Tutto è inganno e illusione a San Pietroburgo. Il colore opaco e traslucido del giorno che muore, la luce scialba delle notti bianche, quando il sole non tramonta mai e i veri russi si ritirano nelle dacie e cielo, terra e mare sembrano fondersi in una massa di colore indefinito.
Tutto questo contribuiva a fare della città un luogo impalpabile e irreale. Almeno agli occhi di Margherita, che conservava ancora sulla pelle il ricordo di dolci estati italiane, sebbene avesse lasciato la terra d’origine da più di un anno. Margherita rimpiangeva i colori vividi e solari del meridione. San Pietroburgo era, al confronto, solo una vecchia foto ingiallita dal tempo, in quello scorcio d’inizio secolo, una città pervasa dalla luce pallida e incerta delle lunghe giornate estive, che si rifletteva nell’incarnato spento dei volti.
Gli occhi di Margherita vagavano sulla gente, sui palazzi cittadini, sulle strade, sui lampioni di Corso Neva. Girava la città insieme ai suoi fratelli, nel tentativo di raggranellare dei copechi, allietando con dolci melodie gli angoli delle strade. Mentre la mente si perdeva lontano, dietro alle note, i suoi occhi si posavano a volte sul viso accuratamente rasato e ben pasciuto di un funzionario del ministero, o su quello sporco e levigato dalle aspre fatiche di un pescatore, o ancora, sulle gote pallide e delicate di una ragazza. Allora, lo sguardo trasparente di Margherita si velava di malinconia e un fremito, interiore e inarrestabile, s’impadroniva delle sue membra.
“Che città è mai questa?” si chiedeva “E chi sono questi suoi abitanti che paiono vagare come fantasmi per le sue strade affollate?”
Alla fine della giornata, quando l’oscurità prendeva il sopravvento sulle vicende umane e su Corso Neva passeggiava solo il vento, i fratelli riponevano gli strumenti musicali e tornavano a casa. Abitavano tutti e quattro una fredda stanza presa in affitto per pochi spiccioli al mese, nel quartiere della Kolòmna, dove era piuttosto difficile incontrare passanti per strada e, ancora più raro, incontrare carrozze che sferragliassero per le sue vie sporche e sconnesse. Era il quartiere dei disperati, degli artisti e dei sognatori, di gente la cui unica ricchezza era la speranza e di gente che le speranze le aveva irrimediabilmente perdute.
Margherita e i suoi fratelli avevano lasciato l’Italia per sfuggire ai morsi della fame e, vagando per l’Europa, erano approdati a San Pietroburgo, la capitale del Nord, alla fine di quel triste 1905. Le melodie che riuscivano a trarre dagli strumenti durante i loro concerti improvvisati attiravano i passanti, che, stretti nei loro cappotti, dapprima con curiosità e poi sempre più avvinti e conquistati dalla musica, restavano ad ascoltare quei suoni così insoliti per le loro latitudini e ad osservare quei volti meridionali che provenivano dalla bella Italia. Tutti restavano colpiti dalla bellezza di Margherita e indugiavano presso i suonatori, senza risolversi a passare oltre e lasciavano sempre un’offerta: pochi spiccioli, un tozzo di pane, un pezzo di formaggio.
Quello che riuscivano a guadagnare con il loro mestiere di suonatori ambulanti, non permetteva loro altro che il rifugio di un misero tetto sulla testa alla Kolòmna e giusto quel tanto per non morire d’inedia. I mesi migliori erano certamente quelli estivi, ma anche in primavera, quando sopraggiungeva il disgelo e la temperatura meno rigida invogliava i pietroburghesi a indugiare per le strade della città, le offerte erano soddisfacenti.
Ma, durante il lungo inverno russo, diventava più difficile trarre suoni dagli strumenti gelati, con le dita rattrappite dal freddo, e sempre meno i passanti si soffermavano ad ascoltare la loro musica. I copechi diminuivano drasticamente e i quattro ragazzi non potevano far altro che tornare mestamente alla fredda stanza nel quartiere desolato, cantando canzoni d’amore per non sentire l’ululato della fame.
Dinanzi all’uscio dei fratelli italiani si trovava l’abitazione di un pittore. Il suo nome era Evgenji Romànic Dmitròv. La stanza che abitava era misera e fredda come le altre; tuttavia, era l’abitazione di un artista e si distingueva per la particolare cura nella scelta della foggia e dei colori dei vecchi mobili che costituivano l’arredamento di casa.
La stanza era divisa in due zone: vi era una sorta di anticamera, sulla quale dava la porta d’ingresso, in cui si trovavano un tavolino a tre gambe e due sedie e lo studio vero e proprio del pittore, dove una confusione incredibile di tele, sculture, schizzi, disegni e macchie di colore davano una sensazione di luminosità, che certamente non proveniva dall’unica piccola finestra della stanza. Lungo un muro era addossato un vecchio divano di tela, dal colore ormai sbiadito e indecifrabile, che serviva da letto all’artista. Dalla parte opposta vi era un altro tavolino con sedie, sulle quali giacevano alcuni vestiti e sul tavolino stesso, avanzi di cibo, dei piatti, un bicchiere, della vodka in una bottiglia e un samovàr. Al centro dello studio v’era un cavalletto con una tela incompiuta, coperta da un panno di stoffa pesante, mentre le pareti erano letteralmente incastonate di dipinti con i soggetti più disparati. Uno rappresentava una vecchia vestita di nero, con lo sguardo perso nel vuoto. Un altro riprendeva uno scorcio del quartiere tedesco. Tutt’intorno, pennelli, pezzi di tela, una mano di gesso, la testa di una divinità greca in creta, fogli con schizzi e chiaroscuri, acqueforti.
Dmitròv era morbosamente attratto dall’arte italiana. Ammirava, in particolar modo, i pittori del rinascimento e, non potendo permettersi un viaggio in Italia, doveva accontentarsi di studiare le riproduzioni che riusciva a procurarsi a poco prezzo in una bottega d’arte, nascoste tra anticaglie polverose e cianfrusaglie invendute. Sospesa sul suo divano stava una copia di un ritratto di donna del Tiziano.
Si trattava di Flora e rappresentava una fanciulla dalla fluente chioma, in procinto delle nozze e in atteggiamento alquanto discinto, con la mano destra a sorreggere un mazzolino di bianchi fiori primaverili e la sinistra con le dita a forbice, a simboleggiare il taglio del cinto virginale. Era l’opera più amata da Dmitròv. Non trascorreva giorno che non si fermasse a meditare sulla bellezza intrigante e delicata della fanciulla ritratta, sulla languidità dello sguardo sognante e colmo di visioni nascoste ad altri occhi, sulla purezza e sulla perfezione del volto candido.
Un giorno, Dmitròv incontrò Margherita. La vide uscire per le strade della Kolòmna, ben avvolta in uno scialle di lana nera e rientrare, subito dopo, con una brocca di latte. Un colpo di vento ne scostò un lembo dal suo volto. Fu solo un breve istante, Margherita si ricompose subito, ma fu sufficiente ad aprire innanzi a Dmitròv universi inesplorati e senza confini. Il pittore comprese immediatamente che aveva trovato il soggetto ideale della sua arte, l’essere terreno che avrebbe potuto aprirgli le porte di Urano. La bellezza di Margherita gli parlava di verdi colline lontane e dell’oro dei campi di grano, del sole caldo a primavera e del mare azzurro e placido. Sul suo volto vedeva riprodotta la pennellata ferma e decisa del Tiziano e il tocco lieve ed indefinito del Giorgione. Dmitròv si riscosse e capì di essere rimasto per un tempo indefinito a bocca aperta. Tentò di parlare alla ragazza italiana, ma nessun suono fu prodotto dalla sua voce. Cercò, allora, di seguirla, ma Margherita era già scomparsa.
Il pittore non riposò quella notte e il giorno successivo, di buon mattino, s’installò sul pianerottolo, deciso a rivedere la ragazza. Era ossessionato dalla visione fugace del giorno innanzi. La sua notte era stata popolata da sogni febbrili e irraggiungibili. Aveva sognato di dipingere invano per tutta la vita e solo da vecchio era riuscito a creare un capolavoro degno del Tiziano, ma, divenuto cieco, non aveva potuto godere della sua stessa arte. Tuttavia, la fredda e grigia luce del mattino aveva allontanato con forza quelle visioni e infuso la fede degli artisti nel pittore.
Finalmente, Margherita comparve. Il pittore non seppe, in seguito, spiegarsi come ciò avvenne, né come fosse riuscito a parlarle e di quali argomenti. Ogni volta che ripensava a quell’episodio, la sua mente gli rimandava la desolante sensazione di essere travolto da un fiume in piena e di annaspare per non affogare miseramente. Forse le parlò della sua infatuazione per l’Italia lontana e irraggiungibile, forse le descrisse i dolci paesaggi della penisola, che aveva visitato solo nei sogni e probabilmente, questo bastò per catture la sua anima e velarle gli occhi di nostalgia. La ragazza accettò di essere ritratta da Dmitròv e si convenne anche l’ora ed il giorno della prima seduta, alla quale Margherita si recò all’insaputa dei fratelli, ai quali non voleva far sapere nulla, temendo che potessero trovarlo sconveniente.
La bellezza di Margherita era splendente e cristallina. Dmitròv osservava sorpreso e stupito come il clima pietroburghese non avesse in nulla scalfito il suo volto, né offuscato il suo incarnato meridionale. L’atteggiamento e la postura della ragazza erano del tutto naturali, qualsiasi altra modella si sarebbe sforzata di imitare la posa della fanciulla sospesa sopra il divano del pittore. Invece, Margherita era semplicemente Flora e Flora era semplicemente Margherita. Nulla poteva turbare tale equazione. Più il lavoro procedeva, tanto più il pittore si stupiva della dolcezza e dell’incanto che fluivano dal volto che stava fiorendo sulla tela e giunse perfino a dubitare che fosse opera delle sue stesse mani e degli strumenti dell’arte sua.
Un giorno Dmitròv sentì il bisogno di saperne di più sul suo soggetto, di indagare sulla dolcezza interiore e sulla malinconia di cui era pervaso quel volto studiato e ristudiato all’infinito e che trasparivano nitide e intatte tra le pennellate del ritratto. Quel giorno i pennelli rimasero asciutti e il pittore condusse la ragazza per le strade più belle della città, attraverso i quartieri signorili, ai palazzi del lusso e del potere, alle residenze della ricchezza e della vanità. Il pittore le mostrò le bellezze e le miserie della sua città e la città si mostrava poco a poco, indolente e viziosa, lasciando cadere lentamente i suoi veli solo dinanzi al visitatore attento e paziente. Alla fine della giornata si ritrovarono, stanchi, affamati e infreddoliti, alla Fontanka, ma il pittore aveva ricavato molto da quella lunga giornata di vagabondaggio. Ora le visioni velate di malinconia dell’Italia lontana erano anche le sue, ora anche il suo cuore era riscaldato dal dolce tepore del sole d’Italia e con una nuova consapevolezza si accinse a proseguire il suo lavoro. Ora le sue pennellate non sarebbero più state il tocco freddo e analitico di un artista d’avanguardia, ma quello ricco e pastoso di un pittore rinascimentale italiano.
Le sedute continuavano e il ritratto acquistava sempre più forza e rinnovato vigore. Ad ogni nuova pennellata vibrava e brillava di una luce intensa, quasi vivesse di vita propria, una vita che palpitava nascosta tra le fibre della tela. Margherita, al contrario, appariva diversa. Ogni giorno che passava portava via qualcosa alla sua bellezza, come una vaga pennellata di nero che si stendesse sul suo volto, velandolo di scuro. L’incarnato luminoso del volto aveva ceduto il passo a un pallore morboso, la luce turchese degli occhi appariva ora come offuscata da una nube temporalesca. La ragazza era distratta, svogliata e indifferente. Non mostrava più interesse al lavoro del pittore, ma la cosa che impensieriva di più Dmitrov era che Margherita sembrava aver perso la forza interiore che egli aveva riprodotto fedelmente nel ritratto che si andava compiendo sulla tela. Il volto dipinto acquistava ogni giorno nuova forza e nuova luce, come se le risucchiasse dall’originale e lo svuotasse di ogni energia. Il simulacro stava inspiegabilmente prendendo il posto del suo archetipo e Margherita sfioriva. Lentamente, in forma appena percettibile, ma senza dubbio appassiva davanti agli occhi del pittore, come un fiore privato della luce del sole.
Dmitròv diventava sempre più inquieto. Non comprendeva quanto si stava dipanando dinanzi ai suoi occhi. Il ritratto prosciugava Margherita, come se la ragazza, nel posare, avesse distesa la propria anima sulla tela e l’avesse lasciata ad asciugare come un colore a olio.
Un giorno Margherita non si presentò alla seduta quotidiana. L’assenza si protrasse per alcuni giorni, i giorni divennero settimane e Dmitròv scoprì finalmente la verità. Un terribile morbo, sottile e invincibile, si era impossessato della ragazza. La tisi avanzava inesorabile nella sua opera di sfacelo e consunzione. Era bastato, forse un colpo di freddo, una ventata gelida e rapida come uno schiaffo su quel corpo già debilitato dallo scarso e cattivo cibo, sulla sua anima tormentata dal desiderio di ritornare all’Italia lontana, arsa dalla febbre d’amore per la dolce e indimenticata patria, a scatenare la malattia.
Il pittore ebbe il permesso di vedere Margherita. Entrò in un piccolo quartiere spoglio, ma pulito e in ordine. Sulle prime, non riuscì a vedere nulla nella penombra in cui era immersa la stanza. Ma dopo alcuni minuti i suoi occhi si abituarono e per l’artista, per il sognatore e per l’uomo votato all’ideale, quale egli era, l’immagine che essi misero a fuoco rappresentò la fine di un mondo perfetto e sublime.
Margherita giaceva a letto, il suo volto era pallido e incavato. La bellezza era svanita senza lasciare traccia, ormai più nulla lasciava presagire la nobiltà dei lineamenti di quel viso. Dmitròv provò un dolore profondo e immenso al centro del petto, un malessere fisico e immateriale allo stesso tempo ed ebbe la chiara sensazione che si fosse compiuto un sacrilegio, che un dio indifferente e meschino avesse lasciato annientare e cancellare dal mondo la bellezza dolce e delicata di Margherita.
La ragazza non aprì gli occhi, non mutò posizione, non fece mostra di essersi accorta della presenza del pittore. Perfino l’atto del respiro era quasi impercettibile e il petto si sollevava appena con terribile sforzo. Dmitròv passò la serata accanto a quel piccolo letto di ferro, nella speranza che la ragazza si riavesse e gli parlasse. La notte gelida e ventosa volse al termine, ma il pittore era ancora là, immobile al capezzale della malata.
La luce scialba del mattino illuminò fiocamente la stanza. Fu proprio in quell’istante che Margherita aprì gli occhi. Il suo sguardo vagò sugli oggetti, sulle persone presenti, andò al pittore e alla fine si arrestò alla finestra. In quel momento, il sole sbucando tra gli spiragli di una nube che lo celava, inviò un caldo raggio che inondò di luce il viso e il letto della ragazza. I lineamenti del volto si distesero e nuova vita sembrò fluire nell’azzurro incantato dei suoi occhi. Ma fu solo un misero istante, appena una fugace illusione di un cielo terso e azzurro e poi, più nulla.
Il pittore giurò per molto tempo ancora di avere visto un timido e delicato sorriso su quel volto.
Margherita fu sepolta all’Ochtà, nella fossa dei poveri. I suoi fratelli rimasero a San Pietroburgo quel lungo inverno, ma in primavera partirono per non farvi mai più ritorno. Forse si diressero in America, forse tornarono in Italia, oppure, più semplicemente, si persero per strada, vagabondando senza una meta. Dmitròv, invece, restò nella sua città, ma non fu più capace di dipingere. Le tele che nascevano dalle sue pennellate, in confronto al ritratto di Margherita, non era che il lontano ricordo di un’arte ormai sbiadita e priva di vita.
Se il destino degli scrittori è di essere letti dopo la morte e quello dei musicisti di vedere ingiallire e ammuffire nel nulla i loro spartiti, quello dei pittori è di essere dimenticati nelle sale polverose di una pinacoteca, ma il destino di Dmitròv fu di non poter essere mai più un pittore.
Eppure, il ritratto di Margherita continuò a palpitare di vita propria per molti, molti anni ancora nella città di San Pietroburgo.
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