Morirò.
Non sentirò più le angosce che mi corrodono. Non sarò più preda
dell'ansia inquieta che non mi lascia pace e che non si spegne mai.
Chi mi ha creato è morto. Quando non ci sarò più, perfino il
ricordo di noi due svanirà. Non vedrò più il sole e le stelle, non
sentirò il vento scherzare sulle mie gote. Luce, passioni,
sensazioni, sparirà tutto. Nel nulla troverò la mia felicità.
(Dialogo
finale di Frankenstein, 1818)
Napoleone
era ancora in vita quando fu pubblicata la prima edizione del
romanzo, ma dalle ceneri del Settecento si agitavano già gli incubi
che avrebbero atterrito il Novecento. Il senso di colpa originale, la
responsabilità oggettiva, la colpa insita nella nascita, il destino
ineluttabile, l'impotenza di fronte alle tempeste del Fato. Qualche
incongruenza nel testo, forse frutto della traduzione non sempre
all'altezza (Dalai Editore, 2011) e un linguaggio ottocentesco e
aulico, raffinato ma involuto (c'era già l'editing nel XIX secolo?);
però i semi dell'angoscia e del turbamento sono stati gettati e
prosperano in un terreno fertile.
Mary
Shelley (1) tralascia sagacemente particolari macabri, termini
medici e procedimenti scientifici, ma ci conduce per mano a visitare
il suo personale incubo, un sogno spietato e terrificante partorito
in una notte di fine estate sul lago di Ginevra. E se sognare,
fantasticare, immaginare può essere spaventoso, scrivere è
devastante. Ogni cosa è messa a nudo. Senza pietà.
Dopo
Lo strano caso del dottor Jekyll e Mister Hyde, volevo
proseguire le mie letture autunnali (sarà il clima post Halloween)
con altri classici del terrore, innanzitutto Frankenstein o il
moderno Prometeo e accostargli in seguito il Dracula
di Bram Stoker. Un trittico di mostruosità gotiche nel nero
fulgore del romanzo dell'orrore.
E
dopo il motivo del doppio di Jekyll e Hyde, era doveroso affrontare
la sfida alla morte con le armi della scienza.
L'uomo
che si ribella a Dio per farsi egli stesso dio, usurpando il potere
di generare la vita, non è altro che la rievocazione in forma
scientifica e tecnologica della ribellione dell'angelo caduto, giunta
fino ai nostri giorni. La fiaba nera dell'uomo buono per nascita e
natura, che diviene malvagio a causa dell'emarginazione che tributa
il mondo a un essere deforme e ributtante, il mostro, il brutto
anatroccolo, il diverso, ancora una volta.
Simboli
di forte negatività nell'aria, euforie rancorose, brandelli
d'orgoglio calpestato e hybris a nastro. La tempesta è
imminente e già si affaccia sull'orizzonte frastagliato delle Alpi
svizzere. La tragedia familiare che si compie ha un gusto vagamente
omerico ed ellenistico (come non accostarvi l'Edipo Re
o la Medea di Euripide?), frutto della vendetta
degli dei.
La
scrittrice compie un discreto scavo psicologico nel buio dell'abisso
dei due protagonisti, lo scienziato, Victor Frankenstein, “un
pallido studente di arti perverse e vietate” (laddove
queste oscure pratiche non erano che studi di anatomia e chirurgia
condotti in modo estremo ed esperimenti elettrici applicati alla
fisiologia e alla chimica – galvanismo –, le arti di Paracelso,
Cornelio Agrippa e Alberto Magno) e la bestia, deforme e
ributtante. Ma non parlerei di eroe e di antieroe, di buono e
cattivo, di luce e di tenebre. L'uno non può esistere senza l'altro,
ognuno deve all'altro la figura tragica che impersona. E, dopotutto,
la perizia della Shelley è tutta qui. Con un colpo da maestro
compie un ribaltamento di soggetto e di prospettiva: il cosiddetto
'mostro' è più umano di Victor, la sua povera mente
deforme è più intrisa di umanità, sensibilità e senso etico di
quella del suo artefice che, nella sua debolezza e irresolutezza,
ricusa qualsiasi responsabilità in ordine alla sua creatura,
abbandonandola al suo destino.
Chi
è dunque il vero mostro?
La
macchia di Frankenstein è soltanto esteriore. Non ha commesso
lui il peccato di essere venuto al mondo, di essere stato ricucito
pezzo per pezzo da brandelli della morte e rianimato dalla terra
grassa di vermi dei cimiteri. Non è sua la colpa di essere una
povera creatura deforme e rivoltante, che il mondo prende a sassate e
tenta di sopprimere.
Ti
ho forse chiesto io, Creatore, dal mio fango, di farmi uomo? Ti ho
forse sollecitato io a promuovermi dalle tenebre? (2).
L'incolpazione
di Dio da parte dell'uomo è anche l'atto d'accusa della miserabile
creatura contro il suo artefice. E' un destino di abbandono che lo
accomuna, nel suo piccolo, alla progenie di Adamo che, a volte, si
crede rifiutata, allontanata e messa da parte dal Creatore, forse per
il disgusto che prova per la mostruosità dei suoi peccati. E' la
sintesi e anche la conclusione dell'aspra lotta, che porterà
entrambi all'epilogo fra i ghiacci eterni del grande Nord.
E
la favola scientifica ottocentesca può ora precipitare agli inferi e
terminare il suo corso nell'oscurità degli abissi, come un fiume
nero e impetuoso che scorre urlando sotterraneo e mefitico nei
meandri rocciosi del sottosuolo dei nostri migliori incubi.
Oggi
che discutiamo di bioetica e clonazione, oggi più che mai, l'ombra
di Frankenstein, il moderno Prometeo, è ancora più scura.
(1)
Moglie del poeta Percy Bysshe Shelley e letterata anch'essa.
(2)
Il paradiso perduto, John Milton (1667).