Il sole affonda sotto terra, ormai è
sera, odo il suo lieve fruscio tra le fronde degli alberi, una gradevole brezza
si è levata e scivola giù dai colli a rinfrescare la pianura. Sono di nuovo
qui, davanti a un foglio di carta, nemmeno un segno impressovi da me, anzi, uno
ce n’è, ma è stato uno sbaglio, un errore, un movimento maldestro ha disegnato uno
sbaffo di matita sulla carta.
Eppure, c’è qualcosa che non va,
come un boccone che non va giù, come un groppo alla gola. Un’atmosfera greve
incombe sul mondo, come se volesse piovere, un senso di attesa; nel cielo
balenano presagi anomali e inquietanti.
Se
solo potessi… se solo potessi… Se solo potessi cosa? Non so neppure io cosa
vorrei.
Per
scrivere non è necessaria l’ispirazione. Per scrivere basta averne voglia,
diceva qualcuno che ora mi è ignoto. C’è qualcosa da qualche parte dentro di
me, o forse là fuori, nella notte che incombe, nell’aria fresca che preannuncia
le stelle. C’è qualcosa che mi impone di restare. E attendere.
Non
è ancora giunto il momento di scrivere, so che verrà, ne sono certo, ma non è
ancora il tempo.
Ahimè,
l’arte non è palese, tutt’altro. Essa è nascosta, oscura, a volte indecifrabile
e, soprattutto, non è popolare, non è per tutti. Devo strizzarla fuori dal
profondo di me, trasudarla dai tessuti dell’anima, secernerla dalle fibre del
cuore.
Ripenso
a dov’ero stamattina e la matita comincia a scorrere sul foglio, come un
esperimento di psicoscrittura.
Non
si muove un filo d’aria, il mare è immobile, forse il tempo si è fermato. Cielo
e mare si confondono all’orizzonte e tutte le cose sfumano in un bianco
abbacinante, l’acqua assume sembianze oleose e cangianti, un fluido gelatinoso
di un mondo alieno, e si richiude dopo il mio passaggio. A che distanza sono dalla
costa? Stimo mezzo miglio. Già i pennelli di pietra a protezione della sabbia
sono svaniti nella foschia, le voci della spiaggia non si odono più – soltanto
il latrare di un cane poco fa, ora, neppure quello - ora emerge soltanto il
verde della pineta, ma è un verde smorto e alternante che mi pare soltanto
un’eco di un ricordo e non sono sicuro di vederlo davvero.
La
terra è svanita.
Per
molte miglia sono solo, mi sento davvero solo, non faccio più parte del mondo
degli uomini – quelli li ho lasciato sulla spiaggia addormentata prendendo il
largo -, non faccio ancora parte di questo mondo marino, opaco, lattescente.
Forse, non ne farò mai parte. Così mi accontento di aleggiare in un limbo fra
cielo e mare, nel silenzio rotto dal lieve sciabordio dell’acqua che scivola
sotto la carena. Batto il pugno sulla fiancata e ne viene un tonfo cupo e
solido. Il Mambo sa il fatto suo. Che
sensazione rassicurante! Sono sospeso sull’abisso, separato soltanto da mezzo
metro di scafo, ma continuo a volare sulla superficie delle acque.
Sento
che di questo avevo bisogno, sono sicuro che era quello che volevo, mare e
silenzio e il cielo a vegliare sul mio scafo vacillante. Ne sono certo quando
mi stendo a riposare un po’ sul fondo della coperta. Di là, dall’altra parte,
nessuno può capire quello che provo, da questa parte, le folaghe e i gabbiani
in volo sulle acque immobili, i pesci immersi negli abissi, il mistero delle
acque senza fine, di questo verde fosforescente e infinito. Non avevo mai visto
un mare così – e mi fermo perché non trovo le parole -. Forse…
Non
voglio tornare alla terra, voglio restare qui.
Ma è
tempo di tornare. Mi avvicino a riva, lentamente, di malavoglia. Gusto ogni
secondo di quel tempo che mi lega ancora alle acque.
Ricompare
il verde scuro dei pini, essi descrivono il profilo della costa e una lingua
sabbiosa si protende accogliente verso di me. Sento di nuovo le voci, mentre mi
preparo all’ingresso nel mondo degli uomini, al mio ritorno.
…vociare
di bagnanti nel pomeriggio sonnolento.
…il
latrare sicuro di un cane.
…lento
incedere di anziane coppie, la donna parla al vecchio, il suo interloquire
serrato non gli consente di replicare. Chissà quanto è importante quello che
gli sta dicendo?
Mi
preparo all’approdo, decido di non spiaggiare per non far soffrire la chiglia,
quindi scelgo il punto e mi calo dal kayak. Ma, non avevo considerato l’alta
marea e mi ritrovo immerso fino al collo. Allora, con una mano tengo la cima
del kayak e me lo tiro dietro, con l’altra tengo la pagaia sollevata sopra la
mia testa. Mi vengono in mente sequenze da D-Day o attraversamenti di paludi in
stile guerra del Vietnam.
Riemergo
bagnato fradicio e, che piacevole sorpresa! E’ una spiaggia di nudisti e io
sono l’unico vestito da capo a piedi e, bagnato fradicio come sono, devo
sembrare più strano io a loro, di quanto uomini, donne e bambini che vogliono
prendere il sole nudi come mamma li ha fatti, possano apparire strani a me. In
verità, nessuno prova il benchè minimo imbarazzo, me compreso.
La
spiaggia è popolata di corpi nudi, alcune signore ancora piacenti chiacchierano
incuranti della loro nudità, seni ancor sodi svettano come catene montuose
sulle pianure sabbiose. Mi guardano, ma non si danno troppa cura di me,
osservano, più che altro, il mio goffo armeggiare intorno al kayak. Infine, si
apre un varco fra le nudità e mi lasciano passare fra le scure ombre della
pineta.
Sono,
come al solito, un intruso, non sono mai nel posto giusto, mai al mio posto. Se
almeno sapessi qual è!
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