Una volta abitavo
in un paese molto povero. Eravamo bambini nati e cresciuti ai margini dei
campi, come l’ortica, come fiori selvatici. Non avevamo niente e ci accontentavamo
di niente, piccole cose, bottoni, biglie di vetro, sassi di colori bizzarri e
delle forme più strane, frammenti di giochi più antichi di noi. Povere cose
perse nelle strade polverose. Ognuno di noi aveva un nascondiglio nel quale
accumulava tesori inestimabili.
Più tardi, ricco fra
i ricchi, di tutto quello che ebbi, che possedetti, che acquistai, che
guadagnai, nient’altro mai fu tanto mio.
Erano anni felici,
nonostante la povertà. Bastava così poco. Il profumo sacro della terra, delle
zolle rivoltate di un campo appena arato, l’ondeggiare delle spighe di grano
nel vento, il rifugio nell’ombra verde e quieta dei pini, i profili irregolari
dei rovi e dei moreti, gli ulivi secolari contorti e piegati come vecchi nodosi,
ma invincibili, il frinire delle cicale al tramonto, perfino il respiro del
vento che sussurrava tra le case del villaggio e portava con sè gli echi di
canzoni antiche che non ho mai più ascoltato. Eravamo padroni del mondo e ogni
cosa ci apparteneva. Non avevamo niente, eppure avevamo tutto.
E ora mi chiedo:
dov’è finito tutto questo? In quale parte del mondo, della memoria o del mio
cuore è custodito? E’ tutto perduto per sempre?
La memoria gioca
brutti scherzi.
Vi sono dei ricordi
dai quali è impossibile liberarsi, anche per un solo istante e ricordi che,
invece, giacciono abbandonati in angoli remoti della mente, come vecchie sedie
sfondate in soffitta. La storia che sto per raccontare appartiene al primo
tipo: è incisa nella mia memoria come il nome di un morto sulla lapide.
A
quell’epoca non avevo ancora compiuto sei anni e vivevo insieme alla mia
famiglia in un villaggio del meridione sferzato dal vento, dove la neve faceva
la sua comparsa in novembre e resisteva fino al primo sole di aprile. La nostra
casa era vecchia e gelida e le pareti imbiancate di fresco non facevano che
accentuare la sensazione di freddo.
Mia
madre mi accompagnava ogni mattina a scuola materna, ogni mattino di quegli
inverni lunghissimi e imbiancati e ogni pomeriggio attendeva il mio ritorno a
casa. Avevo molti amici allora, ma vi sono dei legami che si dimostrano più
forti di tutti fin dal loro primo apparire. Questi sentimenti di privilegio
accomunavano noi quattro: io naturalmente, con le gambe secche perennemente
coperte di cerotti, Peppino, magro e comico come uno scheletro che inforcasse
un paio di occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia, poi Michele, con
il viso incorniciato da riccioli biondi, la cui occupazione principale nella
vita era quella di rivoltare all’insù le palpebre superiori dei begli occhi
azzurri e infine, Francesco, il più piccolo, della cui bionda madre venezuelana
ero perdutamente innamorato. L’ho rivista, per caso, pochi anni fa. Il tempo è
stato rispettoso della sua bellezza.
Ci
sono giorni in cui rimpiango la spensieratezza di quelle ore invernali, che
scorrevano lente sotto lo sguardo vigile e severo delle suore che si occupavano
di noi. Noi quattro, naturalmente, stavamo sempre insieme. Condividevamo ogni
cosa, gioie e dolori e i primi amori, che trovavamo il coraggio di confessarci
l’un l’altro, quando non riuscivamo più a tenerci dentro quei sentimenti
sconosciuti, che ci facevano battere forte il cuore e dipingevano le nostre
gote di vividi rossori. Eravamo più che
amici, eravamo quasi fratelli e tali erano, soprattutto per me, che avevo solo
sorelle. Ho avuto il privilegio di trascorrere con loro i momenti più belli
dell’infanzia. Mai più ho avuto amicizie così strette. Ricordo che il nostro
più grande divertimento era scommettere sul colore degli indumenti intimi delle
ragazzine. Terminate le puntate, non restava che sollevare loro la gonna per scoprire
se il colore delle mutandine che indossavano, corrispondeva a quello sul quale
avevamo scommesso. Il fortunato vincitore si accaparrava un bel gruzzoletto di
cianfrusaglie, vecchi bottoni, biglie di vetro colorato, qualche caramella e,
raramente, qualche monetina da due lire.
Tutto questo
accadeva quando non inseguivamo gli altri bambini, con il viso ricoperto di
foglie e spine di rosa attaccate con lo sputo, ululando come aborigeni, fino a
quando lo svolazzare di una nera tonaca all’orizzonte e, più tardi, il suono di
un paio di ceffoni ben assestati, non ci induceva a più miti consigli. Allora,
ci aggiravamo come detenuti inquieti durante l’ora d’aria, nel giardino della
scuola.
Non
ricordo bene se fosse una leggenda del paese, o solo una storia inventata da
noi bambini, quella che narrava di un tesoro sepolto dai briganti sotto il pero
che si trovava in giardino, forse cento anni prima della costruzione della scuola.
Fatto sta che la faccenda, a furia di raccontarla, era diventata quasi
un’ossessione, soprattutto per noi quattro che, incoraggiati dai giuramenti al
silenzio scambiatici reciprocamente, cominciammo ad interessarci all’albero e al
sottosuolo nel quale erano immerse le sue radici.
Si
trattava, in effetti, di un vecchio albero, che non dava frutti da tempo. I
suoi rami scarni e protesi verso il cielo grigio parevano implorare una tregua al
gelido vento invernale, che lo sferzava senza pietà, ma le sue radici, forti e
nodose come le braccia di un contadino, affondavano saldamente nelle viscere
della terra, a protezione di quel tesoro sotterraneo e misterioso, che ogni
giorno stimolava la nostra fantasia.
Così,
un bel mattino ventoso ci mettemmo all’opera, dividendo equamente il lavoro e
le mansioni. C’era chi scavava, chi faceva il palo e chi nascondeva
accuratamente le tracce degli scavi. Si trattava, però, di un lavoro difficile
e pesante, dato che il giardino era cosparso di grosse pietre e massi e la
terra era dura e si lavorava a mani nude. Per giunta, era necessario che le
nostre fatiche passassero inosservate, si faceva tutto di nascosto, a rischio
di dolorose punizioni, se fossimo stati scoperti. Per molti giorni sacrificammo
i giochi, i soliti passatempi dell’ora di ricreazione e la compagnia degli
altri bambini. Ma niente e nessuno poteva fermarci. Non il tempo inclemente, né
la paura di punizioni severe. Tutta la nostra determinazione di fanciulli era
impiegata nel comune progetto e già assaporavamo le dolcezze che ci avrebbero
ricompensato della lunga e ingrata fatica. Non si parlava d’altro. Tutti i
nostri discorsi avevano sempre il tesoro per oggetto e non ci curavamo più di
null’altro all’infuori di esso. Mi viene una tenerezza a ripensare a quei
giorni. Rivedo me stesso e i miei compagni, come in una foto sfocata, in bianco
e nero, quasi non riconosco i loro volti.
Credo
che il nostro duro lavoro sia andato avanti per settimane, forse per un mese
intero, non ricordo bene, avevamo quasi messo a nudo le radici dell’albero e i
massi e le pietre, che avevamo faticosamente divelto, erano sparse nel raggio
di decine di metri intorno all’albero. Ogni giorno diventava sempre più
difficile nascondere le tracce delle nostre fatiche, ma eravamo arrivati al
momento cruciale: il tesoro esisteva davvero? Decidemmo, pertanto, di conoscere
la verità quella sera stessa appena calata l’oscurità, al riparo da occhi
indiscreti, che avrebbero potuto metterci nei guai, ma soprattutto perché
avevamo la ferma intenzione di non dividere il tesoro con nessuno.
Quel
pomeriggio ci ritrovammo a giocare insieme agli altri bambini, fuori della
scuola, ma non riuscivamo a impegnarci nei giochi, ci mancava la spensieratezza,
tutta la nostra attenzione era rivolta altrove. All’apparire delle prime ombre
della sera, ci defilammo lentamente come fantasmi e ci ritrovammo insieme,
sotto le mura della scuola. Si era alzato il vento e la luna era offuscata, a
tratti, da nuvole nere che non promettevano nulla di buono.
Ci
facemmo coraggio a vicenda e saltammo al di là delle nere mura che ci tenevano
separati dal tesoro. L’edificio grigio della scuola era buio e silenzioso. Era
una strana sensazione guardare quelle finestre, che eravamo abituati a vedere
di giorno, splendenti della luce del sole e vocianti di bambini, chiuse e
sbarrate come gli occhi di un morto. Le suore andavano a letto molto presto e,
certamente, a quell’ora dormivano già profondamente. Finalmente ci trovammo in
giardino.
Il povero albero
desolato si profilava nero all’orizzonte, contro un cielo plumbeo e scuro, come
un grottesco crocifisso e incuteva in noi grande timore. Avanzavamo cauti e senza
alcun rumore, spingendoci a vicenda quando qualcuno di noi si arrestava per la
paura. Grosse gocce di pioggia cominciarono a cadere, mentre il cielo diventava
sempre più fosco, dopo avere inghiottito la luna e il fragore di un tuono si
perse nel fondo della vallata, verso il lago silenzioso che chiudeva la valle
come uno smeraldo imprigionato nella terra.
Il
lavoro cominciò. Bagnati, infangati e impauriti, continuavamo senza sosta. Poco
dopo udimmo alcuni sinistri scricchiolii e l’intera pianta venne giù. Avevamo
abbattuto l’albero! Al suo posto si trovava, ora, una larga voragine oscura. Ci
guardammo negli occhi per un solo istante di smarrimento e continuammo a
scavare, non molto per la verità. Subito, infatti, capitò tra le mani, non mi
ricordo di chi, un oggetto sferico, non molto pesante e non più grande di una
palla. Mentre le gocce di pioggia lo solcavano e lavavano via la terra che lo
ricopriva, vidi in quella cosa che avevamo scoperto due grandi occhi neri che
mi fissavano. Mi sembrò di essere scrutato dalle profondità dell’inferno e
cacciai un urlo.
Era un teschio!
La
pioggia riportò alla luce il resto dello scheletro e lo ripulì amorevolmente
dalla terra che lo aveva ricoperto per tanti anni. Non molto tempo dopo si
scoprì che quelle ossa appartenevano a un bambino che si era perso anni prima e
non aveva più fatto ritorno a casa. A quel tempo, la scuola materna non
esisteva ancora e la collina dove questa sorgeva era coperta da un fitto bosco.
Quel bambino era
stato cercato per giorni, per settimane e per mesi, ma non fu mai trovato.
Immaginai che piangesse spaventato, che si disperasse nel non ritrovare la via
di casa, in quel bosco sconosciuto, eppure così vicino al paese, che chiamasse
sua madre, invocasse i suoi baci e le sue carezze, che urlasse aiuto, ma che
nessuno lo sentisse e, dopo essere crollato addormentato per la stanchezza e il
dolore, il suo sonno lo avesse cullato fino ai margini dell’eternità.
Quell’albero che avevamo sradicato era nato e cresciuto sul suo corpo, aveva vegliato
sul suo riposo, si era nutrito delle sue linfe vitali e aveva costituito il suo
ultimo legame con questo mondo, ergendosi come una croce, sulla tomba del
piccolo.
Quanto
a noi, mai più parlammo di quella storia, il destino ci disperse dopo gli
ultimi giorni di scuola. Io andai via, ma gli altri restarono.
Per caso e alla
spicciolata, li ho rivisti i miei compagni, dopo tutti questi anni. Michele ha
perso quasi tutti i riccioli biondi ed è proprietario di un negozio di
parrucchiere per signora. Peppino è un architetto affermato, ha messo su
qualche chilo, ma porta ancora gli occhiali da miope, mentre di Francesco ho
perso completamente le tracce. Io, invece, solo oggi ho trovato il coraggio di
scrivere questa storia, che ha pesato molto sul resto delle nostre vite.
Non so se gli altri
ci pensino ancora, qualche volta.
Io lo faccio a volte
e provo nostalgia di quegli anni perduti, che non torneranno più a farci
compagnia, se non come muti testimoni su un letto di morte.
COPYRIGHT 1998 ANGELO MEDICI
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vietata
Il racconto è ambientato in un luogo unico, in Capitanata, dalle parti di Lucera, fra Puglia e Molise per intenderci, un altro leggendario territorio sannita.
RispondiEliminaE’ una terra antica.
E’ una terra amara.
Di recente, l’ho attraversata con i miei figli, in tal modo hanno potuto vedere i luoghi in cui sono cresciuto.
Abbiamo visto sassi, polvere e spine. Così mi hanno detto.
Ed è vero.
Sono cresciuto in mezzo ai sassi, alla polvere e alle spine.
In un modo o nell'altro, girandoci intorno o sbattendoci contro, è sempre lì che torno. Ai luoghi della mia infanzia.
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