Giocando al volano
Ingenue
Divaricano le gambe
Tagi
Mio padre non aveva
mai visto il mare.
Almeno fino a quando
non ebbe compiuto diciott’anni. Era il 1953, l’Italia era da poco
uscita da una guerra mondiale e cercava di ricucire le sue ferite.
Partì militare lasciandosi dietro fame e lacrime e sbarcò in
Sardegna. Ne vide tanto di mare, in un colpo solo. Ma
quell’indigestione marina non gli bastò, non si riprese mai dalla
malattia del mare. Volgendosi indietro col ricordo ai suoi anni di
bambino, la prima immagine che si stagliava su tutti gli altri
ricordi credo fosse la terra vista a faccia in giù, bagnata dal
sudore e dalle lacrime, mentre era chino sui solchi lasciati
dall’aratro. Ho sempre pensato che se non avesse messo su famiglia
così presto, si sarebbe imbarcato sulla prima nave che gli fosse
capitata a tiro, uno strano destino di contadino – marinaio, e non
sarebbe tornato mai più. Per svegliarsi col mare, addormentarsi col
mare e magari, morirci pure col mare.
Mio padre non aveva
mai visto il mare.
Io si, invece, fin
dalla nascita. Avevo aperto gli occhi guardando il mare. Mio padre mi
fece nascere in una città di mare. Conservo ancora un vago ricordo
delle lunghe passeggiate mano nella mano con lui sulla spiaggia, sul
lungomare, per le strade della costa. Ovunque andassimo, uno dei lati
di quel rettangolo assurdo e precario che era il paesaggio di quella
città era sempre il mare.
Quello fu il suo
regalo più bello.
Del resto, ha sempre
avuto poco tempo per farmi regali, era sempre fuori a lavorare. In
casa c’era solo per mettere insieme il pranzo con la cena, un pasto
che prendeva a un’ora assurda, le cinque del pomeriggio, per fare
prima e lavorare di più, la sua strana pausa pranzo ormeggiata al
pontile di un tempo medio fra i due principali pasti della giornata.
Me lo ricordo seduto da solo al tavolo della cucina a ingozzarsi
lentamente, mangiava senza gusto, beveva solo per togliersi la sete e
poi, si puliva la bocca con il dorso della mano, era il segnale che
aveva finito e mamma poteva sparecchiare. Andava via, senza
guardarci, senza salutare, la sua schiena sempre più china, gli
occhi sempre più stanchi. Il lavoro gli ha mangiato la vita.
L’altro regalo che
mi ha fatto mio padre è stato quello di andarsene presto, troppo
presto. Con la liquidazione tirammo avanti un bel po’, ma non
troppo. Bè, forse il regalo, più che a me, l’ha fatto ai suoi
padroni che lo pagarono in nero tutta la vita e risparmiarono perfino
sul suo tieffeerre. Non li commossero le lacrime di una vedova e il
pianto di tre bambini.
Da allora, ho dovuto
sempre cavarmela da solo. Sono cresciuto, troppo in fretta e, quando
si cresce troppo in fretta, si viene su male, storti e insani, come
una pianta senza sostegni. Ma sono sempre stato curioso di vedere il
mondo, così, alla prima occasione me ne sono andato.
Del resto, non
potevo restare. Lì dov'ero, dove sono nato e cresciuto non c'era
niente. E in un posto in cui non c’è niente puoi solo diventare
tossico o pusher, o entrambe le cose. A te la scelta. Io no però,
non sono diventato né tossico né spacciatore. Potevo perdermi, ma
non l’ho fatto. Non perché volevo diventare un bravo ragazzo, un
uomo onesto. Ma per un altro motivo.
Non volevo dargliela
vinta.
Avrebbero detto:
ecco guarda, hai visto? Cosa potevi aspettarti da lui? Che era un
disgraziato si vedeva da quando andava alle elementari. E avrebbero
sorriso compiaciuti sui sagrati delle loro chiese, impettiti nei loro
abiti della domenica.
No, non potevo
dargliela vinta.
Certo, la sorte ha continuato a non stare dalla mia parte, ma me ne sono fatto una ragione.
E soprattutto, non
ho mai alzato la voce. Contro nessuno. Io non parlo mai a voce alta.
Se lo faccio, vuol dire che quello che sto dicendo non ha importanza,
oppure, che sono quelli che mi ascoltano a non averne.
Da quando sono
sbarcato in questa città, niente è stato più lo stesso, neppure
io. Questa città mi sta mangiando l’anima. D’accordo, ci sono
venuto perché avevo bisogno di lavorare, avevo bisogno di soldi e
all’inizio è stato così. Soldi facili, ma solo all’inizio.
Dopo, sono finito in un turbinio di lavori, impieghi e incarichi ed è
stato come precipitare. Mendicare lavoro, vendersi per lavoro,
sputare sulla mia terra per lavoro. Non ho mai fatto lo stesso
mestiere per più di un anno.
A volte mi sento
solo, ma non annego nel vuoto. Soffro della solitudine di chi pensa.
E’ vero, penso molto e, a volte, scrivo quello che penso, ovunque
mi trovi. Ho scritto sui diari degli altri, sui tovaglioli al
ristorante, sulle analisi del sangue, sulla carta igienica dei bagni
pubblici e, perfino sulle federe dei cuscini. Ho il terrore di
perdere le idee e non ritrovarle più. Ma scrivere, non vuol dire
essere uno scrittore.
E’ solo inchiodare
parole alla carta, come farfalle impaurite, terrorizzate dalla fine
che stanno per fare. Io credo che le parole, come le farfalle, sono
fatte per volare nell’aria, danzare sulla punta della lingua e
solleticare le orecchie, non per finire chiuse dentro un libro, come
tele dimenticate in una pinacoteca.
Ecco. Ho appena
dichiarato il mio amore per le parole. Eppure, a volte, non riesco a
farmi capire. Sarà colpa del mio accento. Ho girato molto, su e giù
per lo stivale e ho preso strane cadenze e inflessioni esotiche, ho
rubato dai vernacoli modi di dire inusitati e bizzarri vocaboli.
Possedendo molteplici inflessioni, il mio linguaggio è di tutti i
luoghi e di nessun luogo in particolare.
Oggi sono tornato,
sono tornato a casa e da qui la città è quasi indistinguibile dalla
nebbia che la circonda e dal cielo basso e grigio. E’ incredibile
quanto sia terapeutica la distanza. Qui mi pare di respirare di
nuovo.
Ma l’oggi si è
trasformato in ieri maledettamente presto. Ed eccomi qui. Di nuovo.
Provo un vago senso di vertigine e smarrimento, come se mi mancasse
l’aria. Per me tornare qui è come precipitare per sempre.
Non mi abituerò
mai.
Qui di mare non ce
n’è. In compenso, c’è fretta, tanta fretta. E arroganza. E
ipocrisia. E muri, tanti muri.
Che mi succede?
Non sono più quello
che ero, ma non sono ancora quello che sarò.
Chi sono?
Un processo in atto,
un progetto in divenire.
Pensai che, se mai
nella vita avessi avuto un figlio, avrei dovuto fargli un regalo come
quello che mio padre aveva fatto a me, farlo nascere in riva al mare,
per confondere il suo primo tenue vagito con l’alito rude del mare.
E sperare che da grande si trovasse una donna di mare, abituata a
fare i conti con le partenze, come con le stagioni che cambiano. Le
donne di mare sono più donne. Ma qui dov’ero sbarcato, l’unico
mare era fatto di nebbia. E al mio ipotetico figlio non avrei potuto
regalare nient'altro.