domenica 18 dicembre 2016

Ubik



E' come sbattere contro un muro, o come quando ti sparano negli occhi la luce abbagliante di una cellula fotoelettrica, o farsi trapanare le orecchie da un impianto audio da un milione di watt.

Non si entra mai impunemente in un romanzo di Philip Kindred Dick (1).

E anche Ubik non fa eccezione.

Ma cos'è Ubik?

Ubik è uno e trino. E' essenza divina, è sostanza sfuggente e farmaco che attenua il dolore insopportabile dell'esistenza. “Io sono Ubik. Prima che l'universo fosse, io ero. Ho creato i soli, ho creato i mondi. Ho creato le forme di vita e i luoghi che esse abitano; io le muovo nel luogo che più mi aggrada. Vanno dove dico io, fanno ciò che io comando. Io sono il verbo e il mio nome non è mai pronunciato, il mio nome che nessuno conosce. Mi chiamano Ubik, ma non è il mio nome. Io sono e sarò in eterno.

Ma attenzione, non è un dio a parlare, neppure a nome di un oscuro pantheon di numi inesplicabili e vendicativi; è l'essenza stessa del capitalismo, del business as usual, della miserabile arte di trovare il prezzo di ogni cosa, anche di ciò che non si può vendere o non si può comprare. E' l'ubiquità (Ubik, appunto, dal latino ubique, ovunque) del materialismo, del potere del denaro che domina le creature viventi e le sballotta di qua e di là esclusivamente in base alle leggi di mercato, la Legge suprema della R.M.F.S. (Repubblica Materialistica Fondata sulla Speculazione, l'acronimo è mio e, a voler essere modesti, anche il resto).

Il passato si confonde col futuro, la vita con la morte, il male con il bene. Non si può essere certi di nulla. E' tutto capovolto, sottosopra, ambivalente e si fa fatica a distinguere qualcosa nelle tenebre. Ma forse, non è davvero così importante.

Il progresso tecnologico ha reso quasi possibile sconfiggere la morte, organizzando imprenditorialmente un limbo a pagamento, chiamato semi-vita, nel quale i dormienti aleggiano incerti fra le ultime luci della vita e i primi sentori dell'eternità. Un luogo metafisico che ha molto della vita intermedia del BarDo Thodol (2), in attesa di rinascere ancora.

In questa fase artificiale fra la vita e la morte, che è l'anticamera della dissoluzione temporanea, prima di tuffarsi a capofitto nella luce rossastra che segna l'inizio di una nuova vita, in un nuovo utero, irrompono fantasmi in carne e ossa; sono i vivi che cercano di comunicare con i morti, sbirciando in quel mondo etereo e crepuscolare con curiosità morbosa, dall'altra parte della superficie di ghiaccio, nel quale i defunti sono mantenuti in ibernazione.

E' un mondo terribile; chi ha parenti che se lo possono permettere, è da questi glorificato (o condannato?) all'eternità fasulla e artificiale della semi-vita, mentre chi non se lo può permettere defunge alla vecchia maniera. Anche nell'oltretomba si scatenerà la lotta di classe?

Ne vale la pena?, si chiese. E' meglio della morte vecchio stampo, la strada diretta dalla vita alla tomba? Lei è ancora con me, in un certo senso, decise. L'alternativa è il nulla.

E' davvero spaventoso. Per parte mia, non vorrei vivere in quel modo. Attivato e disattivato a richiesta di parenti, amici e conoscenti che desiderano conferire con me. E per tutto il resto del tempo, fluttuare senza memoria nel buio fitto del nulla. Davvero, mi accontenterei di tornare a dare un'occhiata. Di tanto in tanto.

Ma c'è ancora qualcosa di strano, qualcosa che non quadra e che le innovazioni scientifiche non bastano a spiegare, come il disfacimento del visibile e il flusso a ritroso del tempo. L'effetto è di spaesamento totale, come vedere un film a partire dai titoli di coda. Gli attori si muovono al contrario, fanno gesti innaturali, la visione complessiva provoca la nausea. La materia regredisce, la carne si decompone, le lamiere arrugginiscono. Tutto retrocede in una folle corsa in direzione di un passato che prende il posto del futuro. Una caduta nel maelstrom (3), verso l'annientamento del sé, ma molto ricca di particolari e d'inventiva. Perchè anche nella distruzione è necessario essere creativi.

Se in Un oscuro scrutare (4), Dick cercava di scandagliare il presente - l'epoca successiva alla beat generation, nella quale i sogni psichedelici mutarono in incubi da overdose, ai quali nessuno sopravvisse -, in Ubik egli scruta nel futuro. Un futuro allucinante e distorto, molto simile a un deja vu - il ricordo del presente, secondo una bellissima espressione di Bergson.

E se la fantascienza può essere considerata come l'espressione di un presente in crisi, il prodotto visionario e terrificante di un futuro che incombe minaccioso con le sue distopie innescate e pronte a deflagrare come una profezia che si auto-avvera, l'intera opera dello scrittore californiano è fantascienza del presente. Le sfaccettature più aberranti, le visioni più distorte, gli aspetti più spaventosi della nostra epoca, lui li aveva già visti nei dorati Sixties. Dietro le pagine mi sembra quasi di vederlo sghignazzare, ubiquo e onnipresente. U-Dick (5).

E noi che ci dibattiamo nel qui e ora, nei labirintici miasmi di un passato che non passa e di un presente oscuro, è meglio che lo sappiamo. Lui c'era già stato.

Prima di noi.

Il finale è spiazzante e rimette tutto in discussione. Ancora una volta, chi è vivo e chi è morto? Qual è il bene e quale il male? Cos'è la vita e cos'è la morte?

Davvero, non è così importante saperlo.



(1) Nato a Chicago il 16 dicembre 1928 e morto a Santa Ana il 2 marzo 1982. Fra i principali esponenti della letteratura post moderna, è considerato un precursore del cyberpunk e dell'avantpop. Il cinema ha letteralmente saccheggiato le sue opere. Blade Runner, Next, The Truman Show, la trilogia di Matrix, Total Recall, Paycheck, Screamers, Impostor, Radio Free Albemuth, A Scanner Darkly, Minority Report, Memento, L'esercito delle dodici scimmie, The Island, Inception, eXistenZ e molti altri ancora, non sarebbero stati girati senza i suoi libri.

(2) Il libro tibetano dei morti.

(3) Racconto di Edgar Allan Poe. Il titolo originale è Una discesa nel maelstrom.

(4) Titolo originale, A scanner darkly (1977).

(5) Gioco letterale fra Ubik e U–Dick, il cognome dello scrittore; una sorta di grande occhio universale (6) che ci scruta dall'altra parte del tempo, attraverso le tenebre.

(6) Nota alla nota (non sono sicuro che si possa fare): “Io sono un occhio” dice Bruce col cervello bruciato, tossicodipendente e contraltare di un alienato mentale, giunto al termine del suo oscuro scrutare.


sabato 3 dicembre 2016

Celine e il tappo del dolore



Ci sono scrittori ai quali non è bastato inventare una letteratura, hanno dovuto anche (re)inventare un linguaggio per poter scrivere quella letteratura. Giganti della statura di Joyce e Celine. Ma, eleviamoci fino a loro, per quanto ci è consentito, e diamo un'occhiata più da vicino a quest'ultimo.
Dal retro di copertina Celine lo guardava con lo sguardo assente, ironico, canzonatorio dei bei tempi andati, ritratto nel bel mezzo di un ennesimo scandalo. Si soffermò a guardare quella foto in bianco e nero, la fronte aggrottata e sovrastata dai capelli pettinati all'indietro, quegli occhi innocenti, trasparenti come il cielo, un sorriso beffardo eternamente stampato sulle labbra, prima di aprirle su una delle sue innumerevoli provocazioni. Sembrava così innocuo e inoffensivo. Soltanto un altro cacciatore di miseria. Niente di più. (Così scrivevo di lui ne La città verticale, 0111 Edizioni, 2014). Pare quasi che ci prenda ancora in giro da un passato non troppo lontano. Ma la sua opera non è affatto una presa in giro. Non c'è finzione, raggiro, artificio. E' tutto puro e genuino. E' la vita stessa che cola dalle sue pagine.
Non è un caso che adorava, come io adoro, François Villon - non si può dimenticare la Ballata degli impiccati, anche se è stata scritta nel 1489 (1) – e sopra ogni cosa, amava la sua lingua, che era la lingua del popolo dei bassifondi, catturata in presa diretta nelle bettole e nei postriboli, in fondo a strade buie ai margini della città della luce, dove si aggirano uomini senza nome e senza volto. Un linguaggio bizzarro, probabile archetipo l'argot della suburra parigina, spesso ai limiti della comprensione, come nello sfrenato delirio verbale di Carneficina (2), messo in bocca a un'umanità lasciva, decadente e corrotta.
Questo siamo, neri stormi che sporcano i cieli, affamati di miseria e morte. Uomini e donne arrivano assieme come branchi d'avvoltoi su una carcassa fumante, si accoppiano e subito volano via. Avvoltoi che piombano dal cielo come pietre pesanti. Artigli e becco, questi siamo! Un enorme apparato intestinale che fiuta la carne morta (3).
Erano anni difficili, è un arduo compito narrare la vita di uno scrittore difficile in un'epoca complicata, devastata da due guerre mondiali, di cui fu vittima egli stesso. Anarchico, fascista, antisemita? Niente di tutto questo. Ogni sua provocazione generava scandalo e un diluvio di accuse, tanto da ritrovarsi perennemente sul banco degli imputati. Spesso da innocente.
Grande scrittore, ma atroce antisemita”, oppure, “atroce antisemita, ma grande scrittore”, i simmetrici giudizi su di lui. Il primo lo condanna senza appello all'oblio dell'esilio, a nulla vale il giudizio delle lettere; nel secondo, ma in netta minoranza, la nera aura razzista è riabilitata dalla sua immensità artistica (per la verità, solo ai giorni nostri).

Fra le righe è possibile rintracciare la scia di un uomo alla deriva, portato soltanto dalle correnti della vita e dal vento mutevole del destino, da Parigi all'Inghilterra in improbabili e fallimentari apprendistati, ancora a Parigi e da qui all'Africa; e ancora a New York e di nuovo a Parigi, sulle vie soffocanti di un eterno ritorno.
Ma come si sopravvive a tutto questo? Se non hai gli anticorpi non puoi resistere al morbo della vita e Celine gli anticorpi di sicuro non li aveva. E così è stato sbranato, divorato un morso alla volta, devastato pezzo a pezzo, una ferita dopo l'altra.
Celine non sopravvisse, morì sui suoi fogli, nelle pagine dei suoi libri, in cui riversò tutta la sua anima, senza lasciarne più nulla per sé. Egli si è letteralmente dissanguato, nelle sue opere l'inchiostro ha preso il posto del sangue tra le fibre di cellulosa, il tessuto connettivo del suo corpo. E, insieme al dolore, colava via la ragione. Celine perdeva senno dal tappo del dolore, scrive Erri De Luca in La città non rispose (4) e io non oso ritapparlo, perchè non saprei dirlo meglio. Non si risparmiava, affogava in fondo all'anima i dolori, le paure, le miserie del mondo e segnava il foglio con l'impronta irregolare della sua anima errabonda e fallace. (Ancora dal mio La città verticale).
Certo, la vita materiale ebbe il suo decorso, ma a quale prezzo? Seguì la disfatta dell'esercito tedesco e ne condivise la sorte. Tribunale militare, condanna, esilio. Gli fu consentito di tornare in Francia soltanto nel '51, dopo lunghi anni a Copenaghen. A quel tempo, Celine era lo scrittore del secolo, come uomo era già finito. Era incerto, tra Flaubert e Dostoevskij, a quale dei due attribuire il titolo di miglior scrittore dell'Ottocento, ma per il Novecento non aveva dubbi. Il titolo spettava a Celine. Il suo Viaggio al termine della notte era un'opera ineguagliabile. Tutti gli altri erano un branco di pecore che seguono il pastore (La città verticale, ibidem).
Il Viaggio potrebbe essere a buon diritto la pietra tombale, la parola fine, L'ultimo libro dell'umanità, quello che avrebbe voluto scrivere Henry Miller. Tutti quelli che hanno qualcosa da dire, la diranno, là dentro, anonima. Daremo fondo alla nostra epoca. Dopo di noi non più libri, almeno per una generazione. Il mondo si potrà nutrire del nostro libro per mille anni a venire. Solo a pensarci, quasi ci annienta. (5)
Che cosa non ha funzionato nella sua storia d'uomo, si chiede Carlo Bo (6). La mancanza di equilibrio fra l'intelligenza piena della realtà e la sua resistenza morale? Il senso di anarchia più profondo e fagocitante, l'estremo dileggio di ogni regola e di ogni sapere scientifico, perfino della sua professione di medico condotto? Je n'ai toujours pratiquè la mèdicine, cette merde (!).
Ma la sua scrittura era inesorabile, il dolore, la disperazione, ma anche la compassione per questa umanità dolente, la sua sorda pietà di medico suonato che cercava l'impossibile interpretazione del mondo, ne marcava ogni passo. Eccoci qui, ancora soli. C'è un'inerzia, in tutto questo, una pesantezza, una tristezza... Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita, una buona volta. Gente n'è venuta tanta, in camera mia. Tutti han detto qualcosa. Mica m'han detto gran che. (7)
Ancora una volta, per fortuna, è sempre il tempo di Celine, scrive Georg Steiner (8). E anche oggi il Viaggio al termine della notte, la folle corsa a rivedere la luce di uno scialbo mattino, il viaggio di uno, il viaggio di tutti noi, è un salvacondotto per la vita.


(1) La ballade des pendus

Vous nous voyez 'cy
attachez cinq, six
quant de la chair,
que trop avons nourrie
elle est pieça devorèe et pourrie
La pluye nous a dèbuez et lavez
et le soleil dessechez et noirciz.
Pies, corbe aulx nous ont les yeux cavez
et arrachè la barbe et le sourciz.

Ci vedete qui
in cinque, sei, appesi
quanto alla carne che troppo abbiamo nutrita
ora è divorata e putrida.

La pioggia ci ha lavati
e il sole ci ha anneriti e seccati
Gazze, corvi ci hanno gli occhi cavati
e strappata la barba e le sopracciglia.

(2) Titolo originale Cassepipe (1949).

(3) Tropico del Cancro, Henry Miller (1934).

(4) In alto a sinistra (un'antica via d'uscita), Feltrinelli (1994).

(5) Ancora in Tropico del Cancro.
(6) Saggio critico su Morte a credito, Garzanti 2011.

(7) Morte a credito, titolo originale Mort à crèdit (1952).

(8) The Times Literary Supplement, 12 gennaio 2010.