giovedì 31 ottobre 2013

Le janare


Mio nonno me lo ricordo così, un pezzo d’uomo alto e magro, con il volto sottile, scavato dal sole e dalle intemperie, segnato da mille rughe, una per ogni dolore: la fame, la guerra, la miseria, la perdita di un figlio, la scomparsa della moglie in giovane età. Mio nonno era una persona di grande saggezza, con uno spiccato senso per la giustizia. Giustizia dei campi, pratica, risolutiva, colma di buon senso. Non la giustizia artificiale e complessa delle aule di tribunale dei nostri giorni, debordanti di giurisprudenza che non è più elaborata dall’uomo per l’uomo e per risolvere le questioni ed i problemi che lo affliggono, ma impressa a fuoco, incisa sulla sua pelle viva. Il diritto romano in fondo non era che la codificazione della saggezza e del buon senso del mondo contadino.

Mio nonno metteva a disposizione di tutti i suoi innati talenti. Chiunque avesse avuto bisogno di consigli, di prevenire liti, di appianare dispute e contese, sapeva che avrebbe trovato la sua porta sempre aperta, un bicchiere di vino buono e un’onesta ed equa soluzione alle sue questioni. Ho parlato con tante persone che l’hanno conosciuto e tutti, senza eccezioni, hanno confermato la sua saggezza, onestà e rettitudine. A me dispiace di non averlo conosciuto nel pieno possesso delle sue facoltà intellettive, ma solo nella decadenza dei suoi tanti anni.

Quando penso a lui, mi pare quasi di vedermi comparire davanti la sua figura allampanata e un po’ curva, sempre vestita di scuro, come si conveniva ai gentiluomini di campagna, signori di una volta fatti di una pasta che oggi non è più in produzione: fuori, scorza dura e resistente e dentro, midollo tenero e delicato. Mi sembrava tanto alto, dominava me bambino la sua figura un po’ misteriosa, eternamente avvolta in una nuvola di fumo, le sue sigarette di bassa qualità lasciavano una scia densa e asfissiante che lo accompagnava sempre, ovunque andasse.

Erano inseparabili, lui e le sue sigarette. Le fumava da un bocchino che s’era costruito, segando un pezzo al suo bastone di canna. Fumò col bocchino per tutta la vita, fino a poco prima di morire. Mi ero spesso chiesto da piccolo come potesse un bocchino durare tanti anni, ma vedendo che più passava il tempo e più mio nonno s’ingobbiva, capii che la sua schiena non s’incurvava per il peso del tempo, ma a causa del bastone che diventava via via più corto. Quando il bocchino s’intasava e non tirava più, mio nonno tagliava un pezzo al suo bastone e ne costruiva un altro. Aveva fatto così per tutta la vita.

Me ne rammentai quando andai a salutarlo per l’ultima volta, ch’era già nella cassa da morto. M’ero ripromesso di non piangere, ma quando sfiorai le sue mani fredde, mi ricordai quando da bambino mi accarezzava la fronte. Allora, sentii il gelo entrare nel mio cuore e non ce la feci a trattenere le lacrime e qualcuna di esse cadde sulle sue dita intrecciate. Ma quando una lacrima scivolò fino all’impugnatura del bastone che teneva tra le mani, ch’era ormai ridotto alla lunghezza di un ferro da calza, mi ricordai l’uso che ne aveva fatto e mi scappò da ridere. Ricordo che mi guadagnai le occhiate di riprovazione del prete e anche di qualcuno dei miei parenti presenti alla veglia funebre.

Con le Alfa senza filtro che gli rubavo di nascosto, avrei imparato a fumare, poco più che quindicenne. Il tabacco era pessimo e io ne sputavo di continuo sottili filamenti, che mi restavano attaccati alla lingua e sulle labbra, lasciandovi una patina molto amara dopo ogni tiro. Quel sapore ce l’ho in bocca ancora oggi, anche se ho smesso di fumare.

E’ amaro come la sua assenza.

La storia che sto per raccontare riguarda proprio mio nonno. Mio nonno e la sua sigaretta, mio nonno e il suo mondo, mio nonno e il suo tempo, la fine degli anni venti del secolo scorso e sembra quasi di parlare dell’ottocento e di letteratura russa e pittura francese, ma, per noi del duemila è solo il novecento, che ha appena svoltato l’angolo; ci è bastato girare la pagina di dicembre del calendario millenovecentonovantanove e l’ultimo mese dell’ultimo anno del secolo è svanito.

Irrimediabilmente andato.

Perso.

Mi ricordo quanto mi dispiaceva che finisse il novecento, mi sentivo e mi sento tutt’ora figlio di quel secolo, ma aspettai con impazienza l’arrivo di dicembre, perché nell’ultima pagina del mio calendario c’era la Ferilli mezza nuda. Ma sto divagando, torniamo a noi e stiamo sul pezzo, come dicevano i giornalisti della carta stampata.

Mio nonno da giovane lavorava la terra, l’accarezzava, la palpava come fosse una donna,  per plasmarla e modellarla con le sue mani d’artista, depositarie di una scienza, di una tecnica, di un’arte che si perdeva nella notte dei tempi e che abbiamo quasi dimenticato. Lavorava i campi tutti i santi giorni della sua giovane vita, poi tornava a casa stanco morto, si buttava sul letto, dedicando sicuramente il suo ultimo pensiero, prima di sprofondare nel sonno, a qualche ragazza e il giorno dopo, di buon mattino, andava ai campi per tornare ad amare la sua terra scura e fertile, che sapeva di afrori caldi e umidi. Egli l’amava con il suo impeto giovanile, con veemenza, con l’ardore agreste e bucolico dei suoi anni, di quegli anni ormai andati, gli anni migliori, anni di svolta, quando un uomo compie una decisa sterzata sulla strada di sempre, la strada della sua vita e non lo si scorge più.

Tutti sanno che non tornerà più indietro.

I campi che mio nonno lavorava, che inzuppava di sudore e fatica, si trovavano nei pressi di una fonte d’acqua pura, che sgorgava dalle viscere della terra. Funtan’Janar si chiamava quella sorgente, Fontana delle Streghe, perché la leggenda voleva che proprio presso quella fontana si radunassero le streghe per celebrare i loro sabba maledetti.

Dalle mie parti per dire strega si dice janara , ma nessuno sa con precisione da cosa derivi questo vocabolo. Io credo che il termine provenga dal latino. Del resto, le parole che compongono il dialetto della mia terra, per un terzo vengono dal francese e per un terzo dallo spagnolo, mentre l’ultimo terzo deriva proprio dal latino e janua, nella morta lingua dei romani, vuol dire porta. E forse le streghe erano proprio questo, porte, nodi di accesso, passaggi e vie d’entrata, figure sciamaniche che permettevano la comunicazione tra due mondi, che altrimenti sarebbero rimasti per sempre distinti e separati, il mondo ordinario, solare, conosciuto e sicuro di tutti i giorni e il mondo nascosto, oscuro, denso di nebbia, abitato fantasmi e pieno di cose indicibili e misteriose.

Cose che devono restare nascoste.

 

Ma il mondo ha bisogno delle ombre. Per definire le forme ed i contorni, c’è bisogno delle ombre. Che aspetto avrebbe il mondo se scomparissero e rimanesse solo la luce, nuda e cruda? Un insopportabile inferno di luce.

 

Mio nonno la terra non ha mai smesso di lavorarla con le sue mani robuste e callose di gentiluomo di campagna. Mio nonno la terra non l’ha mai lasciata. Non l’ha lasciata neppure quand’è morto ed è dovuto andare sotto la sua superficie e ora si scalda nel suo eterno abbraccio. Mio nonno, se fosse stato americano, avrebbe festeggiato il compleanno con fuochi d’artificio e hot dogs il giorno dell’indipendenza. Ma era italiano e il quattro di luglio era un giorno come un altro, tra una calda notte d’estate e un’altra. Ma, quando mi capita di leggere o sentir parlare di Independence Day, io penso a lui e alla sua indipendenza, conquistata a caro prezzo a un’età che oggi sarebbe considerata tenera.

Io penso a lui, mio nonno.

Quando mi trovo in situazioni particolari o insolite e non riesco a venire a capo dei problemi, penso a lui e mi chiedo: “Nonno, tu che faresti?” e mi sembra di sentirlo vicino, mi pare quasi di avvertire la sua mano sulla mia spalla e una voce, appena un sussurro all’orecchio, che dice: “Su, su, non ti preoccupare. La soluzione c’è, la soluzione c’è sempre, basta cercarla”.

Me lo ricordo bene mio nonno, che in età avanzata inforcava ancora la sua vecchia bicicletta per andare ai campi. Legata con lo spago alla canna della bicicletta, stava una vecchia, consunta cartella di cuoio, come quelle che usavano una volta i poveri avvocati di campagna. Ma quella misera, rovinata cartella era per me più intrigante del paese delle meraviglie. Era profonda, per le mie piccole mani, quanto il pozzo di San Patrizio.

V’infilavo la mano e c’era sempre qualcosa da scoprire, da cercare, da indovinare al tatto. Era ben nascosta in fondo, tra miriadi d’altri oggetti, ma bastava rovistare bene e qualcosa si trovava sempre. Le mie dita frugavano e frugavano e finalmente trovavano. Sentivo al tatto una consistenza ruvida (pane vecchio raffermo?), poi, la superficie liscia e compatta di un oggetto (un uovo?) e filamenti sottili che si disgregavano al contatto con le dita (tabacco sciolto?) e ancora qualcos’altro, un oggetto liscio e freddo (la bottiglia di vino rosso piena a metà per dissetarsi nelle lunghe giornate estive?) e alla fine, solo alla fine, trovavo quello che stavo cercando da un pezzo. Sentivo lo strato di stagnola scrocchiante, indovinavo la forma oblunga e appiattita dell’oggetto e intuivo il suo interno, più prezioso dell’esterno.

Cioccolatini.

Non mancavano mai nella cartella di nonno. Li metteva apposta per farmeli cercare, per regalarmi, oltre al gusto di mangiarli, il piacere di cercarli uno ad uno. Mi dava il permesso di frugare tra le sue cose, per accendere e stimolare in me la curiosità di bimbo affascinato e stuzzicato dalle sue cose, da quei mille oggetti più o meno utili, comuni o insoliti, che si portava dietro ovunque andasse.

Ma mi accorgo che sto divagando ancora. La storia che volevo raccontare è indietro nel tempo, quando mio nonno aveva solo quindici anni. Non era ancora uomo, ma già lavorava la terra, da un bel pezzo.

Questa storia riguarda proprio mio nonno, come dicevo. E’ stato lui a raccontarmela.

Era la notte di Natale e mio nonno era andato a casa di uno dei suoi amici. S’erano riuniti, gli amici, per giocare a carte- Tressette, briscola, sette e mezzo, i soliti giochi della vigilia di Natale erano scorsi lentamente sulle carte da gioco sporche e unte. Qualcuno aveva vinto, qualcun altro aveva perso.

Chi aveva vinto pensava a come spendere il rispettabile gruzzolo che aveva guadagnato, chi aveva perso si consolava con il detto “sfortunato al gioco, fortunato in amore”, pregando di perdere sempre, perché aveva adocchiato quella ragazzina carina, proprio niente male, quella con le trecce e gli occhi azzurri e il vestito grigio, che si metteva per andare a scuola, sempre lo stesso tutti i giorni, tutto lacero e rattoppato, ma non vi si faceva caso. Era così che si vestivano tutti.

Dopo la partita a carte avevano deciso di fare un giro per il paese, ad aspettare la mezzanotte, a guardare le stelle, che avevano fatto capolino dalle nuvole grigie, stelle belle e lontane, lucidate di fresco dalla pioggia abbondante che era caduta fino a poco prima. Non c’era nessuno per strada a quell’ora e loro effondevano nel tempo vuoto che li separava dalla mezzanotte motti arguti, sguaiataggini irriverenti e battute di spirito per darsi coraggio, per superare i confini dell’istante che precedeva l’ora della loro separazione, quell’istante che speravano potesse invece fermarsi per sempre. Così, i ragazzi avevano bighellonato di qua e di là, percorso tutte le vie del paese, si erano recati sotto tutti i balconi e le finestre dietro le quali stavano le ragazze più belle e loro conoscevano a memoria ogni balcone e ogni finestra. La notte era limpida e molto gelida ed ebbero freddo.

Allo scoccare della mezzanotte, dopo essersi scambiati gli auguri di Natale, balbettando le sillabe tra i denti che battevano per il freddo, con le mani intirizzite, che non riuscivano a scaldarsi nelle tasche dei pantaloni e tirando su col naso, si erano separati a malincuore, ma con la promessa di rivedersi l’indomani e si erano dileguati per le vie del paese, ciascuno diretto al tepore della propria casa. Mio nonno era rimasto solo. Mi si stringe il cuore a pensare a lui, un ragazzetto tutto solo, stretto nel suo povero cappotto consunto e rabberciato alla meglio, attraversare la notte sulla via del ritorno.

Tornava a casa, dicevo, quando, oltre il muretto che separava la strada dal fiume, oltre il fiume stesso, sull’altra sponda, intravide dei bagliori rossastri. Non c’era un’anima in giro e incuriosito, attraversò la strada per andare a vedere. C’erano delle figure sedute, accoccolate intorno a un fuoco. Il vento portava a tratti le loro voci, che attraverso il mormorio del fiume giungevano fino a lui. E mio nonno non udì parole, risate, lazzi, come si sarebbe aspettato per una festicciola nel cuore della notte di Natale, come credeva che fosse quella che stava osservando. Udì, invece, strepiti, lamenti, urla disumane. E si spaventò. Ma la curiosità fu più forte. Non scappò via, ma si acquattò ben nascosto dietro il muretto e continuò a guardare. V’erano delle figure oscure, dai lunghi capelli bianchi, che danzavano intorno al fuoco ed emettevano gli strepiti più osceni. Parole incomprensibili venivano di là dal fiume e mio nonno stava fermo e immobile, schiacciato contro il muro, stretto nel suo cappotto, a guardare e ascoltare.

La danza non si arrestava, anzi le figurette scure si agitavano sempre più e giravano più velocemente intorno al fuoco. In quel momento sorse la luna piena e inondò di luce le misteriose figure. Una sola parola venne in mente a mio nonno per descrivere quello che vedevano i suoi occhi.

“Streghe!” urlò nel più profondo dei vuoti e dei silenzi, o almeno, credette di urlare, perché le sue labbra non si mossero e la sua gola non emise alcun suono.

Ma streghe erano. E cos’altro avrebbero potuto essere quelle sinistre forme, se non orride streghe dai capelli scarmigliati, orribili megere, vecchie spaventose dai seni cadenti che celebravano il loro terribile sabba nella notte di Natale, schiave di desideri impossibili, concubine delle notti insonni dell’Innominato Messere, ultime discendenti di una progenie nata dal sangue di Giuda, che dalle bocche sdentate, assaporando il dolore e il rimpianto, bestemmiavano e sputavano nella terra benedetta?

 

Un brivido freddo passò attraverso la schiena di mio nonno e gli parve che il cuore perdesse colpi. Ma rimase fermo al suo posto, acquattato dietro il muretto, dall’altra parte del fiume, immobilizzato dalla paura, mentre le orribili presenze profanavano la notte. E le arpie danzavano e danzavano, si contorcevano e rantolavano intorno al fuoco ardente, che scagliava faville rossastre contro il cielo puro della notte.

E le loro ombre enormi, ingigantite dal fuoco, danzavano anch’esse intorno al falò sull’orlo della notte e contagiavano di un nero morbo la terra e il fiume. Il loro convegno infernale riempiva tutta la notte e gli occhi e le orecchie del mio povero nonno, che immobilizzato dal terrore, era rapito dalle loro strida e da quelle visioni terrificanti. Era impossibile sottrarvisi.

Poi tutt’ad un tratto, la danza si fermò e gli strepiti cessarono. Le vecchie si erano accoccolate intorno al fuoco e stavano immobili. Dalle loro bocche fluiva ora un’oscura preghiera. Solo le mani si muovevano, si protendevano verso il fuoco in un movimento in avanti, seguito, subito dopo, da uno verso l’indietro. Sembrava che si lanciassero qualcosa attraverso le fiamme. Mio nonno aguzzò lo sguardo per vedere meglio e con suo supremo sgomento si avvide che le cose che le streghe si lanciavano attraverso le fiamme erano bambini. A turno li lanciavano e a turno li riprendevano, dopo averli fatti saltare sulle lingue di fuoco.

Bambini, tanti, piccoli bambini, paffuti e morbidi come grossi gomitoli di lana, volteggiavano sopra e attraverso le fiamme. Li stavano cuocendo lentamente.

Mio nonno osservava la scena a occhi sbarrati e con la bocca spalancata per lo stupore. A ogni suo respiro, grosse nuvole di vapore abbandonavano la sua bocca e si rattrappivano nell’aria gelida. Il suo cuore batteva all’impazzata. Doveva fuggire, scappare via, se le janare si fossero accorte di lui, avrebbe fatto la fine dei bambini. Sopraggiunse il panico che slegò le sue gambe, trattenute fino a un istante prima dalla paura.

Si levò e fece qualche passo. Ma non riusciva a correre. Si sentiva le gambe molli. Metteva avanti un piede e vi buttava sopra il peso del corpo, così che potesse far avanzare l’altro piede. Era l’unico modo in cui riusciva a muoversi, ma presto si trovò lontano dalla sponda del fiume e del bagliore delle fiamme e degli strepiti non rimase altro che il ricordo. Più si allontanava da quei luoghi di profanazione, più sentiva il sangue tornare a fluire dentro le vene, un calore inatteso si diffuse per tutto il corpo e gli mise le ali alle gambe, così riuscì finalmente a correre fino a quando non si trovò, senza neppure sapere come, dinanzi all’uscio di casa sua.

Tirò fuori la grossa chiave dalla tasca dei pantaloni e tentò d’infilarla nella toppa, ma per quanto provasse, la chiave non voleva saperne di entrare, la sua mano tremava troppo. Allora prese la chiave con due mani e solo al terzo tentativo riuscì a centrare il foro e ad aprire finalmente la porta.

L’uscio si spalancò sul suo piccolo mondo conosciuto, tiepido, rassicurante. C’era tutto quello che conosceva da una vita. Dentro la sua casa, nessuno poteva fargli del male. Passando per la cucina vide le braci del focolare ardere ancora attraverso il buio. La casa era molto silenziosa. Tutti erano a letto da un pezzo. Raggiunse la sua stanza e si spogliò lentamente per non svegliare gli altri occupanti dei letti. Poi si buttò sul pagliericcio, abbracciandolo come un naufrago privo di forze.

Ma non dormì. Non gli riuscì di prendere sonno. Aveva sempre davanti agli occhi le immagini infuocate e terribili, le vecchie spaventose che ghignavano nel buio. E i bambini, i poveri, piccoli bambini! Non poteva smettere di pensare a loro. Gli pareva di udire le loro urla nel silenzio della sua casa. Gli sembrava di vedere ombre mescolate alle ombre familiari della casa addormentata, che avanzavano con lunghe dita nere verso il suo letto.

Cos’era quello che aveva visto?

Poteva davvero fidarsi dei suoi occhi?

Era sconvolto. Lo spettacolo a cui aveva assistito era stato spaventoso e inquietante. Si era spinto un passo avanti verso le tenebre, si era sollevato un velo su cose che dovevano restare nascoste. Come quella notte della vigilia d’Ognissanti.

Per tutto un anno, ogni mattina, quando si puliva le orecchie, aveva messo da parte il cerume per costruire una candela che gli avrebbe permesso di vedere i morti che tornano nelle loro case la vigilia d’Ognissanti, proprio come dice la leggenda. Ma il trentuno di ottobre, la candela non era più una leggenda, era finalmente diventata realtà.

Era stato inquieto per tutta la giornata della vigilia, rigirandosi tra le mani quella strana candela. Finalmente, calato il sole e sopraggiunta l’oscurità, era andato tutto tremolante alla finestra del piano terra che dava sulla strada e al terzo tentativo, era riuscito ad accendere la candela. Scrutava la strada in lungo e in largo, ma non vedeva nulla. Rimase da solo alla finestra alcune ore, rabbrividendo fino a notte inoltrata.

Stava quasi per spegnere la candela e andarsene a dormire, quando gli sembrò di vedere qualcosa al limite dello sguardo, proprio là dove terminava la notte. Apparvero da quel lato un paio di ombre diafane, tremolanti, che procedevano verso il centro della strada buia, poi sopraggiunsero altre ombre, molte altre, una lunga fila, una schiera di morti, una moltitudine infinita, una processione di defunti. E di tanto in tanto, un’ombra si staccava dalla fila per dirigersi verso l’uscio di un’abitazione. La processione raggiunse la sua casa. Era una massa oscura, un lungo fiume d’ombra, dalla quale si dipartivano altre scie scure, come effluenti fatti solo di notte e di tenebra.

Mentre guardava a bocca e occhi spalancati, una di quelle ombre si era separata dal flusso e aveva sfiorato la sua finestra. Era accaduto tutto in un breve istante, ma a mio nonno si era gelato il cuore, come se l’ombra scura della morte lo avesse rapito dal mondo e sottratto alla terra, alla luce, alla vita. Un brevissimo interludio di morte. Ma quel gelo nel cuore aveva causato in lui una malinconia spietata, incomprensibile, un rimpianto che non aveva mai provato prima, un sentimento che non si poteva raccontare, che gli parlava delle vastità incolmabili e deserte delle pianure della morte. Aveva spento la candela con un soffio ed era fuggito via.  

A chi apparteneva quell’ombra?     

La luce grigia del mattino d’inverno illuminò la stanza. I suoi fratelli si svegliavano dai letti vicini, lentamente emergevano dal lungo fiume della notte, che li aveva cullati e protetti nel loro sonno. Nella stanza aleggiava ancora l’odore delle tenebre, ma la mamma venne subito ad arieggiare la camera. I suoi fratelli si erano alzati dal letto e già auguravano Buon Natale alla loro madre e lei ricambiava con lunghi, caldi abbracci, ma mio nonno non si levava, se ne stava dentro il suo letto, il volto pallido, le occhiaie pronunciate, il corpo scosso dai tremiti.

Betta, sua madre, gl’impose la mano, fresca e lieve come una benedizione, sopra la fronte e trasalì. Scottava! Aveva la febbre alta. A mio nonno era venuta la febbre per la paura!

Betta era preoccupata e incuriosita al tempo stesso. Mio nonno era un ragazzo forte, sano come un pesce, non si ammalava facilmente. Lo incuriosiva questa sua improvvisa indisposizione, quella febbre così alta. Non era, tuttavia, la febbre a preoccuparla, ma qualcos’altro che intuiva dagli occhi di mio nonno, che avvertiva in fondo alla sua voce tremolante, qualcosa che aveva scatenato il moto nervoso delle sue membra. Mio nonno era molto spaventato e sua madre se n’era avveduta.

Ma fu solo dopo molte insistenze e moine e coccole e anche qualche minaccia, che sua madre riuscì a farlo parlare e mio nonno, finalmente, balbettando e interrompendosi in continuazione, cominciò a raccontare.

“Sai mamma, ieri notte tornando a casa ho visto… “ e raccontò tutto quello che aveva visto e sentito la notte prima.

Sua madre cercava di tranquillizzarlo mostrandosi incredula, ma si accorgeva anche lei che suo figlio era molto scosso e che qualcosa doveva avere pur visto dall’altra parte del fiume. Così, senza dire niente a nessuno, mentre mio nonno giaceva a letto e i suoi fratelli sbranavano letteralmente la colazione, più abbondante del solito, della mattina di Natale, Betta si recò, passando per il ponte e attraversando il fiume, nel posto che gli aveva indicato il figlio e proprio lì, sulla terra umida, trovò le tracce del fuoco, la cenere ancora calda e gli avanzi di un frugale banchetto.

Betta si fece il segno della croce, spaventata e scappò via, indietro sui suoi passi, verso casa. Non ne fece parola con nessuno, né con suo marito, né con gli altri figli, ma raggiunta la stanza di mio nonno, e gli sussurrò: “Ho visto!” sgranando i suoi grandi occhi azzurri. Mio nonno immerse gli occhi nei suoi e vi lesse il suo stesso terrore.

Non dire niente a nessuno, gli stava dicendo Betta, niente a nessuno, diceva, con l’indice a punto esclamativo che chiudeva le sue labbra con un lungo shhhhhhhhhhhh. Poi, si allontanò e lo lasciò solo. Egli si sentiva debole, infreddolito, tremava dentro quel letto dove aveva passato la lunga notte insonne, in quel letto che non riusciva a scaldarlo. Mio nonno si girava e rigirava con grandi fruscii e proprio non riusciva a starci in quel letto, il pagliericcio diventava sempre più duro sotto il suo corpo, come una lastra di marmo tombale e il guanciale era rigido come una lapide. Non ce la fece a seguire i consigli di sua madre, doveva parlare con qualcuno, aprirsi, confidarsi. Chi meglio dei suoi amici più cari era adatto allo scopo? Pensò e ripensò e finalmente gli balenò davanti il volto di Antonio, il ragazzo più grande della combriccola. Così si risolse ad abbandonare il letto gelido, si vestì velocemente e nonostante la febbre e nel più assoluto silenzio, aprì la finestra della stanza e sgattaiolò di fuori.

Sapeva dove trovare Antonio, il ragazzo era molto mattiniero e sicuramente a quell’ora sarebbe stato già in piazza ad assaporare l’aria gelida della mattina di Natale. Lo trovò subito. Pallido e sofferente in volto, tremando per la febbre, il freddo e la paura, gli si avvicinò.

“Lo sai che… “

L’altro lo ascoltò attentamente, strabuzzando gli occhi durante i passaggi più incredibili o spalancando la bocca nei momenti più angosciosi del racconto, che mio nonno sciorinava impetuoso come un torrente di montagna.

“Mi raccomando, non dirlo a nessuno. Lo sai solo tu e… mia madre!” si raccomandò  quand’ebbe finito.

“Si, si, non preoccuparti” lo rassicurò l’altro “Vedrai che sarò muto come un cadavere. Certo che è incredibile quello che hai visto. Io sarei morto di paura.”

“Certo che è incredibile. E anche spaventoso. Me la sono quasi fatta sotto!” disse mio nonno.

“E ti credo” rispose Antonio “Ora va, fila subito a casa e mi raccomando, infilati a letto, se no prendi una polmonite!” aggiunse.

Ma come mio nonno non era riuscito, neppure lui riuscì a mantenere la parola. Troppo grossa era la faccenda, troppo inquietante era il mistero, troppo grande il fardello per portarlo da solo senza scaricarne un po’ il peso su qualcun altro. Così, in breve, tutta la combriccola di amici seppe e non solo loro, ma anche i loro padri e le loro madri seppero e in men che non si dica, nonni, zii e zie, cugini, fratelli e sorelle, nipoti, amici e amici degli amici e semplici conoscenti seppero, tutto il paese seppe la storia, con tutti i particolari, del sabba maledetto della notte di Natale e dei piccoli pargoli indifesi, rosolati e cotti a puntino, perchè diventassero il soffice e tenero pasto per le bocche sdentate delle orribili vecchie megere.

Era Natale. In capo a un’ora tutto il paese sapeva e s’interrogava e tremava su quella strana, inquietante faccenda. Ne parlavano tutti, ma proprio tutti, le donne nelle case, gli uomini in osteria, i bambini che sciamavano vocianti per le vie del paese e i vecchi che si scaldavano le ossa dinanzi al focolare. Era diventato l’argomento principale delle conversazioni, anzi, si potrebbe dire che fosse l’unico argomento di conversazione perché, normalmente, non ci sarebbe stato altro da dir. La scena che si ripeteva centinaia di volte per le vie e per le piazze del paese era un rituale e frettoloso scambio di auguri, poi, uno dei due interlocutori ammiccava repentinamente, l’altro spalancava gli occhi come per ascoltare meglio e il primo, che non aspettava altro, attaccava:

“Lo sai che… “

La notizia volava sulle bocche rapida come un fulmine, più veloce del telegrafo e più passava di bocca in bocca, più la storia si arricchiva di particolari incredibili di cui, a dire la verità, nel racconto originale di mio nonno non v’era traccia. Vecchie nude a cavallo di scope infuocate, con i capelli incendiati di argento di luna solcavano i cieli notturni, piombavano nelle case a ghermire come orridi uccelli notturni, piccoli indifesi nelle loro culle, profferendo oscene e irripetibili proposte ai loro padri a letto e sussurrando oscure minacce alle loro mogli.

Vi era perfino chi sosteneva con certezza che, a un certo punto della storia, fosse comparso pure lui, l’essere senza volto, senza nome e senza ombra, il cavaliere nero, il signore delle tenebre, nella sua infinita solitudine. Perfino il prete ne fu turbato, quando la notizia giunse al suo orecchio.

Nel giro di un paio d’ore, duemila anime in pena vagavano sbigottite per il paese.

Ma verso mezzogiorno, quando ormai gli abitanti del povero borgo si avviavano verso casa, pregustando il pranzo di Natale, a lungo sospirato, un uomo anziano e un giovane, che dovevano avere qualche lontano parente in comune, s’incontrarono nella piazza principale oramai deserta e si scambiarono gli auguri. Il vecchio ammiccò al giovane e subito attaccò:

“Lo sai che… “

Il giovane trasecolò.

“Ma… ma quali streghe?” disse “C’eravamo noi sulla sponda del fiume ieri notte, altro che streghe!”

In breve, il giovane spiegò che con numerosi altri amici aveva percorso il paese nella notte santa, a capo di una compagnia improvvisata di musicanti, imperversando per le strade con grande fracasso, tanto che i gatti fuggivano terrorizzati al loro passaggio e i cani ululavano alla luna. Avevano intonato un ricco repertorio di canti sacri e di stornelli meno sacri, di canzoni appassionate e serenate per amori profani, specie sotto alcune finestre, dalle quali erano stati scacciati da certi padri minacciosi.

Le loro buffonesche esibizioni s’erano però interrotte all’improvviso, erano stati sorpresi da un forte acquazzone e non sapendo dove rifugiarsi, s’erano inzuppati ben bene fino alle ossa. Terminato che fu il rovescio notturno, avevano stabilito di recarsi sulla sponda del fiume e avevano acceso un fuoco per asciugarsi. Si erano tolti i vestiti bagnati, rimanendo in maniche di camicia e si erano posti sulla testa, chi a mò di turbante, chi a mò di velo, degli stracci e dei fazzoletti per asciugarsi i capelli e il loro candore, da lontano, complice la luce argentea del plenilunio, aveva conferito loro le sembianze di orride streghe dai capelli bianchi e scarmigliati. Mentre si scaldavano al fuoco, avevano ripreso a cantare le loro canzoni sguaiate e dopo, avevano cominciato a ballare seminudi intorno alle fiamme. In questo modo, si asciugavano e si scaldavano alla luce viva della fiamma.

Ecco spiegato l’orribile sabba!

Dopo essersi asciugati, avendo fatto dei fagotti con i loro vestiti, si erano accoccolati intorno al falò e se li erano lanciati l’un l’altro, per gioco e per farli asciugare, sopra le fiamme. Il giovane aggiunse a questo punto che più di un fagotto era sfuggito alla presa o aveva fatto un volo troppo breve e qualche pezzetto era finito sul fuoco, risultandone annerito o addirittura bruciacchiato. A riprova di ciò, mostrò un lembo del suo cappotto che presentava inconfutabilmente una discreta porzione annerita dal fuoco. Niente di più facile che da lontano, quei fagotti di panni bagnati fossero scambiati per bambini da arrostire.

Ed ecco spiegato anche il terribile banchetto!

La soluzione del mistero si propagò ancora più velocemente per il paese di quanto avesse fatto il mistero stesso, tanto che fece in tempo a diventare l’argomento di conversazione delle battute finali del pranzo di Natale.

I paesani si cercavano alle finestre l’un l’altro, con la voce o picchiettando sui vetri e quando la finestra si apriva e spuntavano fuori le teste degli inquilini o, se questi non erano abbastanza lesti, infilando addirittura le loro teste all’interno delle case, ammiccavano e attaccavano:

“Lo sai che… “

Così tutti tirarono un sospiro di sollievo, le anime in pena si acquietarono, l’intero paese si tranquillizzò. Si calmò perfino il prete e anche mio nonno sorrise finalmente, malaticcio e febbricitante dentro il suo letto, circondato dai suoi amici.

Passarono i giorni, i mesi e gli anni, anni veloci come frecce e venne un tiranno vestito di nero e portò la guerra e la guerra si portò via tanta brava gente, ma poi arrivarono gli americani e tornò la pace, arrivò la luce elettrica nelle case e i lampioni per le strade e le notti non furono mai più buie e le streghe non volarono più nei cieli notturni. Così la storia fu dimenticata, ormai c’era ben altro da raccontare.

Ma non venne scordata proprio del tutto.

Ogni tanto qualche anziano la tira fuori ancora, basta solo avere pazienza e la storia verrà fuori. Egli farà prima un lungo sospiro, guardando indietro nel tempo con gli occhi umidi e cisposi, poi ammiccherà e attaccherà:

“Lo sai che… “

 

****************

 

Ho sempre adorato le storie che le persone anziane raccontano ai bambini, strane storie di streghe e di fantasmi. I vecchi a volte non sanno più distinguere il vero dal falso, i sogni dalla realtà, le ombre dagli oggetti che le proiettano e noi, eterni bambini, li guardiamo con un po’ di tristezza e di stupore, come se guardassimo cose mai viste prima, ma chiediamo loro di continuare a raccontare. Amo le storie semplici e a volte ingenue dei nostri vecchi e mi commuove il loro modo tenero e gentile di amare i bambini. Mi fanno tenerezza. 

Io penso che abbiamo una grande responsabilità nel vivere le nostre vite, perché ci portiamo dietro tutto l’amore, i desideri e le speranze dei nostri vecchi, dei nostri cari, dei nostri antenati. In ogni gesto che facciamo, in ogni parola che pronunciamo c’è un po’ di essi, c’è qualcosa di coloro che ci hanno preceduto. I nostri vecchi sono gli specchi in cui ci riflettiamo.

E niente si perde davvero.

Una lunga catena lega noi a loro, indietro nel tempo e indietro e indietro, fino al primo della serie, il capostipite che nessuno conosce, che nessuno immagina, che nessuno sa chi sia, ma possiamo stare certi che è esistito. Una catena di dolore, di vita e di morte, una catena di sangue, di coraggio e di amore, che nessuno potrà mai spezzare.

Non saremmo così come siamo se non ci fossero stati loro e ora ci sembra, a noi che restiamo, che essi ci guardino da lontano con occhi colmi di amore e di speranza, che sorveglino nel loro modo gentile le nostre azioni, le nostre parole, le nostre piccole vite, per suggerirci il gesto migliore, la parola più giusta, il modo più corretto di parlare, di camminare, di agire. Essi, ne sono convinto, cercano di guidarci con il loro amore e con il loro esempio, per evitare che cadiamo. E come gli specchi, stavolta siamo noi a riflettere loro. Abbiamo grandi responsabilità verso di essi. Ci hanno ceduto lo scettro, ci hanno passato il testimone, ora tocca a noi. Non possiamo deluderli. Non dobbiamo.

Nonno, nonno, nonno che vivevi in un tempo in cui le paure erano ingenue e il conforto sollecito e amabile, i terrori terribili e ancestrali, ma le spiegazioni sempre pronte a portata di mano, era un tempo di vita semplice, senza effetti speciali e connessioni iperveloci e telefoni intelligenti. Ora siamo soli anche in un mare di gente e affondiamo in oceani di informazioni inutili, mentre il tuo era un tempo in cui non si era mai davvero soli, anche se non si sapeva niente, in cui nessuno veniva lasciato da solo, nessuno restava indietro, anche se non contava niente. Un tempo che non c’è più. Un mondo che è sparito, per sempre, come te, nonno.

Nonno, nonno, dove sei ora?

Cosa darei, nonno, per tornare bambino, anche per una volta sola, anche solo per poche ore, per poter bussare ancora alla tua porta e trovarti accanto al camino, con la fiamma che illumina di rossi bagliori il tuo viso amato, intento ad arrotolare la tua ennesima sigaretta di infima qualità, che darei per tenerti per mano ancora una volta, mentre tu tieni la mia, la mia piccola mano dentro la tua, i miei passi all’ombra dei tuoi, la mia figuretta che sgambetta e si muove incerta accanto alla tua figura imponente, la mia ombra che ondeggia e si unisce alla tua. Un’ombra sola proiettata da due persone, un’ombra fatta di due ombre, un gigante e un bambino a spasso per le vie del paese.  

Nonno, sia la terra in cui riposi e che tanto hai amato, morbida e leggera come una coperta di lana e che il sole e la pioggerella di primavera ti donino un fiore, profumato e colorato come i cioccolatini che mi regalavi, un fiore di campo, come lo eri tu, come lo sono io, un bocciolo per farci sapere che l’inverno è davvero finito, che le querce protendano i loro rami scuri per concedere alle tue ossa antiche il refrigerio dalla calura estiva e prego la notte di regalarci una stella cadente, che attraversi, scintillante e veloce, la volta celeste in un misero bà!, per ricordare a noi che ci siamo ancora, te che non ci sei più.

Sei stato un padre, quando avevo bisogno di un padre, un amico quando avevo bisogno di un amico, un grande narratore quando avevo bisogno di ascoltare le tue storie, buie e tenebrose, ma sempre a lieto fine.

Nonno, c’incontreremo ancora un giorno, tu lo sai e io so che ci sarai per tenere la mia mano nella tua, grande grande, come quando ero piccolo e ci avvieremo insieme, mano nella mano, incontro alla notte.

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giovedì 24 ottobre 2013

Il padrone dei ricordi


“Vissi come erba e non mi strapparono.”

(Alvaro de Campos, Scritto su un libro abbandonato in viaggio)

 

1.

Avvertiva il peso degli anni, come una coltre di neve candida e greve, accumulatasi inesorabile con lo scorrere del tempo, sulla sua schiena, che s’incurvava ogni giorno di più sotto il fardello degli anni andati, mentre si assottigliava quello degli anni a venire. I suoi capelli bianchi, stranamente forti, resistevano in cima al cranio rugoso e solcato dalle vene. Alcuni giorni capitava che non avesse la forza di trascinare in giro i suoi stanchi passi e allora se ne stava intere giornate presso il camino, intento a sorseggiare il suo tè. Ma quando il tempo era clemente, ritrovava il coraggio di avventurarsi in lunghe passeggiate in luoghi molto impervi e distanti dalla sua piccola casa di legno e sfidare la ridente natura primaverile, nel pieno del suo autunno esistenziale.

Girovagava per i boschi freschi e oscuri, odorosi degli umidi umori del sottobosco e placava la sua sete, abbeverandosi a una fonte di acqua pura, fresca e cristallina. Quand’era stanco, si ritemprava all’ombra dei faggi secolari, cingendone i larghi, possenti fusti con le scarne braccia.

Si accontentava ormai, di poco più di niente. Il piacere limpido e frugale di asciugare le vecchie ossa al calore vivido dell’alba, alla ricerca di nuove parole per narrare le sue vecchie storie, il tepore del fuoco nel camino, godendo delle timide lingue di fiamma ardente sprigionate da vecchi ciocchi odorosi di resina e di tempo, che impregnavano la sua povera casa e infine, sorseggiare, nelle fredde serate di novembre, vino rosso novello in un bicchiere incrinato.

 Le sue giornate trascorrevano lente e uguali, il futuro ormai non poteva più riservargli sorprese. E non ne chiedeva, dall’alto scranno degli anni sul quale era assiso. Quando il tempo era rigido e non gli permetteva di uscire, se ne stava alla finestra a contemplare le vette maestose dell’appennino, già imbiancate di neve fin da novembre e i boschi di faggio e gli aceri che oscillavano paurosamente, frustati dal vento. Trasaliva rapito, al brontolio del tuono dietro le cime dei monti, dalla volta cupa e tempestosa del cielo e si smarriva finalmente, acquietatasi la tempesta, nella contemplazione dell’azzurro infinito, terzo, lavato dalla pioggia

            La casetta che si era costruito in una piccola radura erbosa tra le montagne costituiva un sicuro rifugio dal vento e dalle temperature rigide dei monti, che di notte scendevano molto sotto lo zero, ma soprattutto, dai suoi numerosi e fragili anni di vecchiaia. Essa dominava, ormai, la sua vita dall’alto degli anni e scagliava in un nero oblio le ere lontane della sua giovinezza.

            La vita non era mai stata tenera con lui. Aveva dovuto fare i conti, fin da bambino, con la miseria, con la fame e con la guerra, aveva dovuto viaggiare per sopravvivere, aveva conosciuto la malinconia e la tristezza di mondi nuovi e australi, ma era riuscito a ritrovare la via di casa nella schiumosa scia di un bastimento e, quando finalmente aveva raggiunto una certa misura delle sue sostanze, accumulando anni dopo anni di durissimo lavoro, certo non l’agiatezza, ma quel tanto bastante a vivere senza troppo affanno, la morte aveva sistematicamente spazzato via i suoi affetti più cari, ma lo aveva risparmiato. Scorato e abbattuto, aveva vagato per le vie della sua città un’intera notte di dicembre, rendendosi conto solo all’alba, che non c’era più nessuno che avesse in pregio la sua sorte. Era solo al mondo, come un cane.

Era piombato, allora, nella più cupa disperazione, che lo aveva cacciato in una nera cecità  gl’impediva di aggrapparsi almeno agli anni che gli restavano da vivere. Rifiutato dalla morte ciondolava tutto il giorno per le strade. Trascorreva i suoi lunghi giorni bevendo da solo nei bar e nelle osterie e spesso preferiva non tornare alla casa, popolata ormai solo dai fantasmi e dalle ombre e s’addormentava nel fango dei fossi e sul freddo ferro delle panchine, coi ricordi affogati nelle tenebre alcooliche della sua coscienza.

Due freddi inverni durò quel vuoto e freddo vivere.

            Un giorno, pieno di vino e stanco più degli altri giorni, cominciò a camminare senza rendersene conto. Ben presto, uscì dalla città e si ritrovò in campagna; attraversò ruscelli e fiumiciattoli e campi e stradine polverose. Sul far della sera, scorse da lontano, stanco e affamato, la misera casa di un contadino.

Vi arrivò a notte alta: una luce alla finestra lo aveva guidato fino lì attraverso l’oscurità. Si nascose nel fienile e vi passò il resto della notte, in uno stanco e deprimente dormiveglia, durante il quale ripassarono davanti ai suoi occhi arrossati tutti i giorni, le ore e i secondi della sua esistenza andata e riapparvero i fantasmi delle persone che aveva amato.

            Solo poco prima del termine della notte, in quell’ora che è ancora incerta la luce e più veemente il buio, si abbandonò finalmente al sonno vero. Ma fu risvegliato, al sorgere dell’alba, dalla luce opaca e grigia, che filtrava da un grosso foro nelle mura del fienile. Appena fuori, il giorno livido e freddo si stendeva sulla pianura.

Riprese il suo viaggio senza meta e, andando, la strada si faceva sempre più ripida. Camminava come un cieco. La vallata era vuota, non un uomo, né un animale, ero solo nel suo viaggio, come fosse stato l’ultimo discendente di una specie ormai estinta.

            La salita si faceva sempre più faticosa e l’erta gli spezzava il fiato, ma non si fermò un solo istante. Le file deli alberi si fecero più strette e la strada si perse in un bosco fitto e oscuro. In alto, le cime degli alberi ondeggiavano nel vento, davanti, l’intricato labirinto dei tronchi e delle rocce e, sotto i piedi, erba umida e soffice muschio. Alberi antichi, enormi, rugosi per la corrosione degli anni agitavano i rami contorti e distesi a proferire oscure minacce, come giganti immobilizzati nella loro furia, e si torcevano come se volessero strappare le radici dal terreno e fuggire via.

Ma la severità della foresta si stemperava; il cielo azzurro, inframmezzato dal candore abbacinante delle nubi, squarciava le cime degli alberi; il sole punteggiava di macchie d’oro le chiome alberate; le forme si addolcivano, la cupezza e l’intensità del verde si attenuavano insieme, le ombre si dissipavano.

Uscì dal bosco senza preavviso, sbucando in una vasta radura, trapuntata d’erba e punteggiata da cespugli di malva. Su di lui incombeva l’eternità delle montagne.

            Cadde in ginocchio e pianse.

Pianse tutto il suo male, con il viso nascosto nella terra. Piangeva e singhiozzava, abbracciando la terra come un bambino disperato abbraccia la madre. Piangeva così forte che gli dolevano il petto e la gola. Non aveva mai pianto così in tutta la sua vita: era un lusso che non si era mai potuto permettere e il dolore si era inevitabilmente accumulato a strati sul suo cuore, come ere geologiche. Poi finì le lacrime, il dolore si attenuò e, lentamente, fu portato via dal vento. Si rialzò. Sembrava che avesse lottato contro le furie infernali. I vestiti erano laceri e strappati, imbrattati di fango e bagnati. Aveva il volto e le mani coperte di tagli e graffi.

            Si guardò intorno e, mentre con dolcezza l’angoscia si scioglieva e lasciava spazio a sensazioni mai più provate in tanti anni, decise che da quella piccola radura tra i monti, da quel piccolo angolo di mondo, sarebbe risorta la sua nuova vita. Gli era stata concessa un’altra occasione e non aveva intenzione di lasciarsela sfuggire. Così tornò nella città, in quella casa che odiava, mise in vendita quel poco che aveva e da allora, la sua esistenza trascorse libera dall’odio e dal tormento, dal dolore e dal rimpianto, assecondando il ritmo lento ed immutabile della natura.

 

2.

            Alle pendici del monte abitava un vecchietto alquanto sciroccato. In passato, aveva visto un poco di mondo, era stato sballottato qua e là dal destino, come un fuscello dalla brezza, e da anni, poco dopo essere rimasto vedovo, si era ritirato a vivere lassù sui monti, lontano dalla gente, in una vecchia masseria che, sicuramente, aveva visto anni migliori.

Era generoso e ospitale. Forse queste sue qualità erano innate, oppure, semplicemente stimolate dal vino e dal silenzio naturale di quei luoghi, o dalla sua condizione di eremita volontario. Fatto sta che, quei pochi viandanti che si avventurassero fin lassù, alle propaggini estreme del monte, forse attratti dall’ancestrale richiamo delle foreste, erano tutti suoi ospiti. Una fetta di pane e un pezzo di formaggio, che produceva lui stesso, un bicchiere di vino e una tazza di caffè bollente non erano negati a nessuno.

            Anch’io, qualche volta, ero stato invitato a sedere al suo frugale banchetto. Egli fissava l’ospite con gli occhi grigi e acquosi, cercando di scrutarne gli abissi dell’anima, ma subito, la luce viva che li animava si affievoliva ed offuscava e il vecchio, divenuto improvvisamente taciturno, si lasciava sopraffare e travolgere dalla marea dei ricordi di una vita che, inesorabilmente, gli era sfuggita dalle mani.

Vi erano giorni in cui era più disposto alla parola. Narrava le leggende delle montagne, storie di morte e di fantasmi, oppure, ma molto più raramente, brandelli della sua vita passata. Lo ascoltavo volentieri quando mi capitava di salire fin lassù per restare solo con i miei pensieri. Avevo scoperto un luogo che mi piaceva, che consideravo mio, che condivideva i miei affanni e le mie preoccupazioni. Si trattava di un ripido pendio, che precipitava verso l’abisso delimitato dalle coste del monte e io mi sedevo sull’orlo, con le gambe penzoloni, in bilico sul precipizio.

Gli alberi che erano cresciuti sui pendii, fitti e perpendicolari al cielo, creavano irregolari e disordinati reticoli, che evocavano in me il caos primordiale. E’ sorprendente, ma in seno a quella apparente confusione della natura, ritrovavo il filo dei pensieri e le risposte alle domande e scoprivo, ogni volta con la stessa meraviglia, che il mondo non era governato dal caso.

            Il vecchio usciva, ormai, di rado dal suo cascinale. Non aveva tempo e viveva fuori dal tempo. C’erano stati per lui giorni migliori e colmi di speranze e persone che avevano contato qualcosa nella sua vita. Aveva vissuto avvenimenti eccezionali ed era stato anche in televisione, con personaggi famosi dello spettacolo, ma adesso, gran parte della sua vita passata era stata risucchiata dal buco nero che si era formato nella sua testa e lo aveva reso non più padrone dei ricordi.

            Poi, un giorno, il vecchio morì.

Seppi la notizia qualche tempo dopo, mentre ero distrattamente immerso nelle contorte faccende della mia vita. Non appena ebbi tempo, salii da lui, a quella che era stata la sua casa.

Era un freddo mattino di gennaio. La neve imbiancava l’orizzonte e un silenzio irreale e opprimente incombeva sul luogo. Mi avvicinai alla sua porta e attesi, quasi mi aspettassi di vedermelo comparire davanti e invitarmi a entrare. Ma quella volta nessuno aprì, nessuno si presentò alla porta ad accogliere un vagabondo infreddolito. Avanzai timidamente e con rispetto, aprii io stesso la porta ed entrai in casa. Le povere cose del vecchio giacevano abbandonate in disordine. Quand’era in vita, la sua casa mi era parsa sempre ordinata, ma i suoi ricordi, inseguiti e sfuggitigli per tutta la vita adesso erano sparsi per tutta la casa. Vecchie foto in bianco e nero, ritagli di giornale divorati dalla muffa e dai topi, disegni e caricature, fogli scritti a matita con una calligrafia fitta e ordinata e lettere a centinaia, che sbatacchiavano le loro ali di carta sul pavimento di legno come farfalle morenti.

Con voluta lentezza, feci il giro della povera abitazione. Avvertivo con chiarezza il peso del tempo e della desolazione che era stata la compagna fedele del vecchio nei suoi ultimi e lunghi anni. Era una sensazione opprimente, mi pesava sul petto impedendomi di respirare.

            Corsi fuori, all’aperto e spalancai la porta, mentre le dita ghiacciate e sottili del vento frugavano tra i ricordi del vegliardo e la luce del mattino disegnava nuovi arabeschi sui muri. Respiravo a pieni polmoni quell’aria frizzante che mi pungeva le narici, afferrandomi ad essa, come se potesse salvarmi la vita. Lasciai la porta aperta, permettendo all’aria fresca di entrare e cacciare via lo spettro della morte che si era fermato per troppo tempo in quei luoghi. Poi andai via, lontano e non tornai mai più.  

Sapevo bene che il padrone dei ricordi, che aveva derubato il vecchio e lo aveva lentamente condotto alla morte, si sarebbe preso, presto o tardi, anche i miei e, un giorno non lontano, mi avrebbe portato via, insieme alla mia solitudine.

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giovedì 17 ottobre 2013

Il tesoro





Una volta abitavo in un paese molto povero. Eravamo bambini nati e cresciuti ai margini dei campi, come l’ortica, come fiori selvatici. Non avevamo niente e ci accontentavamo di niente, piccole cose, bottoni, biglie di vetro, sassi di colori bizzarri e delle forme più strane, frammenti di giochi più antichi di noi. Povere cose perse nelle strade polverose. Ognuno di noi aveva un nascondiglio nel quale accumulava tesori inestimabili.

Più tardi, ricco fra i ricchi, di tutto quello che ebbi, che possedetti, che acquistai, che guadagnai, nient’altro mai fu tanto mio.

Erano anni felici, nonostante la povertà. Bastava così poco. Il profumo sacro della terra, delle zolle rivoltate di un campo appena arato, l’ondeggiare delle spighe di grano nel vento, il rifugio nell’ombra verde e quieta dei pini, i profili irregolari dei rovi e dei moreti, gli ulivi secolari contorti e piegati come vecchi nodosi, ma invincibili, il frinire delle cicale al tramonto, perfino il respiro del vento che sussurrava tra le case del villaggio e portava con sè gli echi di canzoni antiche che non ho mai più ascoltato. Eravamo padroni del mondo e ogni cosa ci apparteneva. Non avevamo niente, eppure avevamo tutto.

E ora mi chiedo: dov’è finito tutto questo? In quale parte del mondo, della memoria o del mio cuore è custodito? E’ tutto perduto per sempre?

La memoria gioca brutti scherzi.

Vi sono dei ricordi dai quali è impossibile liberarsi, anche per un solo istante e ricordi che, invece, giacciono abbandonati in angoli remoti della mente, come vecchie sedie sfondate in soffitta. La storia che sto per raccontare appartiene al primo tipo: è incisa nella mia memoria come il nome di un morto sulla lapide.

      A quell’epoca non avevo ancora compiuto sei anni e vivevo insieme alla mia famiglia in un villaggio del meridione sferzato dal vento, dove la neve faceva la sua comparsa in novembre e resisteva fino al primo sole di aprile. La nostra casa era vecchia e gelida e le pareti imbiancate di fresco non facevano che accentuare la sensazione di freddo.

     Mia madre mi accompagnava ogni mattina a scuola materna, ogni mattino di quegli inverni lunghissimi e imbiancati e ogni pomeriggio attendeva il mio ritorno a casa. Avevo molti amici allora, ma vi sono dei legami che si dimostrano più forti di tutti fin dal loro primo apparire. Questi sentimenti di privilegio accomunavano noi quattro: io naturalmente, con le gambe secche perennemente coperte di cerotti, Peppino, magro e comico come uno scheletro che inforcasse un paio di occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia, poi Michele, con il viso incorniciato da riccioli biondi, la cui occupazione principale nella vita era quella di rivoltare all’insù le palpebre superiori dei begli occhi azzurri e infine, Francesco, il più piccolo, della cui bionda madre venezuelana ero perdutamente innamorato. L’ho rivista, per caso, pochi anni fa. Il tempo è stato rispettoso della sua bellezza.

    Ci sono giorni in cui rimpiango la spensieratezza di quelle ore invernali, che scorrevano lente sotto lo sguardo vigile e severo delle suore che si occupavano di noi. Noi quattro, naturalmente, stavamo sempre insieme. Condividevamo ogni cosa, gioie e dolori e i primi amori, che trovavamo il coraggio di confessarci l’un l’altro, quando non riuscivamo più a tenerci dentro quei sentimenti sconosciuti, che ci facevano battere forte il cuore e dipingevano le nostre gote di   vividi rossori. Eravamo più che amici, eravamo quasi fratelli e tali erano, soprattutto per me, che avevo solo sorelle. Ho avuto il privilegio di trascorrere con loro i momenti più belli dell’infanzia. Mai più ho avuto amicizie così strette. Ricordo che il nostro più grande divertimento era scommettere sul colore degli indumenti intimi delle ragazzine. Terminate le puntate, non restava che sollevare loro la gonna per scoprire se il colore delle mutandine che indossavano, corrispondeva a quello sul quale avevamo scommesso. Il fortunato vincitore si accaparrava un bel gruzzoletto di cianfrusaglie, vecchi bottoni, biglie di vetro colorato, qualche caramella e, raramente, qualche monetina da due lire.

Tutto questo accadeva quando non inseguivamo gli altri bambini, con il viso ricoperto di foglie e spine di rosa attaccate con lo sputo, ululando come aborigeni, fino a quando lo svolazzare di una nera tonaca all’orizzonte e, più tardi, il suono di un paio di ceffoni ben assestati, non ci induceva a più miti consigli. Allora, ci aggiravamo come detenuti inquieti durante l’ora d’aria, nel giardino della scuola.

 Non ricordo bene se fosse una leggenda del paese, o solo una storia inventata da noi bambini, quella che narrava di un tesoro sepolto dai briganti sotto il pero che si trovava in giardino, forse cento anni prima della costruzione della scuola. Fatto sta che la faccenda, a furia di raccontarla, era diventata quasi un’ossessione, soprattutto per noi quattro che, incoraggiati dai giuramenti al silenzio scambiatici reciprocamente, cominciammo ad interessarci all’albero e al sottosuolo nel quale erano immerse le sue radici.

         Si trattava, in effetti, di un vecchio albero, che non dava frutti da tempo. I suoi rami scarni e protesi verso il cielo grigio parevano implorare una tregua al gelido vento invernale, che lo sferzava senza pietà, ma le sue radici, forti e nodose come le braccia di un contadino, affondavano saldamente nelle viscere della terra, a protezione di quel tesoro sotterraneo e misterioso, che ogni giorno stimolava la nostra fantasia.

       Così, un bel mattino ventoso ci mettemmo all’opera, dividendo equamente il lavoro e le mansioni. C’era chi scavava, chi faceva il palo e chi nascondeva accuratamente le tracce degli scavi. Si trattava, però, di un lavoro difficile e pesante, dato che il giardino era cosparso di grosse pietre e massi e la terra era dura e si lavorava a mani nude. Per giunta, era necessario che le nostre fatiche passassero inosservate, si faceva tutto di nascosto, a rischio di dolorose punizioni, se fossimo stati scoperti. Per molti giorni sacrificammo i giochi, i soliti passatempi dell’ora di ricreazione e la compagnia degli altri bambini. Ma niente e nessuno poteva fermarci. Non il tempo inclemente, né la paura di punizioni severe. Tutta la nostra determinazione di fanciulli era impiegata nel comune progetto e già assaporavamo le dolcezze che ci avrebbero ricompensato della lunga e ingrata fatica. Non si parlava d’altro. Tutti i nostri discorsi avevano sempre il tesoro per oggetto e non ci curavamo più di null’altro all’infuori di esso. Mi viene una tenerezza a ripensare a quei giorni. Rivedo me stesso e i miei compagni, come in una foto sfocata, in bianco e nero, quasi non riconosco i loro volti.

       Credo che il nostro duro lavoro sia andato avanti per settimane, forse per un mese intero, non ricordo bene, avevamo quasi messo a nudo le radici dell’albero e i massi e le pietre, che avevamo faticosamente divelto, erano sparse nel raggio di decine di metri intorno all’albero. Ogni giorno diventava sempre più difficile nascondere le tracce delle nostre fatiche, ma eravamo arrivati al momento cruciale: il tesoro esisteva davvero? Decidemmo, pertanto, di conoscere la verità quella sera stessa appena calata l’oscurità, al riparo da occhi indiscreti, che avrebbero potuto metterci nei guai, ma soprattutto perché avevamo la ferma intenzione di non dividere il tesoro con nessuno.

    Quel pomeriggio ci ritrovammo a giocare insieme agli altri bambini, fuori della scuola, ma non riuscivamo a impegnarci nei giochi, ci mancava la spensieratezza, tutta la nostra attenzione era rivolta altrove. All’apparire delle prime ombre della sera, ci defilammo lentamente come fantasmi e ci ritrovammo insieme, sotto le mura della scuola. Si era alzato il vento e la luna era offuscata, a tratti, da nuvole nere che non promettevano nulla di buono.

  Ci facemmo coraggio a vicenda e saltammo al di là delle nere mura che ci tenevano separati dal tesoro. L’edificio grigio della scuola era buio e silenzioso. Era una strana sensazione guardare quelle finestre, che eravamo abituati a vedere di giorno, splendenti della luce del sole e vocianti di bambini, chiuse e sbarrate come gli occhi di un morto. Le suore andavano a letto molto presto e, certamente, a quell’ora dormivano già profondamente. Finalmente ci trovammo in giardino.

Il povero albero desolato si profilava nero all’orizzonte, contro un cielo plumbeo e scuro, come un grottesco crocifisso e incuteva in noi grande timore. Avanzavamo cauti e senza alcun rumore, spingendoci a vicenda quando qualcuno di noi si arrestava per la paura. Grosse gocce di pioggia cominciarono a cadere, mentre il cielo diventava sempre più fosco, dopo avere inghiottito la luna e il fragore di un tuono si perse nel fondo della vallata, verso il lago silenzioso che chiudeva la valle come uno smeraldo imprigionato nella terra.

  Il lavoro cominciò. Bagnati, infangati e impauriti, continuavamo senza sosta. Poco dopo udimmo alcuni sinistri scricchiolii e l’intera pianta venne giù. Avevamo abbattuto l’albero! Al suo posto si trovava, ora, una larga voragine oscura. Ci guardammo negli occhi per un solo istante di smarrimento e continuammo a scavare, non molto per la verità. Subito, infatti, capitò tra le mani, non mi ricordo di chi, un oggetto sferico, non molto pesante e non più grande di una palla. Mentre le gocce di pioggia lo solcavano e lavavano via la terra che lo ricopriva, vidi in quella cosa che avevamo scoperto due grandi occhi neri che mi fissavano. Mi sembrò di essere scrutato dalle profondità dell’inferno e cacciai un urlo.

Era un teschio!

La pioggia riportò alla luce il resto dello scheletro e lo ripulì amorevolmente dalla terra che lo aveva ricoperto per tanti anni. Non molto tempo dopo si scoprì che quelle ossa appartenevano a un bambino che si era perso anni prima e non aveva più fatto ritorno a casa. A quel tempo, la scuola materna non esisteva ancora e la collina dove questa sorgeva era coperta da un fitto bosco.

Quel bambino era stato cercato per giorni, per settimane e per mesi, ma non fu mai trovato. Immaginai che piangesse spaventato, che si disperasse nel non ritrovare la via di casa, in quel bosco sconosciuto, eppure così vicino al paese, che chiamasse sua madre, invocasse i suoi baci e le sue carezze, che urlasse aiuto, ma che nessuno lo sentisse e, dopo essere crollato addormentato per la stanchezza e il dolore, il suo sonno lo avesse cullato fino ai margini dell’eternità. Quell’albero che avevamo sradicato era nato e cresciuto sul suo corpo, aveva vegliato sul suo riposo, si era nutrito delle sue linfe vitali e aveva costituito il suo ultimo legame con questo mondo, ergendosi come una croce, sulla tomba del piccolo.

  Quanto a noi, mai più parlammo di quella storia, il destino ci disperse dopo gli ultimi giorni di scuola. Io andai via, ma gli altri restarono.

Per caso e alla spicciolata, li ho rivisti i miei compagni, dopo tutti questi anni. Michele ha perso quasi tutti i riccioli biondi ed è proprietario di un negozio di parrucchiere per signora. Peppino è un architetto affermato, ha messo su qualche chilo, ma porta ancora gli occhiali da miope, mentre di Francesco ho perso completamente le tracce. Io, invece, solo oggi ho trovato il coraggio di scrivere questa storia, che ha pesato molto sul resto delle nostre vite.

Non so se gli altri ci pensino ancora, qualche volta.

Io lo faccio a volte e provo nostalgia di quegli anni perduti, che non torneranno più a farci compagnia, se non come muti testimoni su un letto di morte.

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