Cielo
e terra cospirano affinchè ogni buon inizio vada a finir male. Chissà perché,
mentre guidavo, mi venne in mente quella frase di Isaac Singer (1). Non ero
sicuro della strada, infatti ci perdemmo più volte; non ero sicuro neppure sul
buon esito della serata. E l’ultima mia insicurezza era sul fatto che non
smarrivo la strada senza un buon motivo.
Ma
ogni volta che perdevamo la strada, la ritrovavamo inevitabilmente e così,
presto giungemmo al luogo del convegno.
Era
venerdì sera, dovevo accompagnare i miei figli a una festa di classe e restarci
fino al termine. Avrei preferito essere altrove.
Entrammo.
Subito ci accolse la rappresentante di classe. Mi strinse la mano e mi stampò
due baci sulle guance. Era sudata e sentii la pressione dei suoi grossi seni
sul mio braccio. Sparò parole a raffica che non capivo nel frastuono della
musica. Mi avvicinai. La sua bocca sapeva di cognac e denti marci. Come inizio
non c’è che dire, pensai. In breve mi spiegò le regole del luogo,
l’organizzazione della serata, il riparto delle spese. Se non l’avessi
interrotta mi avrebbe reso edotto anche sulle norme di sicurezza e su quali
comportamenti adottare se si fosse verificato un cataclisma.
I
miei figli mi abbandonarono presto. Si fiondarono con i loro compagni verso i
giochi e le attrazioni. Avevo già perso la loro compagnia e mi ritrovai solo
nell’immenso salone, fra gente che non avevo mai visto. L’angoscia risalì, come
per osmosi, le fibre muscolari e s’insediò, imperatrice del mondo, nel centro
della mia testa.
Vidi
un discreto affollamento al tavolo degli aperitivi e mi ci diressi, facendomi
strada nella muraglia di spalle e schiene. Dopo molto penare, riuscii ad
allungare un braccio per ghermire una bibita. Feci appena in tempo a prendere
il mio bicchiere che levarono in alto i calici. Brindai alla salute di non so
chi, bevendo non so cosa, insieme a perfetti estranei. Subito, iniziò a girarmi
la testa. Accidenti a loro e ai loro spritz, non mi ci abituerò mai. Per me, il
vino è troppo sacro e puro per mescolarlo con qualcos’altro.
Uscii
a prendere una boccata d’aria, ma era più che altro una scusa per stare un po’
da solo e far passare il tempo. Presto, il ronzio di fondo delle umane
chiacchiere si allentò e si spense e il silenzio prese a torreggiare su di me.
La sera avanzava, la luce del giorno si ritirava fra i palazzi e i rumori del
traffico si affievolivano. Quando mi accinsi a tornare dentro, mi accorsi che
erano passati solo dieci minuti. Dieci minuti! Non ero riuscito a ingannare il
tempo, come avrei fatto a far trascorrere tre ore?
Quando
rientrai mi accorsi che qualcosa era cambiato. Ognuno faceva gruppo con qualcun
altro, scambiava pacche sulla spalla col vicino e rideva. Facevano conoscenza
fra di loro con insolita rapidità. Stavano diventando una sola famiglia, ma io
rimanevo un estraneo. Nessuno parlava con me, né io con gli altri. Li univa una
forza segreta che mi teneva in disparte.
Ciononostante,
li sentii simili a me. Eravamo gocce dello stesso oceano.
“E’ libero?” chiesi avvicinandomi a
un tavolo e sperai che lo fosse, perché era l’unico posto non occupato.
“Ma
sì che è libero, è il tuo posto. Presto, la pizza si fredda”
Mi
accomodai, nel più profondo imbarazzo, a un tavolo di sconosciuti. Una coppia,
marito e moglie, parlottavano fra di loro, un’altra taceva e un’altra ancora
non parlava neppure italiano. Io ero l’unico ospite solitario, senza moglie,
compagna, dolce metà, o il termine che più vi aggrada. La mia altra metà,
nient’affatto dolce in quella circostanza, aveva elegantemente dato forfait
all’ultimo minuto, troppo tardi per disdire la prenotazione e, in ogni caso,
fuori tempo massimo per non deludere i miei figli. Solo per loro avevo
acconsentito a sottopormi a quella tortura.
Ora,
io vi chiedo, e siate sinceri nella risposta, anche i più estroversi fra di
voi: non vi mette in ansia sedere con perfetti sconosciuti e non sapere cosa
dire? Se la risposta è sì, allora comprenderete le mie pene.
Una
donna teneva banco, parlava in continuazione, forse più a sé che agli altri, ma
quasi tutti l’ascoltavano, o forse, fingevano di ascoltarla. Era seduta accanto
a suo marito, ma non gli rivolgeva mai la parola. Egli la guardava, ne era
innamorato, si vedeva, sembrava pendere dalle sue labbra e anche lei ricambiava
il suo sguardo. Moglie e marito si studiavano timidamente, forse sentendosi
estranei, come capita, a volte, fra chi si conosce a fondo. Era più che altro
lei a parlare, lui si limitava ad annuire. Di tanto in tanto, coinvolgeva anche
me nel discorso, di cui mi giungevano solo alcuni frammenti fra il
chiacchiericcio generale, con rapide occhiate o veloci sorrisi. Aveva gli occhi
di un blu profondo, come quello degli abissi marini. Ma non era una sfumatura
inquietante, una sensazione di sgomento, come quella che provo al cospetto di
donne dagli occhi troppo chiari.
“Posso
farti una domanda imbarazzante?” chiese all’improvviso.
Ne
fui sorpreso, ma riguadagnai subito la calma. Non sapevo proprio dove potesse
andare a parare, in fondo per lei ero un perfetto estraneo, più degli altri che
la circondavano. Mi venne fuori, non so come: “Le domande non sono mai
imbarazzanti. A volte, lo sono le risposte”.
Sorrise,
finalmente solo per me.
Quel
poco che ho da dire, cerco di dirlo con i migliori mezzi a mia disposizione.
“La
tua risposta ha anticipato la domanda che stavo per farti.”
“Quale?”
chiesi, ormai, incuriosito.
“Tu
scrivi?”
“Ehm…
sì. Ho pubblicato un paio di libri: una trilogia di racconti e un romanzo. Ma
come fai a saperlo?”
“Una
mia amica ha visto la tua opera in libreria”
“Ah
sì?” Pensai alla fatica che avevo fatto per convincere la libraia a esporre il
mio volumetto nella sua botteguccia. Alla fine, il mio libro nella sua
copertina rosso scuro si pavoneggiava fra un romanzo di Verne e un saggio di
Holderlin. “Ma non aspettatevi niente di eclatante, non sono un Dostoevskji”.
“Ma
lei l’ha letto e le è piaciuto. Così, l’ho comprato anch’io”
“Grazie”
arrossii.
“Per
quale motivo hai scritto un libro?” mi chiese suo marito. Pensai che fra le
domande più banali e inutili non ne avrebbe potuto tirar fuori una peggiore. Ma
mi attrezzai a rispondere per le rime.
“Scrivere è come essere innamorati.” Lo
guardai negli occhi, poi proseguii rivolto a sua moglie. “Quando sono preso da
una storia non mangio, non dormo, ho la testa fra le nuvole. Non vivo che per
lei.”
Mi
guardarono come se avessi parlato loro dei misteri di un altro mondo. La donna
riprese il filo della conversazione e il controllo del tavolo.
Finii
di mangiare e chiesi il permesso per andare a cercare i miei figli. Mi fu accordato.
Mi alzai portando con me la birra, per darmi un contegno tracannando
direttamente dal collo della bottiglia.
Girovagai
fra corpi estranei, timido e smarrito quanto può esserlo un uomo. Mi accorsi
solo allora, chissà perché, che dal soffitto pendevano sulle nostre teste vele
di barche. Li cercai con lo sguardo e ci misi un po’ a trovarli. Erano lontani,
in fondo alla sala, i volti accesi in emozioni di bambini avvinti dal gioco. Ne
indovinavo a stento i tratti familiari fra volti estranei. Mi fece bene
vederli. Sentii che ci appartenevamo, una sensazione che non aveva bisogno di
parole. Mi rinfrancai e finii di bere la mia birra.
Se
non sei felice, comportati come se lo fossi. La felicità arriverà in seguito.
Mi ricordai del vecchio precetto ebraico (2) e mi costrinsi a uniformarmi a
esso. La pesante cappa di solitudine che gravava sul mio essere si frantumò al
suolo e mi sentii leggero. Mi appoggiai al tavolo da gioco e più volte fui
coinvolto nei giochi.
Più
tardi lei mi raggiunse e con fare amichevole scambiò con me alcune parole. E’
incredibile quante cose, a volte inutili, riescano a dire le donne in così poco
tempo. Faceva l’architetto, ma di recente, a causa della penuria d’incarichi di
progettazione, aveva rispolverato un suo vecchio sogno: insegnare. Trovò anche
il tempo di farmi sapere che la città verticale (3) è stato un pensiero
urbanistico molto in voga nel Novecento. Mi resi conto che, pur essendo
inutili, le sue parole erano vere e inconfutabili. Mi sentii sfiorare le spalle
e a tratti il suo corpo aderiva al mio. Forse aveva bevuto un po’ più del suo
solito, ma non puzzava di alcol. Giudicai che il confine fra l’amichevole e il
qualcos’altro fosse stato abbondantemente superato. Scrutai il tavolo alle
nostre spalle. Suo marito sghignazzava con gli altri commensali, pareva anche
lui abbastanza brillo.
“Ho
bisogno di prendere una boccata d’aria. Ti dispiace?”
“Niente
affatto” e mi seguì in giardino. La notte incombeva sulle cime degli ontani, la
brezza frusciava fra il bosso e le rose canine, il pallon di maggio si fletteva
nell’aria tiepida e dove eravamo seduti sentivo il suo profumo. Fra l’erba
dormiva lo scafo di una vecchia barca a vela. Il mare era lontano mille chilometri.
“Sai,
devo confessarti una cosa”
“Cosa?”
“Io
non so leggere”
“Come
non sai leggere?” Era terribilmente seria.
“Proprio
così, non so leggere.” Sospirò. “Non nel senso che sono analfabeta, ma ciò che
intendo dire è che non trovo nulla di interessante nei libri, non so leggerli.”
“Vedi
che il mondo è strano. Io scrivo libri e tu non sai leggere. Che scrivo a
fare?”
Rise.
Risi
anch’io, ma divenni subito serio. “Scrivere è devastante. Io provo tutto quello
che provano i protagonisti delle mie storie, gioia, dolore, desiderio,
tristezza. Sento tutto quello che sentono loro. Tutto. Bisogna essere pronti a
qualsiasi evenienza.”
Si
tolse i sandali e andammo a sederci sull’erba.
La
coppia che non parlava italiano uscì in giardino e si riparò nell’ombra di una
farnia. Le loro ombre presero a fare strane cose, come se anche l’amore e il sesso
nel loro paese parlassero altri linguaggi. Strano e straniero si dice quasi
allo stesso modo.
“In
uno dei miei racconti, la scrittura ha svelato un mio profondo, inaspettato
complesso edipico.” Proseguii, ma era inutile.
Non
mi ascoltava più. Mi accarezzò la nuca e mi attirò a sé.
Sentii
sulle labbra il suo sapore. Nicotina, coca cola, cioccolata. Una combinazione
bizzarra e sensuale. Era fresca e calda, al tempo stesso. I suoi capelli erano
morbidi e profumati. Intorno a noi l’inizio e la fine, l’alfa e l’omega, la
luce e le tenebre, in un flusso circolare, ininterrotto, un cerchio in cui non
si può distinguere l’inizio e la fine.
“Ora
devo tornare da mio marito” disse.
Guardai
l’orologio. Sobbalzai. Era tardissimo, mi ero dimenticato dei miei figli, la
festa stava per finire. Le tre ore erano volate. Se non fossimo rientrati
immediatamente, ci avrebbero sorpresi dietro il sanguinello in un imbarazzante
abbraccio.
Trovai
i miei figli ad aspettarmi, un po’ imbronciati per la fine della festa. Forse,
il tempo per loro scorre più veloce che per noi. Non si erano neppure accorti
della mia assenza. I loro mondi, puri e perfetti, non hanno bisogno di padri e
madri imperfette. Li baciai e li abbracciai sentendomi colpevole e, al tempo
stesso, innocente.
Fuori,
odore di ozono e di erba bagnata. Stava cominciando a piovere. Sapevo che lei
era dietro di me, ma non mi voltai. Forse anche lei tentava di non guardarmi. I
suoi occhi blu profondo cercavano una risposta sui volti dei suoi bambini. Negli
occhi dei suoi figli, negli occhi dei miei figli si aprivano baratri,
precipizi, voragini.
Abissi
che né io né lei avremo mai colmato.
(1) Lo specchio.
(2) In realtà, non è un precetto ebraico, ma è
una frase tratta da Un consiglio di
Isaac Singer.
(3) Titolo del mio
primo romanzo.
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