- Una
notte buia e tempestosa
Era
una notte buia e tempestosa. I fulmini solcavano il cielo nero illuminandolo a
giorno. Procedevo incerto, lo schianto del tuono mi faceva ogni volta
sussultare; non ero sicuro della strada. La pioggia sferzava il parabrezza, i
tergicristalli cigolavano, liberando per un momento la superficie di vetro,
fino a quando non vi si rovesciava un’altra poderosa secchiata.
Un
lampo mi abbagliò e illuminò la strada e i palazzi. Frenai di colpo. Avevo
visto un cartello, con su scritto: Vittorio
Battaglini, e più sotto, Ospedale
Psichiatrico Giudiziario. Ero arrivato.
Era
il mio nuovo lavoro, a dir la verità, era il mio primo lavoro dopo la laurea in
medicina e la specializzazione, non avevo trovato di meglio.
“Sono
il dottor Mantovani, il professor Inghirami mi sta aspettando.”
Il
portiere trasalì – qualcuno giungeva dall’infida notte, qualcuno giungeva da
lontano, inzuppato di pioggia come un mendicante e invece era un dottore in
carne e ossa, seppure al suo primo incarico retribuito – e mi guardò come uno
che non ha capito niente, poi si riprese.
“Già,
la sta aspettando da un pezzo. Da stamattina, per la precisione.”
“Ho
avuto un contrattempo, mi dispiace.”
“Un
contrattempo piuttosto lungo, a quanto pare. Mi segua.”
Mi
condusse per corridoi verdi che sapevano di acido fenico e cloroformio, le
suole bagnate delle mie scarpe cigolavano contro il pavimento di linoleum,
alcune plafoniere al neon ronzavano, e si accendevano e spegnevano a
intermittenza.
Ci
fermammo davanti a una porta a vetri, rinforzata da una rete metallica. Il
portiere bussò, una voce profonda disse: “Avanti” ed entrai. Il portinaio era
svanito con una rapidità tale che dubitai che fosse realmente esistito.
Il
professor Inghirami era da molti anni direttore dell’ospedale psichiatrico. Era
un uomo di mezza età, alto e di corporatura massiccia. Radi capelli
s’inerpicavano su una fronte vasta e striata dalle rughe. Le sue labbra
succhiavano avide da una sigaretta infilata in un bocchino di madreperla.
“E
così lei è Mantovani. Ho sentito parlare di lei. Si sieda prego.”
Aprì
un cassetto e tirò fuori due bicchieri e una bottiglietta di whiskey, di quelle
che i nostri genitori collezionavano negli anni settanta. Riempì i bicchieri
fino all’orlo e me ne mise uno sotto il naso.
“Spero
bene.”
Non
attesi la risposta. Infatti, non ci fu alcuna risposta. Vuotai il bicchiere
tutto d’un fiato. Era terribile, mi raschiò la gola e lo stomaco.
Il
professor Inghirami mi scrutò attentamente. Cercai di capire se gli piacessi
oppure no.
“Le
assegnerò la paziente Elena Fusti.” disse dopo un po’.
“Elena
Fusti?”
“Non
ha mai sentito parlare di lei?”
“No.”
“Bene,
allora avrà tutto il tempo per studiare il caso.”
Era
tardi per cercare un albergo, così mi distesi sul lettino delle visite di
quello che sarebbe stato il mio studio. Fuori imperversava ancora il temporale,
non voleva smettere di piovere. Il lettino era stretto e duro, sentivo sotto la
nuca il freddo metallico del telaio. Non riuscivo a dormire, così mi alzai e
andai a cercare la cartella clinica di quella che, a quanto pareva, sarebbe
stata la mia prima paziente.
Andai
a prendere un caffè al distributore automatico, fuori in corridoio sentii urla
che avevano perso ogni caratteristica umana. Mi accomodai alla scrivania,
sorseggiai il caffè e aprii il fascicolo.
Scorsi
in velocità i verbali processuali, le perizie psichiatriche, la sentenza di
condanna. Mi soffermai sui referti medici, sulle anamnesi succedutesi nel
tempo. Tutte si concludevano con una sola parola.
Schizofrenia.
Dalla
cartella caddero alcuni ritagli di giornale che finirono sotto la scrivania. Mi
chinai a raccoglierli.
Lessi
i titoli degli articoli.
Il noto industriale Ettore Malusardi è
stato trovato morto nella sua villa.
E
poi.
Elena Fusti sotto inchiesta per l’omicidio
del marito.
E
ancora.
La Corte d’Assise ha deciso, miss Follia è
colpevole. Riconosciuta l’infermità mentale.
- L’asso
di picche
Mi
svegliai. Era mattina presto. Una luce livida e grigia mi feriva gli occhi, un
triste mattino di marzo faceva il suo ingresso nella mia nuova vita
professionale. Avevo un gran mal di testa. Mi ero addormentato sulla scrivania.
Presi
un altro caffè denso e oleoso al distributore automatico e lo trangugiai d’un
colpo, prima che mi venisse voglia di sputarlo. Una lunga fila di pazienti,
aperta da un robusto infermiere e scortata da molti altri attraversava in quel
momento il corridoio. Mi unii, ultimo della fila, a quella processione che non
aveva alcunché di sacro, facemmo tutto il giro dell’ala sud dell’ospedale e sbucammo
infine in un salone illuminato da ampie vetrate, protette da rugginose
inferriate. La sala era piena di matti, alcuni correvano lungo tutto il
perimetro delle mura, altri strofinavano il viso contro le pareti, altri ancora
strisciavano a terra come vermi. Sembrava un dipinto di Bosch. Non avevo mai
visto tanti pazzi tutti insieme, in verità, non avevo mai visto un folle in
tutta la mia vita, li avevo solo studiati sui libri, e ne rimasi impressionato.
Ben presto si accorsero della mia presenza, ammutolirono e presero ad
avvicinarsi. Mi circondarono in un muro di follia, dalle loro bocche sorse un
mugugno collettivo, una sorta di sordida accusa, rivolta, forse, alla mia
sanità mentale, che mi fece scorrere i brividi lungo la schiena. Mi sentii un
intruso in un mondo di altri. Non riuscivo a sopportare i loro sguardi, come
avrei fatto a curarli?
Sentii
una mano afferrarmi alla collottola e trascinarmi indietro. Ci siamo, pensai,
la mia carriera è già finita. Mi voltai. Era il professor Inghirami.
“Cosa
ci fa qui? Non è questo il suo reparto.” disse con accigliata severità da sotto
i suoi occhiali di metallo.
Mi
lasciai condurre ancora una volta per il corridoio dell’ala sud. Il professor
Inghirami mi lasciò davanti a una porta. Bussai. Mi aprì un’infermiera e mi
fece accomodare.
Era
l’ambulatorio, sarebbe stato quello il teatro in cui avrei mosso i primi passi
della mia carriera medica. Sullo stretto tavolino di ferro giaceva una cartella
consunta. Il nome Elena Fusti forse era stato dattilografato da una persona in
preda alla rabbia, perché le lettere erano quasi incise sul cartoncino e
addirittura il puntino sulla i lo aveva bucato da parte a parte. Aprii il
dossier, ma non feci in tempo a leggere che la porta si apri ed entrò una
giovane donna.
“Ecco
la paziente” disse l’infermiera e richiuse la porta alle sue spalle.
Mi
tolsi gli occhiali e invitai la donna a sedersi. Le posi in rapida successione
alcune domande: il suo nome, innanzitutto e quanti anni avesse, che giorno
fosse e anche l’ora. Rispose senza incertezze, sempre guardandomi negli occhi,
abbassò lo sguardo soltanto dopo aver pronunciato il suo nome, ma tornò a scrutarmi
in attesa delle mie prossime mosse.
Lessi
alcuni fogli nella cartella clinica.
Schizofrenia di tipo paranoide. Il
soggetto riferisce di allucinazioni percettive, soffre di deliri, si evidenzia
una forte disorganizzazione del discorso verbale e del comportamento; alogia,
avolizione, disturbi dell'attenzione e delle capacità intellettive, assenza di
contatto visivo.
Ebbene,
la donna che mi stava di fronte non presentava alcuno di quei sintomi. Sedeva
tranquilla, la testa un po’ inclinata da un lato, le braccia distese e
rilassate, le mani intrecciate sul grembo come a difendere la sua femminilità. Una
postura del tutto naturale. Mi sembrava una persona normale e se l’avessi
incontrata per strada non avrebbe risvegliato la mia curiosità, se non per un
motivo.
Era
bellissima.
Lunghi
capelli neri incorniciavano un viso dalla carnagione molto chiara, illuminato
da due splendidi occhi verdi. Aveva un fisico slanciato, era alta e magra,
tutto il suo corpo dava la sensazione, insieme, della flessuosità e della
morbidezza; il seno, alto e piccolo, fluttuava liberamente sotto la tunica da
manicomio. Era proibito alle pazienti indossare il reggiseno, poteva
trasformarsi facilmente in un mezzo per il suicidio.
O
l’omicidio.
Tirai
fuori una sigaretta dal mio pacchetto stropicciato e gliene offrii una. Lei
accettò di buon grado, avvicinando la bocca alle mie mani che tenevano
l’accendisigari, sentii il calore del suo fiato sul dorso della mano. Emise una
lunga boccata di fumo e mi puntò addosso i suoi grandi occhi verdi.
E
così, avevo di fronte la famigerata Elena Fusti, alias Miss Follia, il suo nome era comparso su tutti i giornali
accanto alla parola “omicidio” e “infermità mentale”. Mi vennero i brividi.
Una
persona che, come dicevo, mi sembrava perfettamente normale. O stava fingendo
di essere sana e ci riusciva maledettamente bene – e questo non poteva che essere
il sintomo che confermava la malattia -, oppure era davvero del tutto sana. Se
era vera questa seconda ipotesi, allora quello non era il suo posto. Ma pensai
anche che se per caso fosse uscita di lì, sarebbe finita dritta dritta dietro
le sbarre a scontare la pena per l’omicidio del marito.
Decisi
di sottoporla al test di Schneider.
Il
test consiste nel mettere sotto il naso del paziente tre carte coperte e
ordinargli di sceglierne una, avvisandolo che qualora estraesse l’asso di
picche verrebbe messo a morte. Una persona normale estrarrebbe la carta, sicura
che la minaccia di morte, nel caso pescasse l’asso, non verrebbe eseguita,
mentre un malato mentale si rifiuterà con tutte le proprie forze di scegliere
fra le tre la carta che potrebbe condurlo alla morte, perché prenderebbe per oro
colato la minaccia pronunciata dal medico.
Allora,
disposi le tre carte dinanzi ad Elena e le chiesi di scegliere. Lei estrasse
una carta senza alcuna incertezza e me la mise sotto il naso. Era un asso di
cuori. Emisi un sospiro di sollievo. Per me quella donna era del tutto sana di
mente. Poi Elena disse: “Per un momento ho temuto che fosse l’asso di picche”.
E mi si gelò il sangue nelle vene.
Qual
era il segreto di Elena Fusti? Cosa nascondevano i suoi occhi? Un segreto che
era meglio non conoscere?
- Grandi
occhi verdi
Quella notte non chiusi occhio.
Avevo sempre davanti a me il volto di Elena Fusti, e i suoi occhi verdi
lampeggiavano nel buio della mia stanza. Era malata o era sana? Era colpevole o
innocente? Alle quattro del mattino mi tirai su dal letto, mi vestii e mi recai
in ospedale. Lì, rinchiuso nel mio studio, alla luce soffusa della lampada da
tavolo, studiai tutti i libri di cui disponevo sulla schizofrenia.
Rigorosi
studi scientifici dimostravano che il test di Schneider non era poi così
infallibile; nel trentatré per cento dei casi si era dimostrato inaffidabile
per dimostrare la presenza della schizofrenia. Riflettei. Trentatré per cento,
come a dire che con una probabilità su tre Elena Fusti poteva essere
schizofrenica, oppure, con due probabilità su tre, poteva essere sana.
Qual era la verità?
La
verità si annidava da qualche parte dentro di lei, dentro Elena, di certo, in
fondo ai suoi occhi.
Alle
otto del mattino conclusi che Elena Fusti era del tutto sana di mente. Fu più
un atto di fede che una convinzione raggiunta con rigore scientifico, più un accertamento
condotto col metodo empirico che con quello scientifico. Se avessi seguito
pedissequamente gli insegnamenti della psichiatria, avrei dovuto dichiarare Elena
Fusti schizofrenica, invece prestai fede alle mie sensazioni personali. E
quelle non si trovano sui libri. Ma in ogni caso, ero convinto.
Povera
creatura, smarrita in un mondo ambiguo, trattenuta a forza in un universo a cui
non apparteneva, incatenata a un posto che non era il suo, avrebbe finito col
perdersi sul serio, con lo smarrire davvero la ragione. Era stata cancellata
via dal quadrante della vita, come un’ora trascorsa, un’ora troppo scomoda e
infelice da ricordare.
Dovevo
tirarla fuori di lì, dovevo liberare quell’essere infelice e restituirla al
sole, alle colline, alla primavera. Dovevo farlo, a qualunque costo.
Da
quel giorno, mi dedicai completamente a lei, trascurando gli altri pazienti e
suscitando le ire del professor Inghirami. Ma io non badai né a lui né al fatto
che avrei potuto perdere quell’incarico precario e mi concentrai sul caso
Fusti. Passavo ore a parlare con lei nel mio studio, la sera, nella mia stanza
d’albergo pensavo a lei e non vedevo l’ora di tornare il mattino dopo in
ospedale per stare con lei.
La
mia continua presenza pareva giovare al suo fisico e al suo umore. L’infermiera
mi disse che aveva ritrovato l’appetito e aggiunse che parlava sempre di me.
Ebbi un tuffo al cuore. Scoprii anche perché il fatto che la tenessi quasi
sempre nel mio studio le facesse bene; i pazienti dell’ospedale psichiatrico
giudiziario sono pressoché degli oggetti scomodi e fastidiosi e sono trattati
abbastanza duramente: modi sgarbati, spintoni, parolacce e, a volte, schiaffi e
calci, sono la norma; le donne, soprattutto quelle carine, subivano abusi da
parte dei dottori, me lo confidò un giorno l’infermiera.
Elena
migliorava giorno dopo giorno e io mi innamoravo di lei, perdutamente. Le
tenevo la mano mentre le parlavo e affondavo sempre più nei suoi grandi occhi
verdi.
- La
verità, nient’altro che la verità
Ero
felice, Elena, grazie alle mie cure e al mio amore, se mai un tempo era stata
malata, era guarita. Ora, non restava che tirarla fuori di lì. Rilessi ancora
una volta le perizie processuali e anche i verbali delle testimonianze e mi
accorsi di due errori madornali, contenuti, rispettivamente, in una delle
perizie psichiatriche dell’accusa e in una dichiarazione di un teste che,
chissà perché, mi erano sfuggiti.
La
verità è sempre dove non si guarda mai: davanti agli occhi. Ecco perché mi era
sfuggita.
A
dir la verità, non erano veri e propri errori, ma punti di debolezza dai quali però
si potevano dipartire preoccupanti fratture nell’intero impianto accusatorio e
farlo scricchiolare paurosamente.
Il
primo di questi, dicevo, era nella perizia. Essa si basava su un’antiquata
teoria, il postulato di Kreutzer-Goldstein, che era stata ampiamente superata
perché non aveva più alcuna evidenza scientifica. Ma perché il perito si era
servito di quella datata teoria? Forse qualcuno aveva interesse a rinchiudere
Elena Fusti in un ospedale psichiatrico giudiziario per tapparle la bocca per
sempre? Non ero in grado di saperlo, l’unica cosa che intuivo, e che mi rendeva
felice oltremisura, era che la perizia psichiatrica sarebbe crollata perché si
aggrappava tutta a quell’assunto; smontato l’assioma, la perizia sarebbe venuta
giù con gran fragore come se a un edificio fosse stata tolta la pietra di
volta.
Il
secondo punto debole stava nella dichiarazione di un teste, Maria Finari, la
donna delle pulizie, che sosteneva che la signora Fusti era in casa alle
diciassette e trenta, ora presunta della morte del marito; ma, a richiesta
della difesa, la Finari non aveva saputo precisare perché fosse così sicura
dell’ora, dal momento che terminava il suo lavoro dai Malusardi sempre alle diciassette
in punto. Inoltre, la stessa Elena mi riferì che l’aveva sorpresa a frugare nel
cassettone dove teneva alcuni suoi gioielli e di aver avuto l’intenzione di
riferirlo al marito per farla licenziare, ma poco dopo il marito era morto. Che
storia! Un buon avvocato si sarebbe infilato mani e piedi in quella crepa,
l’avrebbe allargata e ne avrebbe creato un abisso.
Ma
perché, mi chiesi, questa debolezza nella teoria dell’accusa non era stata
fatta valere dal difensore di Elena Fusti?
Più
tardi venni a sapere che l’avvocato Terry McPherson dello studio
Constant-McPherson, un esperto in diritto societario, era stato ingaggiato da
Edoardo Malusardi, fratello nonché socio in affari del marito di Elena. Messa
fuori gioco lei, giacché non avevano avuto figli, restava lui l’unico erede
delle ingenti sostanze del fratello e, soprattutto, il socio unico della
Malusardi & Malusardi S.p.A., che era poi effettivamente diventata la
Malusardi S.p.A. Elena non aveva mai avuto nulla di suo, tranne la bellezza. E
ora anche questa rischiava di sfiorire, di esserle strappata dal volto con la
violenza di una condanna ingiusta.
- Un
fiume placido
L’attesa
è l’unica forma di felicità concessa all’uomo.
E’
vero, le ore che la separavano dalla liberazione scorrevano lentamente. Era
questione di pochissimi giorni, forse di ore, così aveva detto il nuovo
avvocato di Elena, e avrebbe lasciato definitivamente quel luogo di
disperazione e sofferenza. Erano saltati fuori due testimoni che giuravano di
averla vista altrove nell’ora della morte di suo marito.
Quei
testimoni li avevo pagati io, avevo dato fondo a tutti i miei risparmi - avevo
impegnato l’orologio d’oro dono di laurea, avevo venduto perfino la macchina,
non avevo più niente - pur di comprare la sua libertà. Lo so, non è stato
onesto, ma se non avessi fatto così, dopo che era stata accertata la sua
capacità di intendere e volere con una nuova perizia psichiatrica,
inattaccabile dal punto di vista scientifico, Elena sarebbe finita all’ergastolo,
non c’era uno straccio di prova a suo favore. Ma Elena era innocente, lo
sentivo, i suoi occhi mi imploravano di liberarla, quella creatura così
delicata non poteva avere commesso alcun delitto. Volle parlare ai giudici, fu
convocata in aula e professò la sua innocenza senza paura di fronte alla giuria
e al pubblico ministero, implorò che fosse creduta, giurò che era innocente e chiese
con fermezza la sua libertà. E i suoi grandi occhi verdi, dopo me, convinsero anche
la giuria e i giudici togati.
Il
resto lo fece l’avvocato, parlò da vero principe del foro; minuziosamente passò
in rassegna tutti i particolari del delitto, si accanì con caparbia contro le
più piccole crepe dell’accusa, insinuò il dubbio in ognuno dei giurati, inserì
la lingua nei punti deboli, s’infervorò, s’infuriò, imprecò, implorò, minacciò
e, infine, pregò i giudici e la giuria affinché assolvessero Elena Fusti.
Perché?
Ma perché
era innocente, diamine!
L’arringa
durò tre giorni; al termine erano tutti in lacrime, compreso il pubblico
ministero.
E,
finalmente, Elena Fusti, ex miss Follia, divenne mia moglie.
Il
nostro matrimonio fece tanto clamore che di noi s’interessarono tutti i
telegiornali, le maggiori testate nazionali e perfino la stampa estera; nascosti
fra gli invitati scoprimmo un giornalista americano e addirittura un famoso
scrittore di gialli.
Essendo
stata assolta per non aver commesso il fatto, Elena poté ereditare tutte le
sostanze del defunto marito: case, terreni, un sostanzioso conto in banca,
titoli, obbligazioni e perfino una barca. E per di più Edoardo Malusardi finì
sotto inchiesta per l’omicidio del fratello. La storia di Caino e Abele si
ripeteva ancora una volta.
Ci
aspettava una vita agiata. Io potevo dedicarmi completamente alla ricerca
psichiatrica, non più costretto a turni massacranti nelle corsie o ad accettare
incarichi in lerce strutture ospedaliere. Elena decise di mettere nero su
bianco le sue avventure, ne venne fuori un romanzo, che fu pubblicato e
riscosse un notevole successo. In seguito, furono ceduti i diritti a un
produttore e ne fecero anche un film. I soldi piovevano sui soldi e non avevamo
di che lamentarci.
La
nostra vita insieme scorreva lieve e placida come un immenso fiume.
6. Un’altra notte
buia e tempestosa
Era
una notte buia e tempestosa. I fulmini solcavano il cielo illuminando a giorno
la camera da letto. Le gocce di pioggia tambureggiavano contro la finestra. Mia
moglie giaceva accanto a me, ne sentivo il respiro regolare. Indovinavo le sue
forme nel buio, la spallina della camicia da notte le era scivolata sul braccio,
i capelli neri e lunghissimi erano sparsi sul cuscino, l’orlo della veste di
pura seta si era ritirato e le lasciava scoperte le gambe. Era bella. Era
sempre stata bella, anche quando era in ospedale.
Mi
sentivo stanco, molto stanco. Era stata una giornata di duro lavoro. Sentii le
palpebre pesanti, i miei occhi si chiusero e scivolai in un abisso morbido e
confortevole.
Mi
ridestai all’improvviso. Avevo sognato che non riuscivo a respirare, che mi
mancasse l’aria, come se avessi un peso che mi opprimesse il petto. Aprii gli
occhi. La sensazione di oppressione permaneva, il peso sul petto era intollerabile,
ogni respiro lo facevo con una fatica maggiore del precedente, come se un boa
mi avvolgesse fra le sue spire, stringendomi più forte a ogni respiro.
Un
fulmine lacerò le tenebre, feci appena in tempo a vedere che il letto, dalla
parte di mia moglie, era vuoto.
Un'altra
saetta illuminò una sagoma scura che mi sovrastava. Mia moglie era a cavalcioni
su di me. Le sue cosce mi stringevano i fianchi.
Il
lampo successivo si riflesse sulla lama del coltello.
Elena
me lo puntava alla gola.
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