Mio nonno
me lo ricordo così, un pezzo d’uomo alto e magro, con il volto sottile, scavato
dal sole e dalle intemperie, segnato da mille rughe, una per ogni dolore: la
fame, la guerra, la miseria, la perdita di un figlio, la scomparsa della moglie
in giovane età. Mio nonno era una persona di grande saggezza, con uno spiccato
senso per la giustizia. Giustizia dei campi, pratica, risolutiva, colma di buon
senso. Non la giustizia artificiale e complessa delle aule di tribunale dei
nostri giorni, debordanti di giurisprudenza che non è più elaborata dall’uomo
per l’uomo e per risolvere le questioni ed i problemi che lo affliggono, ma impressa
a fuoco, incisa sulla sua pelle viva. Il diritto romano in fondo non era che la
codificazione della saggezza e del buon senso del mondo contadino.
Mio nonno
metteva a disposizione di tutti i suoi innati talenti. Chiunque avesse avuto
bisogno di consigli, di prevenire liti, di appianare dispute e contese, sapeva
che avrebbe trovato la sua porta sempre aperta, un bicchiere di vino buono e
un’onesta ed equa soluzione alle sue questioni. Ho parlato con tante persone che
l’hanno conosciuto e tutti, senza eccezioni, hanno confermato la sua saggezza,
onestà e rettitudine. A me dispiace di non averlo conosciuto nel pieno possesso
delle sue facoltà intellettive, ma solo nella decadenza dei suoi tanti anni.
Quando
penso a lui, mi pare quasi di vedermi comparire davanti la sua figura
allampanata e un po’ curva, sempre vestita di scuro, come si conveniva ai
gentiluomini di campagna, signori di una volta fatti di una pasta che oggi non
è più in produzione: fuori, scorza dura e resistente e dentro, midollo tenero e
delicato. Mi sembrava tanto alto, dominava me bambino la sua figura un po’
misteriosa, eternamente avvolta in una nuvola di fumo, le sue sigarette di
bassa qualità lasciavano una scia densa e asfissiante che lo accompagnava
sempre, ovunque andasse.
Erano
inseparabili, lui e le sue sigarette. Le fumava da un bocchino che s’era costruito,
segando un pezzo al suo bastone di canna. Fumò col bocchino per tutta la vita,
fino a poco prima di morire. Mi ero spesso chiesto da piccolo come potesse un
bocchino durare tanti anni, ma vedendo che più passava il tempo e più mio nonno
s’ingobbiva, capii che la sua schiena non s’incurvava per il peso del tempo, ma
a causa del bastone che diventava via via più corto. Quando il bocchino
s’intasava e non tirava più, mio nonno tagliava un pezzo al suo bastone e ne
costruiva un altro. Aveva fatto così per tutta la vita.
Me ne rammentai
quando andai a salutarlo per l’ultima volta, ch’era già nella cassa da morto. M’ero
ripromesso di non piangere, ma quando sfiorai le sue mani fredde, mi ricordai
quando da bambino mi accarezzava la fronte. Allora, sentii il gelo entrare nel
mio cuore e non ce la feci a trattenere le lacrime e qualcuna di esse cadde
sulle sue dita intrecciate. Ma quando una lacrima scivolò fino all’impugnatura
del bastone che teneva tra le mani, ch’era ormai ridotto alla lunghezza di un ferro
da calza, mi ricordai l’uso che ne aveva fatto e mi scappò da ridere. Ricordo
che mi guadagnai le occhiate di riprovazione del prete e anche di qualcuno dei miei
parenti presenti alla veglia funebre.
Con le Alfa
senza filtro che gli rubavo di nascosto, avrei imparato a fumare, poco più che
quindicenne. Il tabacco era pessimo e io ne sputavo di continuo sottili
filamenti, che mi restavano attaccati alla lingua e sulle labbra, lasciandovi
una patina molto amara dopo ogni tiro. Quel sapore ce l’ho in bocca ancora oggi,
anche se ho smesso di fumare.
E’ amaro
come la sua assenza.
La storia che
sto per raccontare riguarda proprio mio nonno. Mio nonno e la sua sigaretta,
mio nonno e il suo mondo, mio nonno e il suo tempo, la fine degli anni venti
del secolo scorso e sembra quasi di parlare dell’ottocento e di letteratura
russa e pittura francese, ma, per noi del duemila è solo il novecento, che ha appena
svoltato l’angolo; ci è bastato girare la pagina di dicembre del calendario
millenovecentonovantanove e l’ultimo mese dell’ultimo anno del secolo è svanito.
Irrimediabilmente
andato.
Perso.
Mi ricordo quanto
mi dispiaceva che finisse il novecento, mi sentivo e mi sento tutt’ora figlio
di quel secolo, ma aspettai con impazienza l’arrivo di dicembre, perché nell’ultima
pagina del mio calendario c’era la Ferilli mezza nuda. Ma sto divagando, torniamo
a noi e stiamo sul pezzo, come dicevano i giornalisti della carta stampata.
Mio nonno da
giovane lavorava la terra, l’accarezzava, la palpava come fosse una donna, per plasmarla e modellarla con le sue mani
d’artista, depositarie di una scienza, di una tecnica, di un’arte che si
perdeva nella notte dei tempi e che abbiamo quasi dimenticato. Lavorava i campi
tutti i santi giorni della sua giovane vita, poi tornava a casa stanco morto, si
buttava sul letto, dedicando sicuramente il suo ultimo pensiero, prima di
sprofondare nel sonno, a qualche ragazza e il giorno dopo, di buon mattino, andava
ai campi per tornare ad amare la sua terra scura e fertile, che sapeva di
afrori caldi e umidi. Egli l’amava con il suo impeto giovanile, con veemenza, con
l’ardore agreste e bucolico dei suoi anni, di quegli anni ormai andati, gli
anni migliori, anni di svolta, quando un uomo compie una decisa sterzata sulla strada
di sempre, la strada della sua vita e non lo si scorge più.
Tutti sanno
che non tornerà più indietro.
I campi che
mio nonno lavorava, che inzuppava di sudore e fatica, si trovavano nei pressi
di una fonte d’acqua pura, che sgorgava dalle viscere della terra. Funtan’Janar si chiamava quella sorgente,
Fontana delle Streghe, perché la
leggenda voleva che proprio presso quella fontana si radunassero le streghe per
celebrare i loro sabba maledetti.
Dalle mie
parti per dire strega si dice janara ,
ma nessuno sa con precisione da cosa derivi questo vocabolo. Io credo che il
termine provenga dal latino. Del resto, le parole che compongono il dialetto
della mia terra, per un terzo vengono dal francese e per un terzo dallo
spagnolo, mentre l’ultimo terzo deriva proprio dal latino e janua, nella morta lingua dei romani, vuol
dire porta. E forse le streghe erano proprio questo, porte, nodi di accesso,
passaggi e vie d’entrata, figure sciamaniche che permettevano la comunicazione
tra due mondi, che altrimenti sarebbero rimasti per sempre distinti e separati,
il mondo ordinario, solare, conosciuto e sicuro di tutti i giorni e il mondo
nascosto, oscuro, denso di nebbia, abitato fantasmi e pieno di cose indicibili
e misteriose.
Cose che devono restare
nascoste.
Ma il mondo ha bisogno delle
ombre. Per definire le forme ed i contorni, c’è
bisogno delle ombre. Che aspetto avrebbe il mondo se scomparissero e rimanesse solo
la luce, nuda e cruda? Un insopportabile inferno di luce.
Mio nonno
la terra non ha mai smesso di lavorarla con le sue mani robuste e callose di
gentiluomo di campagna. Mio nonno la terra non l’ha mai lasciata. Non l’ha
lasciata neppure quand’è morto ed è dovuto andare sotto la sua superficie e ora
si scalda nel suo eterno abbraccio. Mio nonno, se fosse stato americano, avrebbe
festeggiato il compleanno con fuochi d’artificio e hot dogs il giorno dell’indipendenza. Ma era italiano e il quattro
di luglio era un giorno come un altro, tra una calda notte d’estate e un’altra.
Ma, quando mi capita di leggere o sentir parlare di Independence Day, io penso a lui e alla sua indipendenza,
conquistata a caro prezzo a un’età che oggi sarebbe considerata tenera.
Io penso a
lui, mio nonno.
Quando mi
trovo in situazioni particolari o insolite e non riesco a venire a capo dei
problemi, penso a lui e mi chiedo: “Nonno, tu che faresti?” e mi sembra di
sentirlo vicino, mi pare quasi di avvertire la sua mano sulla mia spalla e una
voce, appena un sussurro all’orecchio, che dice: “Su, su, non ti preoccupare.
La soluzione c’è, la soluzione c’è sempre, basta cercarla”.
Me lo
ricordo bene mio nonno, che in età avanzata inforcava ancora la sua vecchia
bicicletta per andare ai campi. Legata con lo spago alla canna della
bicicletta, stava una vecchia, consunta cartella di cuoio, come quelle che
usavano una volta i poveri avvocati di campagna. Ma quella misera, rovinata
cartella era per me più intrigante del paese delle meraviglie. Era profonda,
per le mie piccole mani, quanto il pozzo di San Patrizio.
V’infilavo
la mano e c’era sempre qualcosa da scoprire, da cercare, da indovinare al tatto.
Era ben nascosta in fondo, tra miriadi d’altri oggetti, ma bastava rovistare
bene e qualcosa si trovava sempre. Le mie dita frugavano e frugavano e finalmente
trovavano. Sentivo al tatto una consistenza ruvida (pane vecchio raffermo?), poi,
la superficie liscia e compatta di un oggetto (un uovo?) e filamenti sottili
che si disgregavano al contatto con le dita (tabacco sciolto?) e ancora
qualcos’altro, un oggetto liscio e freddo (la bottiglia di vino rosso piena a
metà per dissetarsi nelle lunghe giornate estive?) e alla fine, solo alla fine,
trovavo quello che stavo cercando da un pezzo. Sentivo lo strato di stagnola
scrocchiante, indovinavo la forma oblunga e appiattita dell’oggetto e intuivo
il suo interno, più prezioso dell’esterno.
Cioccolatini.
Non
mancavano mai nella cartella di nonno. Li metteva apposta per farmeli cercare,
per regalarmi, oltre al gusto di mangiarli, il piacere di cercarli uno ad uno.
Mi dava il permesso di frugare tra le sue cose, per accendere e stimolare in me
la curiosità di bimbo affascinato e stuzzicato dalle sue cose, da quei mille
oggetti più o meno utili, comuni o insoliti, che si portava dietro ovunque
andasse.
Ma mi
accorgo che sto divagando ancora. La storia che volevo raccontare è indietro
nel tempo, quando mio nonno aveva solo quindici anni. Non era ancora uomo, ma
già lavorava la terra, da un bel pezzo.
Questa
storia riguarda proprio mio nonno, come dicevo. E’ stato lui a raccontarmela.
Era la
notte di Natale e mio nonno era andato a casa di uno dei suoi amici. S’erano
riuniti, gli amici, per giocare a carte- Tressette, briscola, sette e mezzo, i
soliti giochi della vigilia di Natale erano scorsi lentamente sulle carte da
gioco sporche e unte. Qualcuno aveva vinto, qualcun altro aveva perso.
Chi aveva
vinto pensava a come spendere il rispettabile gruzzolo che aveva guadagnato,
chi aveva perso si consolava con il detto “sfortunato
al gioco, fortunato in amore”, pregando di perdere sempre, perché aveva
adocchiato quella ragazzina carina, proprio niente male, quella con le trecce e
gli occhi azzurri e il vestito grigio, che si metteva per andare a scuola, sempre
lo stesso tutti i giorni, tutto lacero e rattoppato, ma non vi si faceva caso.
Era così che si vestivano tutti.
Dopo la
partita a carte avevano deciso di fare un giro per il paese, ad aspettare la
mezzanotte, a guardare le stelle, che avevano fatto capolino dalle nuvole
grigie, stelle belle e lontane, lucidate di fresco dalla pioggia abbondante che
era caduta fino a poco prima. Non c’era nessuno per strada a quell’ora e loro effondevano
nel tempo vuoto che li separava dalla mezzanotte motti arguti, sguaiataggini
irriverenti e battute di spirito per darsi coraggio, per superare i confini dell’istante
che precedeva l’ora della loro separazione, quell’istante che speravano potesse
invece fermarsi per sempre. Così,
i ragazzi avevano bighellonato di qua e
di là, percorso tutte le vie del paese, si erano recati sotto tutti i balconi e
le finestre dietro le quali stavano le ragazze più belle e loro conoscevano a
memoria ogni balcone e ogni finestra. La notte era limpida e molto gelida ed
ebbero freddo.
Allo
scoccare della mezzanotte, dopo essersi scambiati gli auguri di Natale,
balbettando le sillabe tra i denti che battevano per il freddo, con le mani
intirizzite, che non riuscivano a scaldarsi nelle tasche dei pantaloni e tirando
su col naso, si erano separati a malincuore, ma con la promessa di rivedersi
l’indomani e si erano dileguati per le vie del paese, ciascuno diretto al
tepore della propria casa. Mio nonno era rimasto solo. Mi si stringe il cuore a
pensare a lui, un ragazzetto tutto solo, stretto nel suo povero cappotto
consunto e rabberciato alla meglio, attraversare la notte sulla via del
ritorno.
Tornava a
casa, dicevo, quando, oltre il muretto che separava la strada dal fiume, oltre
il fiume stesso, sull’altra sponda, intravide dei bagliori rossastri. Non c’era
un’anima in giro e incuriosito, attraversò la strada per andare a vedere. C’erano
delle figure sedute, accoccolate intorno a un fuoco. Il vento portava a tratti
le loro voci, che attraverso il mormorio del fiume giungevano fino a lui. E mio
nonno non udì parole, risate, lazzi, come si sarebbe aspettato per una festicciola
nel cuore della notte di Natale, come credeva che fosse quella che stava
osservando. Udì, invece, strepiti, lamenti, urla disumane. E si spaventò. Ma la
curiosità fu più forte. Non scappò via, ma si acquattò ben nascosto dietro il
muretto e continuò a guardare. V’erano delle figure oscure, dai lunghi capelli
bianchi, che danzavano intorno al fuoco ed emettevano gli strepiti più osceni.
Parole incomprensibili venivano di là dal fiume e mio nonno stava fermo e
immobile, schiacciato contro il muro, stretto nel suo cappotto, a guardare e
ascoltare.
La danza non
si arrestava, anzi le figurette scure si agitavano sempre più e giravano più
velocemente intorno al fuoco. In quel momento sorse la luna piena e inondò di
luce le misteriose figure. Una sola parola venne in mente a mio nonno per descrivere
quello che vedevano i suoi occhi.
“Streghe!”
urlò nel più profondo dei vuoti e dei silenzi, o almeno, credette di urlare,
perché le sue labbra non si mossero e la sua gola non emise alcun suono.
Ma streghe
erano. E cos’altro avrebbero potuto essere quelle sinistre forme, se non orride
streghe dai capelli scarmigliati, orribili megere, vecchie spaventose dai seni
cadenti che celebravano il loro terribile sabba nella notte di Natale, schiave
di desideri impossibili, concubine delle notti insonni dell’Innominato Messere,
ultime discendenti di una progenie nata dal sangue di Giuda, che dalle bocche
sdentate, assaporando il dolore e il rimpianto, bestemmiavano e sputavano nella
terra benedetta?
Un brivido
freddo passò attraverso la schiena di mio nonno e gli parve che il cuore
perdesse colpi. Ma rimase fermo al suo posto, acquattato dietro il muretto,
dall’altra parte del fiume, immobilizzato dalla paura, mentre le orribili
presenze profanavano la notte. E le arpie danzavano e danzavano, si
contorcevano e rantolavano intorno al fuoco ardente, che scagliava faville
rossastre contro il cielo puro della notte.
E le loro
ombre enormi, ingigantite dal fuoco, danzavano anch’esse intorno al falò sull’orlo
della notte e contagiavano di un nero morbo la terra e il fiume. Il loro convegno
infernale riempiva tutta la notte e gli occhi e le orecchie del mio povero nonno,
che immobilizzato dal terrore, era rapito dalle loro strida e da quelle visioni
terrificanti. Era impossibile sottrarvisi.
Poi tutt’ad
un tratto, la danza si fermò e gli strepiti cessarono. Le vecchie si erano
accoccolate intorno al fuoco e stavano immobili. Dalle loro bocche fluiva ora un’oscura
preghiera. Solo le mani si muovevano, si protendevano verso il fuoco in un movimento
in avanti, seguito, subito dopo, da uno verso l’indietro. Sembrava che si
lanciassero qualcosa attraverso le fiamme. Mio nonno aguzzò lo sguardo per
vedere meglio e con suo supremo sgomento si avvide che le cose che le streghe
si lanciavano attraverso le fiamme erano bambini. A turno li lanciavano e a
turno li riprendevano, dopo averli fatti saltare sulle lingue di fuoco.
Bambini,
tanti, piccoli bambini, paffuti e morbidi come grossi gomitoli di lana, volteggiavano
sopra e attraverso le fiamme. Li stavano cuocendo lentamente.
Mio nonno
osservava la scena a occhi sbarrati e con la bocca spalancata per lo stupore. A
ogni suo respiro, grosse nuvole di vapore abbandonavano la sua bocca e si rattrappivano
nell’aria gelida. Il suo cuore batteva all’impazzata. Doveva fuggire, scappare
via, se le janare si fossero accorte
di lui, avrebbe fatto la fine dei bambini. Sopraggiunse il panico che slegò le
sue gambe, trattenute fino a un istante prima dalla paura.
Si levò e
fece qualche passo. Ma non riusciva a correre. Si sentiva le gambe molli. Metteva
avanti un piede e vi buttava sopra il peso del corpo, così che potesse far
avanzare l’altro piede. Era l’unico modo in cui riusciva a muoversi, ma presto si
trovò lontano dalla sponda del fiume e del bagliore delle fiamme e degli
strepiti non rimase altro che il ricordo. Più si allontanava da quei luoghi di
profanazione, più sentiva il sangue tornare a fluire dentro le vene, un calore inatteso
si diffuse per tutto il corpo e gli mise le ali alle gambe, così riuscì
finalmente a correre fino a quando non si trovò, senza neppure sapere come,
dinanzi all’uscio di casa sua.
Tirò fuori
la grossa chiave dalla tasca dei pantaloni e tentò d’infilarla nella toppa, ma
per quanto provasse, la chiave non voleva saperne di entrare, la sua mano
tremava troppo. Allora prese la chiave con due mani e solo al terzo tentativo
riuscì a centrare il foro e ad aprire finalmente la porta.
L’uscio si
spalancò sul suo piccolo mondo conosciuto, tiepido, rassicurante. C’era tutto
quello che conosceva da una vita. Dentro la sua casa, nessuno poteva fargli del
male. Passando per la cucina vide le braci del focolare ardere ancora
attraverso il buio. La casa era molto silenziosa. Tutti erano a letto da un
pezzo. Raggiunse la sua stanza e si spogliò lentamente per non svegliare gli altri
occupanti dei letti. Poi si buttò sul pagliericcio, abbracciandolo come un
naufrago privo di forze.
Ma non
dormì. Non gli riuscì di prendere sonno. Aveva sempre davanti agli occhi le
immagini infuocate e terribili, le vecchie spaventose che ghignavano nel buio.
E i bambini, i poveri, piccoli bambini! Non poteva smettere di pensare a loro. Gli
pareva di udire le loro urla nel silenzio della sua casa. Gli sembrava di vedere
ombre mescolate alle ombre familiari della casa addormentata, che avanzavano con
lunghe dita nere verso il suo letto.
Cos’era
quello che aveva visto?
Poteva
davvero fidarsi dei suoi occhi?
Era
sconvolto. Lo spettacolo a cui aveva assistito era stato spaventoso e
inquietante. Si era spinto un passo avanti verso le tenebre, si era sollevato un
velo su cose che dovevano restare nascoste. Come quella notte della vigilia
d’Ognissanti.
Per tutto
un anno, ogni mattina, quando si puliva le orecchie, aveva messo da parte il
cerume per costruire una candela che gli avrebbe permesso di vedere i morti che
tornano nelle loro case la vigilia d’Ognissanti, proprio come dice la leggenda.
Ma il trentuno di ottobre, la candela non era più una leggenda, era finalmente diventata
realtà.
Era stato
inquieto per tutta la giornata della vigilia, rigirandosi tra le mani quella
strana candela. Finalmente, calato il sole e sopraggiunta l’oscurità, era
andato tutto tremolante alla finestra del piano terra che dava sulla strada e
al terzo tentativo, era riuscito ad accendere la candela. Scrutava la strada in
lungo e in largo, ma non vedeva nulla. Rimase da solo alla finestra alcune ore,
rabbrividendo fino a notte inoltrata.
Stava quasi
per spegnere la candela e andarsene a dormire, quando gli sembrò di vedere qualcosa
al limite dello sguardo, proprio là dove terminava la notte. Apparvero da quel
lato un paio di ombre diafane, tremolanti, che procedevano verso il centro
della strada buia, poi sopraggiunsero altre ombre, molte altre, una lunga fila,
una schiera di morti, una moltitudine infinita, una processione di defunti. E
di tanto in tanto, un’ombra si staccava dalla fila per dirigersi verso l’uscio
di un’abitazione. La processione raggiunse la sua casa. Era una massa oscura,
un lungo fiume d’ombra, dalla quale si dipartivano altre scie scure, come
effluenti fatti solo di notte e di tenebra.
Mentre
guardava a bocca e occhi spalancati, una di quelle ombre si era separata dal
flusso e aveva sfiorato la sua finestra. Era accaduto tutto in un breve istante,
ma a mio nonno si era gelato il cuore, come se l’ombra scura della morte lo
avesse rapito dal mondo e sottratto alla terra, alla luce, alla vita. Un
brevissimo interludio di morte. Ma quel gelo nel cuore aveva causato in lui una
malinconia spietata, incomprensibile, un rimpianto che non aveva mai provato
prima, un sentimento che non si poteva raccontare, che gli parlava delle
vastità incolmabili e deserte delle pianure della morte. Aveva spento la
candela con un soffio ed era fuggito via.
A chi
apparteneva quell’ombra?
La luce
grigia del mattino d’inverno illuminò la stanza. I suoi fratelli si svegliavano
dai letti vicini, lentamente emergevano dal lungo fiume della notte, che li
aveva cullati e protetti nel loro sonno. Nella stanza aleggiava ancora l’odore
delle tenebre, ma la mamma venne subito ad arieggiare la camera. I suoi
fratelli si erano alzati dal letto e già auguravano Buon Natale alla loro madre
e lei ricambiava con lunghi, caldi abbracci, ma mio nonno non si levava, se ne
stava dentro il suo letto, il volto pallido, le occhiaie pronunciate, il corpo
scosso dai tremiti.
Betta, sua
madre, gl’impose la mano, fresca e lieve come una benedizione, sopra la fronte
e trasalì. Scottava! Aveva la febbre alta. A mio nonno era venuta la febbre per
la paura!
Betta era
preoccupata e incuriosita al tempo stesso. Mio nonno era un ragazzo forte, sano
come un pesce, non si ammalava facilmente. Lo incuriosiva questa sua improvvisa
indisposizione, quella febbre così alta. Non era, tuttavia, la febbre a
preoccuparla, ma qualcos’altro che intuiva dagli occhi di mio nonno, che avvertiva
in fondo alla sua voce tremolante, qualcosa che aveva scatenato il moto nervoso
delle sue membra. Mio nonno era molto spaventato e sua madre se n’era avveduta.
Ma fu solo
dopo molte insistenze e moine e coccole e anche qualche minaccia, che sua madre
riuscì a farlo parlare e mio nonno, finalmente, balbettando e interrompendosi
in continuazione, cominciò a raccontare.
“Sai mamma,
ieri notte tornando a casa ho visto… “ e raccontò tutto quello che aveva visto
e sentito la notte prima.
Sua madre
cercava di tranquillizzarlo mostrandosi incredula, ma si accorgeva anche lei
che suo figlio era molto scosso e che qualcosa doveva avere pur visto
dall’altra parte del fiume. Così, senza dire niente a nessuno, mentre mio nonno
giaceva a letto e i suoi fratelli sbranavano letteralmente la colazione, più
abbondante del solito, della mattina di Natale, Betta si recò, passando per il
ponte e attraversando il fiume, nel posto che gli aveva indicato il figlio e proprio
lì, sulla terra umida, trovò le tracce del fuoco, la cenere ancora calda e gli avanzi
di un frugale banchetto.
Betta si
fece il segno della croce, spaventata e scappò via, indietro sui suoi passi,
verso casa. Non ne fece parola con nessuno, né con suo marito, né con gli altri
figli, ma raggiunta la stanza di mio nonno, e gli sussurrò: “Ho visto!”
sgranando i suoi grandi occhi azzurri. Mio nonno immerse gli occhi nei suoi e
vi lesse il suo stesso terrore.
Non dire
niente a nessuno, gli stava dicendo Betta, niente a nessuno, diceva, con
l’indice a punto esclamativo che chiudeva le sue labbra con un lungo shhhhhhhhhhhh. Poi, si allontanò e lo
lasciò solo. Egli si sentiva debole, infreddolito, tremava dentro quel letto
dove aveva passato la lunga notte insonne, in quel letto che non riusciva a
scaldarlo. Mio nonno si girava e rigirava con grandi fruscii e proprio non
riusciva a starci in quel letto, il pagliericcio diventava sempre più duro
sotto il suo corpo, come una lastra di marmo tombale e il guanciale era rigido
come una lapide. Non ce la fece a seguire i consigli di sua madre, doveva
parlare con qualcuno, aprirsi, confidarsi. Chi meglio dei suoi amici più cari
era adatto allo scopo? Pensò e ripensò e finalmente gli balenò davanti il volto
di Antonio, il ragazzo più grande della combriccola. Così si risolse ad abbandonare
il letto gelido, si vestì velocemente e nonostante la febbre e nel più assoluto
silenzio, aprì la finestra della stanza e sgattaiolò di fuori.
Sapeva dove
trovare Antonio, il ragazzo era molto mattiniero e sicuramente a quell’ora
sarebbe stato già in piazza ad assaporare l’aria gelida della mattina di
Natale. Lo trovò subito. Pallido e sofferente in volto, tremando per la febbre,
il freddo e la paura, gli si avvicinò.
“Lo sai
che… “
L’altro lo ascoltò
attentamente, strabuzzando gli occhi durante i passaggi più incredibili o
spalancando la bocca nei momenti più angosciosi del racconto, che mio nonno sciorinava
impetuoso come un torrente di montagna.
“Mi
raccomando, non dirlo a nessuno. Lo sai solo tu e… mia madre!” si raccomandò quand’ebbe finito.
“Si, si,
non preoccuparti” lo rassicurò l’altro “Vedrai che sarò muto come un cadavere.
Certo che è incredibile quello che hai visto. Io sarei morto di paura.”
“Certo che
è incredibile. E anche spaventoso. Me la sono quasi fatta sotto!” disse mio
nonno.
“E ti
credo” rispose Antonio “Ora va, fila subito a casa e mi raccomando, infilati a
letto, se no prendi una polmonite!” aggiunse.
Ma come mio
nonno non era riuscito, neppure lui riuscì a mantenere la parola. Troppo grossa
era la faccenda, troppo inquietante era il mistero, troppo grande il fardello
per portarlo da solo senza scaricarne un po’ il peso su qualcun altro. Così, in
breve, tutta la combriccola di amici seppe e non solo loro, ma anche i loro
padri e le loro madri seppero e in men che non si dica, nonni, zii e zie,
cugini, fratelli e sorelle, nipoti, amici e amici degli amici e semplici
conoscenti seppero, tutto il paese seppe la storia, con tutti i particolari,
del sabba maledetto della notte di Natale e dei piccoli pargoli indifesi,
rosolati e cotti a puntino, perchè diventassero il soffice e tenero pasto per
le bocche sdentate delle orribili vecchie megere.
Era Natale.
In capo a un’ora tutto il paese sapeva e s’interrogava e tremava su quella
strana, inquietante faccenda. Ne parlavano tutti, ma proprio tutti, le donne
nelle case, gli uomini in osteria, i bambini che sciamavano vocianti per le vie
del paese e i vecchi che si scaldavano le ossa dinanzi al focolare. Era
diventato l’argomento principale delle conversazioni, anzi, si potrebbe dire
che fosse l’unico argomento di conversazione perché, normalmente, non ci
sarebbe stato altro da dir. La scena che si ripeteva centinaia di volte per le
vie e per le piazze del paese era un rituale e frettoloso scambio di auguri, poi,
uno dei due interlocutori ammiccava repentinamente, l’altro spalancava gli
occhi come per ascoltare meglio e il primo, che non aspettava altro, attaccava:
“Lo sai
che… “
La notizia
volava sulle bocche rapida come un fulmine, più veloce del telegrafo e più
passava di bocca in bocca, più la storia si arricchiva di particolari
incredibili di cui, a dire la verità, nel racconto originale di mio nonno non v’era
traccia. Vecchie nude a cavallo di scope infuocate, con i capelli incendiati di
argento di luna solcavano i cieli notturni, piombavano nelle case a ghermire
come orridi uccelli notturni, piccoli indifesi nelle loro culle, profferendo
oscene e irripetibili proposte ai loro padri a letto e sussurrando oscure minacce
alle loro mogli.
Vi era
perfino chi sosteneva con certezza che, a un certo punto della storia, fosse
comparso pure lui, l’essere senza volto, senza nome e senza ombra, il cavaliere
nero, il signore delle tenebre, nella sua infinita solitudine. Perfino il prete
ne fu turbato, quando la notizia giunse al suo orecchio.
Nel giro di
un paio d’ore, duemila anime in pena vagavano sbigottite per il paese.
Ma verso
mezzogiorno, quando ormai gli abitanti del povero borgo si avviavano verso
casa, pregustando il pranzo di Natale, a lungo sospirato, un uomo anziano e un
giovane, che dovevano avere qualche lontano parente in comune, s’incontrarono
nella piazza principale oramai deserta e si scambiarono gli auguri. Il vecchio
ammiccò al giovane e subito attaccò:
“Lo sai
che… “
Il giovane
trasecolò.
“Ma… ma
quali streghe?” disse “C’eravamo noi sulla sponda del fiume ieri notte, altro
che streghe!”
In breve,
il giovane spiegò che con numerosi altri amici aveva percorso il paese nella
notte santa, a capo di una compagnia improvvisata di musicanti, imperversando
per le strade con grande fracasso, tanto che i gatti fuggivano terrorizzati al
loro passaggio e i cani ululavano alla luna. Avevano intonato un ricco
repertorio di canti sacri e di stornelli meno sacri, di canzoni appassionate e
serenate per amori profani, specie sotto alcune finestre, dalle quali erano
stati scacciati da certi padri minacciosi.
Le loro
buffonesche esibizioni s’erano però interrotte all’improvviso, erano stati
sorpresi da un forte acquazzone e non sapendo dove rifugiarsi, s’erano
inzuppati ben bene fino alle ossa. Terminato che fu il rovescio notturno,
avevano stabilito di recarsi sulla sponda del fiume e avevano acceso un fuoco
per asciugarsi. Si erano tolti i vestiti bagnati, rimanendo in maniche di
camicia e si erano posti sulla testa, chi a mò di turbante, chi a mò di velo,
degli stracci e dei fazzoletti per asciugarsi i capelli e il loro candore, da
lontano, complice la luce argentea del plenilunio, aveva conferito loro le
sembianze di orride streghe dai capelli bianchi e scarmigliati. Mentre si
scaldavano al fuoco, avevano ripreso a cantare le loro canzoni sguaiate e dopo,
avevano cominciato a ballare seminudi intorno alle fiamme. In questo modo, si
asciugavano e si scaldavano alla luce viva della fiamma.
Ecco
spiegato l’orribile sabba!
Dopo essersi
asciugati, avendo fatto dei fagotti con i loro vestiti, si erano accoccolati
intorno al falò e se li erano lanciati l’un l’altro, per gioco e per farli
asciugare, sopra le fiamme. Il giovane aggiunse a questo punto che più di un
fagotto era sfuggito alla presa o aveva fatto un volo troppo breve e qualche pezzetto
era finito sul fuoco, risultandone annerito o addirittura bruciacchiato. A
riprova di ciò, mostrò un lembo del suo cappotto che presentava
inconfutabilmente una discreta porzione annerita dal fuoco. Niente di più facile
che da lontano, quei fagotti di panni bagnati fossero scambiati per bambini da
arrostire.
Ed ecco
spiegato anche il terribile banchetto!
La
soluzione del mistero si propagò ancora più velocemente per il paese di quanto
avesse fatto il mistero stesso, tanto che fece in tempo a diventare l’argomento
di conversazione delle battute finali del pranzo di Natale.
I paesani
si cercavano alle finestre l’un l’altro, con la voce o picchiettando sui vetri
e quando la finestra si apriva e spuntavano fuori le teste degli inquilini o,
se questi non erano abbastanza lesti, infilando addirittura le loro teste
all’interno delle case, ammiccavano e attaccavano:
“Lo sai
che… “
Così tutti
tirarono un sospiro di sollievo, le anime in pena si acquietarono, l’intero
paese si tranquillizzò. Si calmò perfino il prete e anche mio nonno sorrise finalmente,
malaticcio e febbricitante dentro il suo letto, circondato dai suoi amici.
Passarono i
giorni, i mesi e gli anni, anni veloci come frecce e venne un tiranno vestito
di nero e portò la guerra e la guerra si portò via tanta brava gente, ma poi arrivarono
gli americani e tornò la pace, arrivò la luce elettrica nelle case e i lampioni
per le strade e le notti non furono mai più buie e le streghe non volarono più
nei cieli notturni. Così la storia fu dimenticata, ormai c’era ben altro da
raccontare.
Ma non venne
scordata proprio del tutto.
Ogni tanto
qualche anziano la tira fuori ancora, basta solo avere pazienza e la storia
verrà fuori. Egli farà prima un lungo sospiro, guardando indietro nel tempo con
gli occhi umidi e cisposi, poi ammiccherà e attaccherà:
“Lo sai
che… “
****************
Ho sempre
adorato le storie che le persone anziane raccontano ai bambini, strane storie
di streghe e di fantasmi. I vecchi a volte non sanno più distinguere il vero
dal falso, i sogni dalla realtà, le ombre dagli oggetti che le proiettano e
noi, eterni bambini, li guardiamo con un po’ di tristezza e di stupore, come se
guardassimo cose mai viste prima, ma chiediamo loro di continuare a raccontare.
Amo le storie semplici e a volte ingenue dei nostri vecchi e mi commuove il
loro modo tenero e gentile di amare i bambini. Mi fanno tenerezza.
Io penso
che abbiamo una grande responsabilità nel vivere le nostre vite, perché ci
portiamo dietro tutto l’amore, i desideri e le speranze dei nostri vecchi, dei
nostri cari, dei nostri antenati. In ogni gesto che facciamo, in ogni parola
che pronunciamo c’è un po’ di essi, c’è qualcosa di coloro che ci hanno
preceduto. I nostri vecchi sono gli specchi in cui ci riflettiamo.
E niente si
perde davvero.
Una lunga
catena lega noi a loro, indietro nel tempo e indietro e indietro, fino al primo
della serie, il capostipite che nessuno conosce, che nessuno immagina, che nessuno
sa chi sia, ma possiamo stare certi che è esistito. Una catena di dolore, di
vita e di morte, una catena di sangue, di coraggio e di amore, che nessuno
potrà mai spezzare.
Non saremmo
così come siamo se non ci fossero stati loro e ora ci sembra, a noi che
restiamo, che essi ci guardino da lontano con occhi colmi di amore e di
speranza, che sorveglino nel loro modo gentile le nostre azioni, le nostre
parole, le nostre piccole vite, per suggerirci il gesto migliore, la parola più
giusta, il modo più corretto di parlare, di camminare, di agire. Essi, ne sono
convinto, cercano di guidarci con il loro amore e con il loro esempio, per
evitare che cadiamo. E come gli specchi, stavolta siamo noi a riflettere loro.
Abbiamo grandi responsabilità verso di essi. Ci hanno ceduto lo scettro, ci
hanno passato il testimone, ora tocca a noi. Non possiamo deluderli. Non
dobbiamo.
Nonno,
nonno, nonno che vivevi in un tempo in cui le paure erano ingenue e il conforto
sollecito e amabile, i terrori terribili e ancestrali, ma le spiegazioni sempre
pronte a portata di mano, era un tempo di vita semplice, senza effetti speciali
e connessioni iperveloci e telefoni intelligenti. Ora siamo soli anche in un
mare di gente e affondiamo in oceani di informazioni inutili, mentre il tuo era
un tempo in cui non si era mai davvero soli, anche se non si sapeva niente, in
cui nessuno veniva lasciato da solo, nessuno restava indietro, anche se non
contava niente. Un tempo che non c’è più. Un mondo che è sparito, per sempre,
come te, nonno.
Nonno,
nonno, dove sei ora?
Cosa darei,
nonno, per tornare bambino, anche per una volta sola, anche solo per poche ore,
per poter bussare ancora alla tua porta e trovarti accanto al camino, con la
fiamma che illumina di rossi bagliori il tuo viso amato, intento ad arrotolare
la tua ennesima sigaretta di infima qualità, che darei per tenerti per mano
ancora una volta, mentre tu tieni la mia, la mia piccola mano dentro la tua, i
miei passi all’ombra dei tuoi, la mia figuretta che sgambetta e si muove incerta
accanto alla tua figura imponente, la mia ombra che ondeggia e si unisce alla
tua. Un’ombra sola proiettata da due persone, un’ombra fatta di due ombre, un
gigante e un bambino a spasso per le vie del paese.
Nonno, sia la
terra in cui riposi e che tanto hai amato, morbida e leggera come una coperta di
lana e che il sole e la pioggerella di primavera ti donino un fiore, profumato
e colorato come i cioccolatini che mi regalavi, un fiore di campo, come lo eri
tu, come lo sono io, un bocciolo per farci sapere che l’inverno è davvero finito,
che le querce protendano i loro rami scuri per concedere alle tue ossa antiche il
refrigerio dalla calura estiva e prego la notte di regalarci una stella
cadente, che attraversi, scintillante e veloce, la volta celeste in un misero bà!, per ricordare a noi che ci siamo ancora,
te che non ci sei più.
Sei stato
un padre, quando avevo bisogno di un padre, un amico quando avevo bisogno di un
amico, un grande narratore quando avevo bisogno di ascoltare le tue storie,
buie e tenebrose, ma sempre a lieto fine.
Nonno, c’incontreremo
ancora un giorno, tu lo sai e io so che ci sarai per tenere la mia mano nella
tua, grande grande, come quando ero piccolo e ci avvieremo insieme, mano nella
mano, incontro alla notte.
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