L’alba quel giorno si faceva attendere.
Gettò un rapido sguardo alle spalle. Si era accorto di essere seguito. L’uomo con la pistola si avvicinava, non gli restava che correre.
L’altro fece lo stesso.
Respirava affannosamente, mordeva l’aria fredda della notte che moriva, inghiottendone grosse porzioni. Il freddo intenso gli bruciava i polmoni.
In breve, si ritrovò in un vicolo cieco. Dal fondo della strada scorse una figura scura. Un altro uomo con la pistola veniva verso di lui. Si guardò intorno, ma non c’erano vie di fuga. Allora si infilò nell’androne di un palazzo e cominciò a salire le scale, svelto come il fulmine. Sentì, poco dopo, sbattere il portone d’ingresso e udì il rumore di passi in corsa, i due uomini erano dietro di lui.
Il suo cuore batteva al ritmo di tamburi di guerra, la corsa lo aveva stremato. Le scale terminarono e si trovò improvvisamente davanti la porta d’accesso al terrazzo. La spalancò con un calcio ben assestato e si proiettò fuori. Il terrazzo era lungo e stretto. Presto giunse al parapetto e i suoi occhi bianchi lampeggiarono nel buio alla ricerca di tetti vicini sui quali saltare, ma non ve n’erano. Un largo fiume d’asfalto lo separava dalla salvezza.
Gli uomini con la pistola erano già sul terrazzo e si avvicinavano.
2.
Quel giorno non era meglio, né peggio degli altri, era uno dei tanti.
Andavo per la mia strada, distratto da impegni e commissioni da svolgere, con quel misto di rabbia e sopportazione che mi portavo sempre dietro per le strade di quella città. Davanti a un bar provai quella sensazione che si avverte dietro la nuca, come un prurito, quando uno sguardo si fissa su di te. Mi voltai.
Un uomo di colore mi guardava con insistenza.
“Che cazzo hai da guardare?” lo apostrofai infastidito.
“Niente amico, niente.” rispose sorridendo.
Il suo sorriso stemperò la mia irritazione all’istante, tanto da indurmi a chiedergli scusa. Gli offrii una sigaretta.
“Grazie amico, ma non fumo”
Allora gli proposi un caffè. Accettò.
Dentro il bar c’era poca gente. Ognuno badava ai cazzi suoi.
Davanti alle tazzine fumanti mi scaldai un pò il cuore e la mente dal freddo dalla giornata, quel tanto sufficiente a mettermi in una disposizione d’animo maggiormente adatta a scambiare qualche parola con un altro essere umano.
“Quanti anni hai?” chiese.
Non risposi.
“Potresti essere mio figlio” aggiunse al mio silenzio.
Lo guardai meglio. E’ difficile attribuire un’età alle persone di colore. Non aveva i capelli bianchi, ma forse le sue mani, forse quelle rughe di espressione sul viso, quei movimenti obliqui dello sguardo, la luce nei suoi occhi, erano tutti elementi che indicavano che avesse raggiunto l’età della saggezza. E si, conclusi, avrebbe potuto tranquillamente essere mio padre.
“Come si chiama tuo figlio?”
“Selim.”
“E dov’è? In Africa?” chiesi per intavolare un brandello di conversazione.
“No, non più.” emise un sonoro sospiro.
“E’ partito qualche mese fa per raggiungermi, ma non ho più avuto sue notizie.”
“Cazzo, mi dispiace. E non hai provato a cercarlo?”
“Si, tutti i giorni. Ho avuto notizie rotte… “
“Rotte?”
“Si, a pezzi”
Non avevo mai pensato che le notizie si potessero rompere, ma il suo caso dimostrava che avevo torto.
“Vuoi dire frammentarie?”
“Si, notizie frammentarie, ma so che è riuscito ad attraversare il mare e sbarcare sano e salvo”
“E ora dov’è?”
“Non lo so.”
Le tre parole emersero a malapena dal flusso di un altro sospiro.
“Mi dispiace davvero.” dissi.
Non sapevo cos’altro aggiungere. Mi sentivo in imbarazzo, ma m’incuriosiva la sua compostezza, la sua serenità. Il suo portamento non aveva niente di triste o di dolente, la bocca era spesso aperta al sorriso. Aveva un modo dolce di sorridere, che apriva il cuore.
“Non devi dispiacerti. Dalle mie parti si dice che nessuna notizia è uguale a buona notizia.”
“Anche dalle mie parti si dice.”
Ci si schiodarono dalla bocca risate d’intesa, come se ci conoscessimo.
“Adesso devo andare. E’ stato un piacere.” dissi allungando una mano.
Lui me la strinse, con forza sincera. Mi fece un’impressione particolare la vista della mano bianca e della mano nera strette insieme in un nodo simmetrico e le prime parole che mi vennero in mente furono: “Scambiatevi un segno di pace”.
“Anche per me amico. Vai in pace”
“Infatti”, pensai di getto. Mi era sembrata una risposta così naturale, ovvia. Invece, ovvia non era e mi domandai stupito, se per caso mi avesse letto nel pensiero, ma riuscii a farfugliare solo:
“Grazie, ne ho davvero bisogno.”
3.
Uscii di nuovo, al freddo dei marciapiedi, un pò confortato dal sapere che in qualunque angolo di strada, di piazza, di giardino pubblico, insomma in qualsiasi buco merdoso di una miserabile città qualunque o topaia del cazzo, puoi trovare un amico.
Attraversai piazze e strade, svoltai molti angoli e arrivai dove dovevo andare. Sulla via del ritorno un poliziotto fermò bruscamente i miei passi.
“Mi dispiace, ma non posso farla passare” disse in tono cortese, ma risoluto “Abbiamo dovuto chiudere la strada.”
In effetti, alle spalle dell’agente si scorgeva un discreto numero di persone, tutte affaccendate come tante diligenti formiche. Auto della polizia, un’ambulanza e facce torve di sbirri irritati, chiudevano la scena.
Tornai sui miei passi, pensando a vie alternative per tornare a casa. Una signora mi venne dietro tutta trafelata e mi guardò con occhi spaventati.
“Un ragazzo… un ragazzo!” disse agitando in modo curioso le mani e superandomi senza fermarsi.
“Un ragazzo?” chiesi incuriosito alla nuca della donna che si allontanava.
4.
Selim era sul terrazzo, scavalcò il parapetto e si attaccò alla grondaia per calarsi nella strada di sotto. Ma la grondaia si ruppe e restò ancorato con un braccio, appeso a penzoloni nel vuoto. Tra un attimo sarebbe stato raggiunto dagli uomini con la pistola.
In quel momento sorse il sole e illuminò la città.
Selim si voltò a guardarlo e ne rimase abbagliato.
Era bellissimo.
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