Ho appena terminato di leggere “Non ora, non qui” di Erri De Luca. E’ stato molto bello, intenso, emozionante. Un paio di volte, lo confesso, non ho trattenuto le lacrime e già mi manca. Non so perché, De Luca lo sento molto vicino, non solo per le comuni origini meridionali, mi riconosco in alcune sue condizioni ed ho vissuto molti dei suoi travagli (le insicurezze dell’infanzia, la difficoltà a riconoscersi nel proprio nome, la fanciullezza non sempre serena, il trasloco traumatico in una nuova casa). E’ uno scrittore dotato di una grande umanità e sensibilità, di lui si può dire che ha vissuto, che non si è risparmiato esperienze, sofferenze e delusioni, insomma, che è uno vero. E mi piace la sua scrittura, delicata, raffinata, mai angosciante, diffusa di lirismo, mantiene coerenza, logica e linearità, anche quando descrive situazioni non esattamente positive o decisamente contorte.
Ma vorrei ora parlare anche del De Luca uomo. Pur provenendo da una famiglia piccolo – borghese, che poteva e voleva mantenerlo negli studi, avrebbe potuto permettersi un’esistenza più comoda. Invece, ha scelto, in linea con il proprio credo politico di sinistra, di andare via di casa giovanissimo per andare a fare il muratore, per vivere come i manovali e gli operai. Egli non è mai stato un marxista da salotto, buoni quelli solo a predicare, senza razzolare, ha praticato la sua vita di uomo di sinistra, assumendosene le responsabilità davanti al mondo e di fronte alla legge, senza mai sottrarsene. Le sue esperienze con Potere Operaio e nelle aule dei Tribunali sono sotto gli occhi di tutti.
Io di sinistra non sono di certo, ma ammiro la gente così, coerente con sé stessa e con gli altri.
Per molti anni ancora dopo il successo letterario, ha continuato a fare la vita di sempre, a svegliarsi all’alba per andare a spaccarsi la schiena e le mani nei cantieri edili e tornare a casa stanco, ma libero di dedicarsi ai piccoli piaceri della vita. Una cena frugale a base di zuppa di verdure, formaggio impreziosito con l’aglio e vino rosso. E la compagnia di un libro. Di quelli vecchi, con le pagine ormai spianate dall’usura delle tante mani che l’hanno sfogliato e dei tanti sguardi che l’hanno scorso, che restano aperte sulla tavola permettendoti di leggere e mangiare, mentre quelli nuovi, come dice lui, sono dispettosi e spocchiosi, si chiudono sul più bello, come per fare un dispetto.
Nel racconto “La città non rispose” contenuto nella raccolta “In alto a sinistra”, egli scrive di uno dei suoi tanti ritorni a casa dal cantiere, uno dei tanti, semplici, quotidiani nostoi di joyciana memoria, leggendo il “Viaggio al termine della notte” di Celine. Ora, ci chiediamo, cosa ci fa il libro di uno scrittore considerato (a torto o a ragione. A torto secondo me) fascista e antisemita tra le mani di un lettore – scrittore di sinistra? Niente, se non la voglia di leggere della vita e del mondo e di tutto il resto che, da sempre, fa letteratura. E così ha fatto anche De Luca, fottendosene della fama torbida e scomoda di Celine e dei paradigmi culturali di certa sinistra. Badando al sodo, ha guardato dritto dritto in fondo alla sua anima, rappresentata al mondo attraverso le pagine memorabili del suo viaggio dentro le tenebre, verso l’alba. Non il viaggio di uno solo, ma il viaggio di tutti noi.
C’è una frase significativa in La città non rispose. Una frase di sole sette parole, molto efficace, che descrive il senso della vita dello scrittore francese, che dimostra che lo scrittore De Luca ha appreso a fondo – si fa per dire, perché credo che non gli si possa insegnare niente – la sua lezione. La riporto a chiusura di questo post e non aggiungo altro. Perché non c’è altro da aggiungere.
“Celine perdeva senno dal tappo del dolore”.