniziato tutti, cioè dalla teoria. Mostrò a Tom Hancock come
era fatto un pentagramma, gli spiegò cosa fossero le chiavi, gli insegnò a
riconoscere la notazione, esaltò le potenzialità del sistema dodecafonico. Ma questo
non era suonare la chitarra e a Tom questo non poteva bastare. Il maestro fu
onesto e invece di cercare di guadagnare qualche soldo in più, propinandogli
altre inutili lezioni di solfeggi, comprese che era meglio cominciare a
insegnargli davvero a suonare. Così Tom poté finalmente impugnare una vera
chitarra elettrica e il maestro gli mostrò i primissimi rudimenti di arte
chitarristica, diteggiature, scale e gli accordi più semplici.
L’allievo era dotato. In pochi giorni si era
impadronito di tutte le tecniche che il maestro gli aveva insegnato e suonava
già con discreta perizia. L’insegnante era stupefatto, per anni giurò di non avere
mai avuto uno studente così abile. Decise quindi di proseguire con cose molto
più difficili e sospinse Tom verso accordi estesi e irregolari, armonici, none
aggiunte, quarte e seste sospese, sovrapposizioni tonali.
Il ragazzo seguiva senza alcun problema il suo
maestro, anche nelle scale più impervie o negli accordi più complessi, stava sviluppando
un’eccellente tecnica ed era orgoglioso del lavoro svolto. Ben presto giunsero
al confine delle conoscenze chitarristiche dell’insegnante. Così un giorno, al
termine della lezione, che sarebbe stata anche l’ultima, ma questo Tom ancora
non lo sapeva, mentre riponevano gli strumenti, il maestro gli disse con
franchezza, che non aveva più nulla da insegnargli. In pochissimo tempo aveva
raggiunto livelli inimmaginabili, non si era mai visto un ragazzo imparare a
suonare la chitarra in tre giorni.
“Tom, lascia perdere il rock’n roll” disse,
tuttavia, il maestro “Il rock’n roll è per fare soldi e sfilare le mutandine
alle ragazzine.”
Si accese una sigaretta. “Tu sei molto dotato, sei
un musicista vero, puoi andare oltre.” Aspirò una boccata e riprese la chitarra.
“Devi suonare il blues” concluse. E con la sigaretta in bocca strimpellò un
riff in mi maggiore.
“Perché, maestro dovrei suonare il blues?” chiese
Tom.
“Perché il blues è tutto, senza blues non ci sarebbe
nulla”
Gli spiegò che suonare il blues non era poi così
complicato, perché in fondo, bastavano tre accordi e dodici battute. Per
diventare un chitarrista qualunque era sufficiente conoscere a menadito tutte
le posizioni delle mani sulla tastiera, imparare a memoria tutti gli accordi
dell’universo, gli intervalli, i rivolti, le triadi e le scale, incatenare note
su note agli assolo, sempre più veloci.
Per suonare il blues ci volevano tre accordi.
E l’anima.
Gli spiegò che era necessario tormentarsi,
contorcersi, vomitare l’anima, per poter suonare il blues. Assorbire tutto il
dolore del mondo e l’amarezza, la malinconia e il rimpianto, imbeversene come
una spugna e restituirlo goccia a goccia, nota su nota, alle nostre sconfinate
pianure terrene. E mai un attimo di tregua. Mai.
Perché suonare il blues era sentire il mondo. Quella
era la differenza fra un chitarrista qualunque e un bluesman.
Il maestro fu onesto anche stavolta e glielo spiegò
per bene. Ma ci sono due cose non si possono insegnare, gli disse, o ce le hai
o non ce le hai e la prima cosa che non si poteva insegnare si chiamava talento
e Tom il talento ce l’aveva innato, solo che non lo sapeva e l’altra cosa che
non si poteva insegnare era suonare con l’anima e anche questa cosa, Tom ce
l’aveva da quando era nato. Tom Hancock suonava con l’anima, come fosse la cosa
più naturale del mondo.
Il maestro lo congedò.
Tom si esercitava dalla mattina alla sera. Non
faceva altro che suonare tutto il santo giorno, fino a che le dita non gli
sanguinavano e il fianco della chitarra, voluttuoso come quello di una bella
donna, ma non altrettanto morbido, non gli lasciava un segno violaceo impresso
sul costato. Progrediva rapidamente nella pratica dello strumento, le dita
della mano sinistra acquisivano velocità e destrezza, la mano destra sviluppava
la leggerezza necessaria per compiere vere e proprie scorribande sulle corde e maturare
il tocco, quel modo personale di approcciarle, che è unico ed esclusivo per ogni
chitarrista.
Un giorno prese la chitarra e andò in strada. Si
sedette sul marciapiedi e iniziò a suonare. Era la prima volta che suonava quel
brano. La musica fluiva potente dallo strumento acustico, evocava radici
lontane, viaggi senza ritorno attraverso gli oceani, la dura fatica dei campi,
nostalgia di tempi andati. Era la musica degli schiavi, andava avanti e
indietro seguendo il ritmo del lavoro come un pendolo regolare e affondava vigorosa
le radici in terra d’Africa.
Cominciò a radunarsi una piccola folla. Tom non se
ne accorse e continuò a suonare. Ora fluivano echi di foreste, orge di timbri
cupi e intensi risuonavano grevi per i tronchi, si disperdevano dentro i fusti
impregnandone le fibre e dalle radici risalivano come linfa spinta nei dotti
osmotici, fino ai rami più alti, ai ramoscelli teneri e alle giovani foglie,
sempre più verso l’alto, sempre più su, fino a raggiungere la luce vivida ed eterna
del sole.
Tom smise di suonare e restò a guardare lo sporco
dei marciapiedi.
Il piccolo pubblico si era ammutolito. La gente era
assorta e immobile. Nessuno parlava, non osavano quasi respirare per non
sciupare la bellezza del momento. Dopo quella musica, ogni parola sarebbe stata
vana e irriguardosa. Le parole avrebbero violentato l’aria con la loro
approssimazione semiotica, l’avrebbero sporcata con i loro suoni aspri e
gutturali, avrebbero cozzato contro mura d’incomunicabilità e si sarebbero
perse nell’eco, come piccoli fiori neri d’inchiostro, recisi e dispersi nel
vento, strappati dalle pagine di un libro che nessuno avrebbe mai letto. Ma le note
no, non si sarebbero mai dissipate nel vuoto, non sarebbero state uccise dal
silenzio. Avrebbero risuonato per sempre nell’aria, nella purezza e nella
perfezione della luce, in quell’aria increspata appena come un mare calmo dalle
onde sonore della chitarra di Tom. Esse avrebbero vibrato per sempre nei corpi
attraversati dal blues, come un balsamo che lenisce le ferite e rende
sopportabili anche le fatiche più dure. Questo la gente lo sapeva e per questo,
continuava a tacere.
Tom Hancock scese in strada per suonare molte altre
volte e molte altre volte ancora soggiogò il suo pubblico in quel modo gentile
e profondo. Ogni volta la folla aumentava e i poliziotti spesso dovevano
disperdere quegli assembramenti non autorizzati. Ma lo facevano solo quando la
musica era finita. Anche loro restavano assorti ad ascoltare. Quella musica non
poteva essere interrotta, era qualcosa di sacro e profano al tempo stesso,
bianco e nero, vita e morte, salvezza e dannazione. Era maestosa e dimessa,
solenne e dolce. Era come se promanasse da tutta l’umanità, come se il mondo intero
danzasse a ritmo di blues. A volte, qualcuno tra il pubblico non riusciva a
trattenere le lacrime.
A Tom piaceva quel contatto profondo con la gente,
fatto di parole non dette e di sguardi non ricambiati, perché era intenso e
violento, acuto e lancinante come una coltellata, sebbene preferisse non andare
oltre certi limiti. Non gli piaceva mescolarsi alla folla e quando si accingeva
a suonare, faceva in modo che vi fosse sempre uno spazio vuoto e sgombro, quasi
una zona d’ombra, fra lui e gli altri. La gente si disponeva in cerchio intorno
a lui, rimanendo a debita distanza, si attestava spontaneamente ai margini di
una immaginaria linea di confine, sufficiente a rispettare il suo tacito
imperativo, che pretendeva assenza di contatti diretti.
Al termine dei concerti Tom si sentiva sfinito, svuotato
e prosciugato come al termine dell’amore. Ma non riusciva ad abbandonarsi completamente
in nome dell’amore che provava per quelle persone, a offrirsi, inerme e
indifeso, a quegli sguardi indiscreti che lo sezionavano, che penetravano fin nel
profondo del suo essere. Non era in grado di sostenerli quegli sguardi, si
sentiva nudo sotto la danza di centinaia d’occhi, spiato e osservato quasi
fosse un animale raro rinchiuso in una scatola di vetro, esposto, traboccante
d’imbarazzo, al pubblico ludibrio. Non era capace di parlare a quella gente,
anche se desiderava molto farlo. Le parole che avrebbe voluto pronunciare gli si
bloccavano in gola. Non era in grado di instaurare alcuna comunicazione
diretta. Sapeva solo suonare il blues. Ma quando la musica finiva, lui restava a
testa bassa, senza avere il coraggio di sollevare il capo e incontrare quegli
occhi. Rimaneva immobile e solo, incapace di uscire dal cerchio magico
disegnato dalla folla.
Al termine della musica, restava irrimediabilmente
solo.
A Tom tutto questo non bastava, voleva di più, voleva
attraversare quella zona d’ombra ancorata ai suoi piedi, tra sé e la gente, desiderava
spezzare il cerchio delle ombre, irrompere al di là della muraglia dei corpi
degli spettatori, devastare quell’agorafobia asfissiante per sfuggire al
tormento di una clausura rigida e deliberata. Non sapeva neppure lui dire con
certezza cosa desiderasse, tuttavia, era sicuro che quella cosa nessuno avrebbe
potuto dargliela. A parte, forse qualcuno.
Anzi, solo uno avrebbe potuto.
Una sera, mentre suonava, aveva notato una figura tra
il pubblico fissarlo intensamente, una persona mai vista prima. Tom non
riusciva a vederla con chiarezza, poiché si trovava nel diaframma d’ombra fra
un lampione e l’altro, ma era rimasto ugualmente colpito dall’intensità di
quelle occhiate penetranti. Aveva subito abbassato gli occhi, ma avvertiva
ugualmente la spiacevole sensazione di essere come traversato da parte a parte,
nel corpo e nella mente, da quello sguardo magnetico, inevitabile, ammaliatore,
mentre armeggiava con il suo strumento. Poco prima di distogliere lo sguardo,
aveva notato che quello sconosciuto aveva gli occhi pieni di lacrime, ma, cosa
che gli era parsa molto strana, neppure una cadeva sul suo viso. Al termine di quell’improvvisato
concerto, quella persona, che alla luce dei lampioni si era rivelata essere un
signore molto distinto, si asciugò una lacrima sul bordo della palpebra e si avvicinò.
“Ti ho ascoltato con attenzione Tom Hancock” esordì “Suoni
molto bene”
“Grazie” rispose Tom alle sue scarpe, alquanto stupito
per il fatto che conoscesse il suo nome.
“Suoni con l’anima. Davvero” proseguì quel signore
elegante “Si percepisce in ogni nota, in ogni accordo, in ogni pausa. E’ molto bella
la tua anima, amico mio”
Fece una breve pausa, come per trovare le parole
adatte.
“Io posso farti suonare ovunque, Tom. Posso farti
incidere dischi, farti diventare famoso” proseguì “Posso darti tutto quello che
vuoi, io posso farti entrare negli occhi e nel cuore della gente, se tu suoni e
dai l’anima, la tua grande anima, come facevi prima”
Tom finalmente lo guardò negli occhi – aveva occhi strani,
chiarissimi e trasparenti come acquamarina - e annuì con un movimento appena
percettibile del capo. Bastò questo e il signore distinto e vestito di nero lo
fece salire sulla sua auto e lo portò lontano dalla folla.
Si fermarono poco dopo, al centro di un incrocio
deserto. Arrestò il motore. Era una bella notte, silenziosa e piena di stelle.
Chi era quel misterioso personaggio? Si chiese. Un
millantatore, un venditore di fumo? Oppure, con tutta probabilità, un povero
mentecatto fuggito da uno dei tanti manicomi della zona? O, più semplicemente, uno
che sapeva il fatto suo? Quest’ultima domanda gli diede i brividi, perché non sapeva
quale potesse essere il fatto suo.
Il signore elegante e con il cappello in testa lo
guardò “Tutto quello che devi fare è firmare il contratto” disse “Al resto
penso io”
“Suonare il blues è tutto quello che voglio” disse
Tom.
“Molto bene” rispose il signore distinto e con un
grosso anello al dito “Allora firma qui, qui e qui”
Tom firmò ogni pagina del contratto, poi la copia e
infine, un’altra copia e l’accordo fu concluso.
L’auto ripartì sgommando e lui rimase ritto sul
marciapiedi a fissarla. La scia d’aria calda che si era lasciata dietro gli
carezzò dolcemente il viso. Era una notte stupenda, su di lui le stelle
incombevano con il loro mistero di bellezza.
Tom ebbe un vago presentimento, vide davanti a sé
immagini confuse, urla, gente disperata, volti orribili che digrignavano i
denti, immersi nella profondità di notti eterne.
Ripensò al misterioso personaggio. Non riusciva
neppure a ricordare il suo volto. Qualcosa non andava, certe cose non capitano
per caso. La notte era immobile, l’aria calma pareva l’avesse ingoiato col suo
carico di misteri. Non aveva neppure una copia del contratto, nessuna prova che
l’incontro fosse realmente avvenuto, non c’erano neppure tracce di pneumatici, la
strada sterrata era intatta. Chiamò a testimonio le stelle e il vento del
deserto e gli alberi immobili. Non risposero. Si sentì estraneo, assente, separato
dal mondo e dalla vita, come se la natura stessa si rifiutasse di avere a che
fare con quel distinto signore. Era svanito, inghiottito dalle viscere della
terra. Per quanto ne sapesse, non era mai esistito.
Ma ormai era tardi e il contratto era stato firmato.
Tom era partito e la città era diventata
all’improvviso più silenziosa.
Gli anni passavano, veloci come auto sportive in
corsa su un’autostrada qualunque all’ora del tramonto, anni gravidi di folle
adulanti, di vino, donne e canzoni, anni di lussuria sfrenata di musica e di vita,
anni di luce, di stelle e denaro e le donne andavano e venivano come le onde
del mare e per una che andava, ce n’era sempre una che tornava e su tutto
questo c’era il blues, c’era soltanto il blues a imperare sovrano sulla sua
vita e sulla sua anima.
La sua musica aveva girato il mondo e gli aveva
fatto girare il mondo. Faceva quello che aveva sempre voluto fare: suonare il
blues in giro per il mondo e il blues aveva suonato in giro per il mondo. Il
suo nome era conosciuto ovunque e ovunque c’era una casa, una chiesa, una
camera d’albergo, una cella di prigione, un angolo di bar in cui qualcuno stava
ascoltando uno dei suoi dischi.
Tom cresceva, maturava, fioriva e si faceva uomo in
quel marasma, ma ben presto si stancò di tutto questo. Era annoiato a morte dalla
gente, da quelle persone tutte uguali che gli chiedevano l’autografo, che gli
facevano sempre le stesse domande, che battevano le mani tutte allo stesso modo
al termine dei concerti, gli pareva che avessero perfino tutte la stessa
faccia. A Tom interessava il blues e al blues interessava Tom, così decise che
quella gente, quelle donne, quelle facce, quelle luci, quei soldi e quegli anni
che avevano girato così vorticosamente intorno a lui come uragani furiosi,
mentre se ne stava calmo e tranquillo nell’occhio del suo ciclone personale,
non c’entravano niente con il blues. Piantò tutto e tutti e se ne andò, insieme
alla sua chitarra.
Tom era tornato e la città era diventata
all’improvviso più vecchia.
Girò per le sue strade deserte, passò sotto i
caseggiati familiari e sotto quelli dimenticati – una volta aveva amici, ora
non aveva più nessuno - e raggiunse la strada principale. Alle cinque del
mattino, al centro della città, c’era solo il rumore del vento.
Il blues scorreva lento e inarrestabile attraverso
la chitarra, come un fiume dalle mille anse che si rigenera dopo ogni meandro.
Tutto nasce dal blues, tutto torna nel blues, meditava il barista, mentre ascoltava
assorto la canzone del ritorno di Tom Hancock e guardava le sue dita creare
veloci fraseggi sulle corde, come uno sciamano che chiamasse gli angeli a
danzare sulla tastiera della chitarra, solo per farli scacciare subito dopo da
mostruosi sabba infernali, evocati dalla sei corde. Il blues è la lotta fra il
bene e il male. Angeli e demoni danzavano nelle tenebre alle sue spalle e Tom
cercava d’ingraziarsi gli uni e di esorcizzare gli altri.
Appollaiato sul suo sgabello, in quel bar polveroso
e dimenticato anche dalla polizia, Tom Hancock suonava come un dio precipitato
sulla terra per i pochi clienti presenti, pidocchiosi alcolizzati, cacciati a
calci in culo da tutti gli altri locali della città. Si schiarì la voce e
cominciò il canto.
La canzone parlava di un uomo piantato dalla sua donna,
che bussava alla porta della casa di lei, ma nessuno veniva ad aprire. Il blues
nacque quando Adamo ed Eva si videro per la prima volta, diceva John. E’ sempre
la solita storia: un uomo, una donna, un cuore spezzato. Così diceva John Lee
Hooker e sapeva di dire la verità.
La voce di Tom intonava la malinconia e il rimpianto,
evocava l’amore trovato e perduto e mentre cantava era il ragazzo della
canzone, il protagonista dal cuore spezzato. Attraverso la sua voce filtrava
tutto il dolore del mondo.
Una donna si fece largo tra il pubblico e andò a
sedersi sullo sgabello più vicino al bancone del bar. Accavallò con voluta
lentezza le gambe e inarcò la schiena. Era una donna che sapeva di essere
donna.
Tom non si voltò e continuò a suonare. Ora la sua
voce esprimeva rabbia e sconforto, il ragazzo abbandonato prendeva a calci un
barattolo e malediceva il proprio destino. La donna ascoltava rapita, si teneva
il viso tra le mani, i gomiti appoggiati al bancone, le gambe accavallate.
Nessun altro tra il pubblico presente era così attento alla musica. Erano quasi
tutti ubriachi. I suoi occhi si riempirono di lacrime.
La canzone ebbe termine. La donna si asciugò
velocemente una lacrima e si avvicinò.
“E’ molto bello quello che hai suonato”
Tom la guardò e non disse nulla. Era bella come un
peccato, non aveva mai visto prima una bellezza simile, eppure aveva conosciuto
molte donne.
“Hai scritto tu la canzone?” chiese “E’ così bella,
mi sono commossa, sai?”
“Si, è mia la canzone” rispose Tom. La donna aveva
occhi così chiari e trasparenti, che gli parve di guardare il cielo dalla parte
sbagliata. Ma c’era qualcosa in quegli occhi, qualcosa di indecifrabile e
oscuro. Tom distolse lo sguardo. Poi, aggiunse un grazie.
“Sei tu il ragazzo della canzone?” chiese ancora la
donna.
“Può darsi”
“Vorrei tanto essere io la donna della canzone” disse
quella. Poi aggiunse: “Vorrei esserlo e dirti che sono tornata.”
Uscirono insieme dal bar. Montarono sul veloce
roadster di Tom e sgommarono sulla strada. Mentre correvano via il tettuccio
abbassato permise loro di ammirare la volta della notte, che si estendeva sul
paesaggio come una coperta trapuntata di stelle. Si fermarono nei pressi di un
incrocio deserto. Un’altra notte, un altro incrocio, un’altra vita balenarono
fugaci fra i ricordi di Tom.
La donna gli accarezzò i capelli e lo attirò a se.
Il suo corpo era morbido e caldo, i suoi capelli profumavano di fiori di campo.
La donna lo baciò. Lo strinse tra le braccia. Ma a
Tom parve che quelle braccia lo cingessero con vigore eccessivo, quasi fuori
misura per una donna. La sua mano trovò subito la sua carne viva, liscia come
seta. Lei era nuda, morbida, piena, calda di miele. Il desiderio era una
domanda silenziosa che urlava nel suo cervello. Si proiettarono in un vortice,
in un turbine di vento e di fiamme. Poi esplosero insieme in schegge di stelle.
La donna lo guardava intensamente negli occhi, con
quegli occhi che ora parevano verdi come il mare, come l’erba delle praterie,
come i riflessi di uno smeraldo.
Tom li trovava bellissimi, eppure c’era qualcosa in
quegli occhi, qualcosa che non riusciva a decifrare, ma che era al tempo stesso
familiare e oscuro, qualcosa da cui stare alla larga, ma che lo attirava come
una fiamma attira la falena, disposta a sacrificare la sua breve vita, a
divampare come una meteora per un breve istante, pur di potersi solo
avvicinare, sfiorare soltanto la bellezza delle fiamme.
“Ti ricordi di me, Tom?” chiese la donna.
“No” rispose Tom.
“Davvero non ti ricordi?” insisté la donna “Hai
firmato un contratto, dovresti ricordartene, anche se è passato un po’ di tempo”
Tom ristette incerto.
“Guarda meglio” ingiunse la donna e spalancò gli
occhi.
Egli guardò nuovamente in quegli occhi. Erano
grandi, vasti come lune gemelle, satelliti di un pianeta sconosciuto. Erano
belli. Ma qualcosa si agitava nella loro profondità come un riflesso in fondo a
un pozzo, qualcosa si nascondeva oltre la verde cortina delle iridi. Qualcosa
di strano e oscuro. Tom aguzzò lo sguardo, si sforzò di scrutare in fondo a quegli
occhi misteriosi e finalmente vide.
E vide quello che non voleva vedere.
Oltre il verde smeraldo, attraverso le pupille nere
come il carbone, nel fitto reticolo di sangue in fondo alle retine, Tom vide
quel luogo il cui nome è misterioso e impronunciabile, vide il regno di Geenna,
l’abisso della disperazione e del dolore, la bolgia oscura del tormento e della
perdizione, l’orgia assetata di sangue, l’orrendo sabba dei lemuri. Vide
l’oscurità. Vide il regno delle fiamme.
Fu allora che Tom comprese. Comprese chi fosse
davvero quella donna e che era giunta l’ora di saldare un vecchio debito.
La donna tirò fuori alcuni fogli dalla borsetta e
glieli sventolò sotto il naso. Tom sfogliò quelle pagine ingiallite dal tempo e
riconobbe la sua firma. Aveva scritto il suo nome sotto ogni pagina con
inchiostro scuro, che alla luce della luna si era acceso di rosso scarlatto, il
colore del sangue. Erano tre copie del contratto, ciascuna di sei pagine. Aveva
firmato tre volte sei, il numero della bestia.
Non ebbe paura, non cercò di fuggire. Una strana
calma si era impadronita delle sue membra. Si sentì solo, distante dal mondo,
lontano dal suo pubblico, dalla gente. Sapeva che nessuno avrebbe potuto
aiutarlo. Neppure Dio. Si rese conto in quell’istante che il Signore di tutte
le cose, il Padre di tutti gli esseri, soffriva della sua stessa solitudine.
La donna lo strinse più forte fra le braccia, come
un’amante troppo focosa e passionale. Tom tentò di divincolarsi, ma la stretta
era più forte di una morsa e più si dibatteva e cercava di divincolarsi, più si
accorgeva che le sue forze venivano meno, si indeboliva a ogni tentativo. Quegli
occhi terribili lo fissavano e lui ne era affascinato. Quegli occhi lo
ipnotizzavano, come fa il cobra con la vittima, prima di morderla. La bocca
della donna si attaccò alla sua e sentì quelle labbra infuocate, la lingua in
fiamme, la saliva rovente e il fiato, caldo come il vento del deserto,
arroventato dal sole e dimenticato dalla pioggia. Quel respiro che non era
respiro, che avrebbe ucciso in miserabili frazioni di secondo milioni di esseri
umani, sembrava provenire dalle viscere della terra come un orribile miasma rigurgitato
dalle profondità nascoste. Quella donna risucchiava il suo respiro, lo lasciava
senza fiato, come quando, poco prima, ne aveva ammirato l’eccezionale bellezza.
Respirare era impossibile, i fluidi corporei si prosciugavano in lui come fiumi
in secca, la pelle inaridiva. Tom restituiva l’anima e la deponeva nel calice
prezioso, tempestato di rubini e avorio, che era la bocca di quella donna.
La bocca dell’inferno.
Tom si afflosciò, come un palloncino sgonfio e
ricadde su sè stesso. Fu come cadere all’indietro, precipitare all’interno di
sè, in un pozzo senza fondo.
Tom Hancock chiuse gli occhi per sempre.
La donna svanì. E il signore dell’ombra, che era
sorto dalle profondità spaventose della terra per incarnarsi in quel corpo splendente
di femmina, comparve al suo posto in tutta la sua maestà e tristezza infinita. Vestito
di nero, con il cappello in testa e il grosso anello al dito, era proprio quel
signore elegante e distinto di tanti anni prima venuto a riscuotere il suo
credito e la sua figura malinconica e imponente ristette immobile ed eterna presso
il corpo del musicista.
Ma non pronunciò quella volta parole terribili, non
velò i suoi occhi d’odio, non stillò gocce di veleno dal cuore e non annullò il
suo ricordo. Gli accarezzò i capelli per l’ultima volta, si asciugò una lacrima
e sorrise dolcemente.
“Suonavi proprio bene Tom”
Attese che le sue parole si spegnessero nel silenzio
effimero, ineffabile che ricopriva tutte le cose con il suo manto d’ombra. Poi
volse le spalle e come avrebbe fatto chiunque altro si perse nella notte.
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