Mio
padre mi lasciava solo in macchina e spariva per molto tempo. Cosa facesse in
quelle ore d’assenza, non mi era dato saperlo. I minuti scorrevano lentamente
nel grigio abitacolo, che odorava di plastica e benzina, un ragno finto
molleggiava sulle sue zampe di metallo, il silenzio si faceva assordante. A
volte una mosca penetrava nel muro di silenzio ronzando con il clamore di un
elicottero, ma non cadeva mai preda del ragno.
Avvertivo
la presenza di mio padre, molto prima che si materializzasse, non so spiegarlo,
un istinto atavico m’induceva a voltare la testa verso l’angolo di strada dal
quale sarebbe sbucato. La sua apparizione era un raggio di luce fra nembi
temporaleschi, la caduta del mio regno del silenzio; subito si faceva strada in
me una profonda gratitudine e sentivo di volergli bene.
Entrava,
richiudeva lo sportello e rimetteva in moto. A stento mi guardava, tanto che mi
chiedevo se si ricordasse che c’ero anch’io e non mi avesse confuso con le
ombre della sera che incombeva su di noi. I fari tagliavano il buio a fette e
ci allontanavamo da quel mondo di ombre e di noia che era stato il mio recente
esilio.
Non
mi diceva nulla, a volte, le parole che pronunciava non erano neppure rivolte a
me, ma a sé stesso, come se proseguisse su un filo logico mai interrotto. Le
sue brevi frasi affioravano di quando in quando dal flusso dei suoi pensieri e
io potevo intuire la direzione del suo scorrere.
Quelle
bizzarre gite fuori porta erano molto noiose, ma io ardevo dal desiderio di
stare con lui, anelavo il piacere della sua presenza.
Lo
avrei seguito in fondo al pozzo più scuro pur di stare con lui.
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ANGELO MEDICI
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