giovedì 30 maggio 2013

Recensioni e commenti su L'impero del vento


Posto qui in forma anonima alcune recensioni di addetti ai lavori e commenti di beta reader che lo hanno letto in anteprima.

“Il deserto è fondamentalmente un concetto che va ben al di là della connotazione fisica, arriva ad essere uno stato d’animo. Questo è quanto rimane fondamentalmente dei tre racconti che coatituiscono la presente raccolta. Sebbene essi siano molto differenti, come impostazione, in termini di plot e di soluzioni narrative, sia come genere, mantengono un’univocità concettuale profonda, andando a scavare nell’indole più intima dei personaggi presentati. La natura introspettiva dell’approccio è palese in tutto il lavoro. L’umanità che traspare nei protagonisti è giustamente fallace, contaminata. Il ritmo è il respiro del vento, le atmosfere hanno a che fare con il languido trasporto del ricordo, quasi oniriche. Nel lavoro esaminato riscontriamo buone qualità narrative. Lo scritto si presenta organico, con soluzioni più che adeguate e impianti strutturati. L’economia dei personaggi è ben delineata ma non debordante, essi prendono forma dai racconti stessi, non sono mai posti completamente in luce, riservando ai finali il dipanare come pure il sorgere di inevitabili questioni che si pongono all’attenzione durante i tragitti, sempre esplorati il giusto. Le vicende progressivamente cambiano, maturano, crescono, facendo assumere alla proposta complessiva del trittico fattezze precise. Si nota un’attenta personalizzazione e una proiezione notevole nel delineare gli scenari. Il lavoro è godibile per l’equilibrio che ne permea l’eloquio, miscelando in modo disinvolto le differenti tematiche, per un risultato godibile. Peculiare, nei racconti, è un onnipresente senso di vaga inquietudine.”


“Abbiamo letto con piacere il suo testo e riteniamo che si tratti di un’opera molto valida, rapida, dalla prosa scorrevole e curata, ricca di messaggi, che può rivolgersi ad un pubblico giovane, anche in movimento, che cerca quindi letture dalla trama non troppo impegnativa da seguire, pur trasmettendo contenuti nuovi ed  importanti.”


 Racconti di deserto, di solitudine e di desolazione. Storie ambientate in luoghi così ostili che solo il vento può farla da padrone. Un vento che l’autore muove con sapiente maestria regalando emozioni indimenticabili dalle tinte forti e nette che si possono trovare solo nel deserto.”


Cenere

“Il ritmo ha un crescendo e la seconda parte la trovo molto struggente... Quel senso di unione, di amore pare sia stato il senso di vita del soldato-poeta,... e pare che sbirciando nella vita dell'amico il protagonista stesso sottolinei con un forte esistenzialismo e una malinconica introspezione, la sua solitudine, un senso di vuoto nella sua vita! Hai scritto una storia carica d'emozione e umanità, mantenendo uno stile impeccabile e poetico!”


“… la distanza tra la vita e la morte, giusto il volo di una pallottola. Si volta pagina per sopravvivere  conservando solo i ricordi. E’ un piacere leggerti.”

“Scrivi molto bene e la storia scorre bene dall’inizio alla fine. Buona la tensione narrativa e l’alternarsi tra momenti duri e violenti e momenti di dolcezza riportati nella corrispondenza.”


“Trovare pagine come queste, ben scritte, scorrevoli e gradevoli, mi rilassa l’anima.”


“Bel racconto forte e robusto. Raro che un racconto mi commuova: questo lo ha fatto. Non aggiungo altro. Non è necessario.”


La guerra senza caratterizzazioni temporali o geografiche. Emerge solo il sentimento d’inutilità di tutte le guerre e l’alienazione di chi combatte senza sentire il senso di quel che fa. E, più di tutto, le storie che stanno dietro ai soldati, le loro vite, che tante volte vengono distrutte in un attimo.



L’alieno

“Hai saputo creare una bella virata nella trama e un bel colpo di scena... sebbene questo resta un racconto drammatico con una potente introspezione e quei ricordi del mare, li ho sentiti così vicini ai miei... il mare resta nell'anima e a volte pare percuoterci coi suoi moti...
Mi sembrava un film in bianco e nero dai dialoghi rarefatti e paesaggi desertici alternati al mare!”

“Ho trovato un crescendo di emozioni suscitate dal tuo modo di scrivere, curato, ricco, avvincente. Nella lettura ho trovato il senso di immensa solitudine che, da un certo punto di vista, non l'unico, è caratteristica di chi ha una mente per pensare. Ho letto con raro piacere un racconto di fantasia dove si trovano interessanti momenti di introspezione.”



Fantasia sfrenata. Lucida analisi della follia. Ode al mare e alla libertà che evoca.



Tè alle mandorle



“Sei riuscito a rendere molto poetico il tuo narrare e a trasmettere il grande trasporto verso l'Africa. Dolcezza, suggestioni dei paesaggi e un senso di libertà sono giunti con l'aroma di questo thè alle mandorle... poi un tocco di simpatia e umorismo, hanno ben completato l'opera. Mi hai fatto venire voglia di partire per un viaggio in queste terre a me sconosciute.”




“Semplicemente bellissimo. Tutto, l'atmosfera, gli ambienti, il modo di descriverli, i personaggi. Tutto. Questo racconto è una perla, e come quasi tutte le perle, temo passerà pressochè inosservato. Non è facile trasmettere l'incanto e la seduzione di una terra come hai fatto tu. E’ un racconto lungo? No. Il vero peccato è che abbia avuto una fine.”


“Profumo d’Africa, di avventura, redatto con perfetto stile osservativo.”


Calde suggestioni d’Africa.


“Brano di una raffinatezza notevole. Limpide le parole che dedichi a questo continente. Lettura molto apprezzata.”

E' meraviglioso, mal di deserto, mal d'amore.' 

Ringrazio per tutti i commenti e le recensioni.

lunedì 27 maggio 2013

Discorso sulle quattro nobili verità

Le quattro nobili verità, i tre segni dell’essere, il nobile ottuplice sentiero, i tre rifugi, i cinque precetti. Sono la sintesi del dharma, l’insegnamento del Buddha. Il totale fa 23, il numero della follia, secondo la smorfia napoletana e folle si sente il neofita, che durante la meditazione riesce a raggiungere uno stato di coscienza diverso, disancorato da tutte le false convinzioni e convenzioni del mondo.
La prima verità è Dhuka, la frustrazione cronica che proviamo nell’essere al mondo e non sapere, nè poterne risolvere i problemi, che per definizione, sono senza soluzione.
Ma la prima verità introduce subito ai tre segni dell’essere.
Il primo segno è appunto, dhuka, il secondo è l’impermanenza, cioè l’ostinazione a voler rendere permanenti e definitive le cose che, sempre per definizione, non lo sono, data la caducità del mondo, il terzo è Atman, il non sé, che consiste nel non percepire il sé, nel percepirsi come essere singolo, come atomo e non come parte del tutto. I maestri dicono infatti, che il (cioè, l’essenza divina) si è divertito a frazionarsi, a disperdersi in mille rivoli per tutto l’universo.
La seconda delle Quattro Nobili Verità è Thrishna, ovvero la fissazione per un’idea, una persona, un oggetto, l’eccessivo attaccamento al mondo, che dobbiamo superare.
La terza Verità è Nirvana. Nirvana è letteralmente espirare, che richiama quasi immediatamente la morte. Il Nirvana è quello che potremo definire il ‘paradiso’ per il buddhismo, ma è più propriamente lo stato di grazia, raggiunto il quale, conseguita l’illuminazione, che altro non è se non capire come stanno veramente le cose e cioè che noi siamo parte dell’Essere, apparteniamo al Tutto, siamo il Sé, non siamo più costretti a ricadere nel Samsara, cioè il ciclo ininterrotto di vita e morte, di morte e rinascita, concetto molto simile al phava chakra, ossia la ruota del divenire degli induisti. Secondo questi ultimi, se immaginiamo una ruota divisa in sei spicchi, al vertice ci sono i deva, gli esseri angelici, quasi divinità, in fondo in basso, ci sono i naraka, esseri imperfetti, quasi demoniaci, poi, procedendo da sinistra verso l’altro, incontriamo i preta, che sono gli esseri preda dell’imperfezione, salendo ancora, arriviamo agli esseri umani e poi torniamo ai deva. Se dai naraka risaliamo verso l’alto, stavolta da destra, incontriamo subito gli animali, poi gli asara e infine, sempre i deva in cima al vertice.
Ma, secondo i buddisti, l’obiettivo non è tanto risalire per vivere meglio in categorie superiori, come i deva, ma raggiungere l’equilibrio, che è nel mezzo della ruota, nel mozzo, cioè nel conseguire uno stato in cui non si è né naraka, né preta, nè essere umano, né animale, né asara e neppure deva; in poche parole, non ritornare più al Samsara ed al ciclo infinito di nascita, morte e rinascita, ovvero, la beatitudine in sole sette lettere: NIRVANA. Il Nirvana esiste in quanto c’è la Samsara e viceversa, poiché esse sono parti, speculari e simmetriche del Tutto.
Ma dicevamo poc’anzi che il significato profondo di Nirvana è respiro e i buddisti, paragonando la vita alla respirazione, sostengono che, se ti attacchi alla vita, la perdi, se la lasci andare, essa ritorna. Chi trattiene il respiro, chi si aggrappa agli atomi d’ossigeno e non vuole lasciarli andare, non vive più a lungo, ma finisce per morire d’asfissia, chi invece espira, emette il fiato, lascia andare l’aria, non per questo muore, ben sapendo che essa tornerà ancora in una nuova inspirazione.
La quarta Verità è Marga, ossia il Sentiero, che si chiama più esattamente Nobile Ottuplice Sentiero.
Il Nobile Ottuplice Sentiero è suddiviso in tre gruppi, tutti caratterizzati dall’aggettivo giusto, ma legato a concetti diversi.
Il primo gruppo esprime il concetto di guardare, osservare, il modo giusto di vedere le cose. E’ legato alla categoria della saggezza ed ha la caratteristica della staticità, ma anche della comprensione, che potremo meglio definire come ‘contemplazione’. Esso racchiude i primi tre sentieri: il giusto punto di vista e la retta intenzione, cioè il desiderare il superamento dell’avidità, della brama di vivere.
Il secondo gruppo attiene invece alla categoria della moralità ed esprime la nozione di comportamento, azione: il giusto comportarsi, il giusto agire, parlare bene. Vivere in equilibrio con se stessi, con gli altri, con la natura e con il mondo, evitando gli eccessi e di arrecare danno o sofferenza agli altri. Ma agire bene e comportarsi rettamente è molto, molto difficile ed i Tre Rifugi ed i Cinque Precetti ci aiutano a metterci sulla strada giusta.
Quando siamo perduti abbiamo bisogno di un rifugio per rimetterci in rotta e i buddisti ne sono ben dotati, ne hanno addirittura tre: il Buddha, colui che ha raggiunto l’illuminazione e ci fa da esempio, il Dharma, l’insegnamento che ci ha lasciato ed infine, la Sangha, cioè l’insieme, il collettivo, la comunità di tutti coloro che seguono il nostro stesso percorso, aiutandosi a vicenda.
I Cinque Precetti ci dettano testualmente le regole, indicando come comportarci. A questo punti azzarderei un paragone con i Dieci Comandamenti del cattolicesimo.
Il Primo precetto dispone di non uccidere altri esseri viventi, un parallelo quasi perfetto con il non uccidere cristiano. Solo che il divieto buddista è assoluto. Quante volte sacrifichiamo gli animali per nutrircene, per fare esperimenti, o semplicemente per divertimento? Oserei dire una strage degli innocenti. Eppure, si può essere perfetti cristiani anche se siamo scienziati vivisezionatori, andando a caccia o più semplicemente se ci cibiamo di carne o di pesce. I buddisti hanno invece un profondo rispetto per gli animali e per la natura in genere. Molti di essi, quasi tutti credo, sono vegetariani. Io non lo sono, ma ho il più grande rispetto per loro, perché non so rinunciare alla carne ed al pesce (vuoi mettere un bel panino imbottito di salame o una frittura mista di pesce?).
Il Secondo precetto invita a non essere preda delle passioni. Qui il discorso si complica, perché nella vita tutto è passione: l’arte, la politica, lo sport, il sesso e così via. Però, a ben vedere, non è corretto sostenere che il Secondo precetto ci vieti di avere passioni, siamo umani, sarebbe impossibile. Più semplicemente, il precetto intende dire che non dobbiamo essere preda delle passioni, totalmente inebetiti, assorbiti, affogati in esse, perché, se ciò accade, perdiamo di vista il nostro scopo, che è quello di raggiungere l’illuminazione. Ritengo che in questo precetto si possano raggruppare i comandamenti biblici del non fornicare, non desiderare la donna d’altri, non desiderare la roba d’altri.
Il Terzo precetto chiede di non dire cose non vere ed è analogo al comandamento di non rendere falsa testimonianza, quindi non mi dilungherei su questo, se non aggiungere che le falsità e la calunnia siano diventate lo sport più praticato del ventunesimo secolo, agevolate e non di poco da internet, i network e i social forum.
Il Quarto precetto suggerisce di non prendere cose che non ti siano state date, che equivale al non rubare dei cattolici.
L’ultimo precetto, il Quinto, non trova riscontro nella Bibbia. Esso ci chiede con molta semplicità di volerci bene un po’ di più e di non assumere cose che ci fanno male, in altre parole ci invita a non intossicarci, a non assumere sostanze stupefacenti e alcolici, ma anche a mangiare meno e meglio, cibarsi dei prodotti della natura, evitare la carne, i cibi raffinati, industriali, junk food, il cibo – spazzatura e le schifezze anglosassoni del mondo dei fast food. Ma anche a non sprecare il cibo, perché forse, da mangiare su questo pianeta ce n’è per tutti e non è più tollerabile che da una parte vi è chi muore di malattie legate all’eccessiva quantità  e scarsissima qualità del cibo che assume e dall’altra, chi muore letteralmente di fame!
Restano fuori dai parallelismi i comandamenti del santificare le feste, onorare il padre e la madre, non avere altri dei all’infuori di Dio e non bestemmiare. Secondo Sant’Agostino, Dio ci avrebbe dato i comandamenti per dimostrarci che non siamo in grado di rispettarli, soprattutto quest’ultimo, quello del non bestemmiare (e io, purtroppo, ne so qualcosa!), perché i peccati, l’errore ed il vizio sono insiti nell’animo umano. Se Dio ci avesse prescritto regole più facili da rispettare, noi non cadremmo mai nel peccato e non sapremo neppure cosa esso sia, pur vivendo perennemente nel vizio.
I Cinque Precetti, in sostanza, ci insegnano ad evitare tutti quei comportamenti che genererebbero notevoli conseguenze negative che, influendo sul karma, ci legherebbero inevitabilmente ancora di più al mondo ed alla sua caducità, impedendoci di raggiungere la liberazione.
Il terzo e ultimo gruppo del Nobile Ottuplice Sentiero appartiene alla categoria della meditazione. Esso richiede il retto impegno, ovvero, abbandonare le vie dell’eccesso e della perdizione e coltivare disposizioni d’animo in linea con l’universo e più vicine al Sé, la retta presenza, che consiste nel mantenere la mente libera, sgombra da pensieri inutili, affastellati l’uno sull’altro, pesanti orpelli che ci allontanano dalla Via, la mente priva di confusione, non influenzata dall’avidità e dalla bramosia delle cose del mondo e infine, la retta concentrazione, cioè la padronanza e consapevolezza di se durante la meditazione (che è molto difficile a farsi, durante la meditazione ci si perde molto spesso!).
Il Nobile Ottuplice Sentiero, nella simbologia del Buddismo, è rappresentato come la Ruota del Dharma (Dharma Chakra), una ruota con otto raggi, uno per ogni sentiero, che somiglia molto a un timone di nave d’altri tempo. E come quel timone governava le navi, così noi possiamo affidarci al Nobile Ottuplice Sentiero per percorrere rettamente le infinite e perigliose rotte dell’Essere.
Quello che mi piace nel buddismo è che nessuno viene ad ordinarti: pentiti, fai ammenda dei tuoi peccati ed a minacciarti le fiamme dell’inferno. Più semplicemente ti viene indicata una via, ti viene proposto un percorso, sei invitato a dare un’occhiata. Poi, se vuoi, prosegui, altrimenti fai come ti pare. Non c’è nel buddismo il concetto del peccato e del pentimento, ma quello del giusto comportamento e della meditazione, la riflessione sulle nostre azioni, perché,  come detto prima, esse hanno riflessi sul karma.
I buddisti sostengono che possiamo cercare di diventare asceti, ma senza fretta. Possiamo anche scegliere di perderci in una vita di vizi, passioni ed egoismo, tanto abbiamo tutto il tempo che vogliamo per raggiungere il Nirvana, abbiamo davanti a noi l’Eternità.

giovedì 16 maggio 2013

Ritratto dell'artista da giovane

Ho preso in prestito a Joyce il titolo di questo post, per parlare dei miei esordi nella scrittura. In uno dei prossimi post, lo farò per la musica.
La primissima cosa che ho scritto, credo sia stata una poesia. Ero alle elementari e ciascuno di noi scolari doveva scriverne una sulla Festa d’Ognissanti. Alla maestra, dopo aver letto la mia, vennero i lucciconi. Mi ricordo ancora qualcosa di quello che avevo scritto. C’era senso di morte naturalmente e poi, solitudine, malinconia. Descrivevo una tomba abbandonata da tempo, senza cure, che non importava più a nessuno. Ricordo che la maestra mi guardò con gli occhi lucidi. Non so se si fosse commossa, leggendola. Preferisco pensare che i miei versi fossero talmente brutti da averla fatta piangere di disperazione.
Il secondo tentativo di scrittura fu dettato dal business. Ero alle medie e si lavorava in coppia. Io scrivevo pornazzi molto spinti ed espliciti, il mio socio provvedeva alle illustrazioni, molto rozze, ma efficaci. Realizzata l’”opera”, ne facevamo delle copie che mettevamo in vendita tra gli scolari. Battevo le storie su una vecchia macchina da scrivere, che imprimeva le lettere sulla carta, in particolare le a, le zeta e le effe, in maniera irregolare, un po’ più su, un po’ più giù, rispetto alla riga, così che a leggere veniva dopo un po’ la nausea. Per le copie, facevamo strati e strati di fogli bianchi e di fogli di carta copiativa (chi se la ricorda ancora?), fare fotocopie all’epoca era ancora una faccenda rara e soprattutto, costosa. Il mio amico ripassava le linee dei suoi disegni sulla carta copiativa e ne venivano fuori bozzetti grossolani, ma che rendevano molto bene l’idea. Ciononostante, le vendite andavano abbastanza bene tra gli alunni, presi dai primi tormenti erotici (evidentemente, il detto, tira più un pelo di f… che un carro di buoi, vale anche a quell’età), almeno fino a quando una di quelle storie -  me ne ricordo ancora il titolo: I dolori della signora Giuseppina, la trama ve la lascio immaginare – finì in mano a un professore. Come andò a finire, anche in questo caso, ve lo lascio immaginare.
Dopo allora, smisi per un bel pezzo di scrivere e soprattutto, di lavorare in coppia e da solo, iniziai a esplorare me stesso, le mie paure, i miei demoni interiori. Avevo centrato il nucleo dello scrivere, ovvero, il confronto, il colloquio a tu per tu con la mia anima, per spogliarla, metterla a nudo, strato dopo strato, finzione dopo finzione, facendo cadere una convenzione sociale dietro l’altra, per far emergere solo l’essenza più pura e vera. Ero alle superiori a quel tempo. E le mie paure, le mie angosce puntualmente emersero nel racconto che stavo scrivendo. Era una storia  claustrofobica e delirante. Si narrava di un uomo che aveva scoperto di avere un male incurabile e si era attaccato morbosamente alla vita, più di quando era in salute. Egli non voleva morire e per vendicarsi delle condizioni in cui era costretto dalla malattia, invidioso della vita e della salute degli altri, era diventato un assassino, una sorta di serial killer, che mutilava orribilmente le sue vittime. La storia, dattiloscritta, circolò con il solito metodo della carta copiativa, con l’aggiunta, stavolta, di alcune fotocopie e godette di una discreta popolarità. Forse troppa. Una copia fu intercettata dal prof. di italiano. Chissà perché, all’epoca i docenti tenevano gli occhi ben aperti, molto più di oggi, non sfuggiva loro quasi niente, meglio della Gestapo e più efficienti del KGB (per par condicio). Io ero quasi contento della scoperta. Mi aspettavo a quel punto lodi ed elogi ed ero certo che le mie doti letterarie fossero finalmente emerse e apprezzate. Invece, al professore il mio romanzo non solo non piacque, ma dovette essergli sembrato talmente orrido e zeppo di crudeltà e grondante sangue che fui spedito dritto dritto dallo psicologo, al quale dovei spiegare, tante volte, cosa vedessi nelle macchie sui fogli che mi andava mostrando. Io vedevo quello che c’era, cioè solo macchie, ma per trarmi d’impaccio chiesi aiuto alla mia fervida fantasia e inventai su due piedi animali, oggetti e persone. In questo modo me la cavai per fortuna solo con una memorabile lavata di capo e un brutto voto in italiano.
Poco più avanti, ormai maggiorenne, cominciai a fare sul serio, o almeno ci provai. Iniziai a scrivere di me, della vita, del mondo, ma, visti i precedenti, stavolta non feci neppure una copia dei miei lavori, anzi li nascosi scrupolosamente e non feci leggere più nulla a nessuno, tranne pochissime eccezioni in favore di persone fidate, fino a un paio d’anni fa, quando ho deciso di iniziare a pubblicare i miei scritti sul web.
Ho già detto da qualche altra parte in questo blog che non si può sopprimere, nascondere, o fare finta che non ci sia. La voglia di scrivere trova sempre il modo di tornare. E l’unico rimedio affinchè smetta di tormentarmi è assecondarla. A volte mi prudono le mani, quando vedo un foglio bianco. E fremo, sono preda dell’angoscia, fino a quando non ho scritto tutto quello che devo scrivere. E’ un vizio quasi quanto bere, fumare, andare a puttane. Ma nella mia vita non sono stato costante neppure in quelli. Non sono un abitudinario e prima o poi, a furia di praticarli, pure i vizi divengono monotoni e noiosi. Se non avessi un animo tormentato, con tutta probabilità non scriverei. Giocherei a calcetto. Scrivere è il prezzo da pagare per l’impossibilità di vivere una vita normale.
Fondamentalmente per me scrivere equivale a tre cose: comunicare, trasmettere emozioni, creare.
La scrittura è una nobilissima forma di comunicazione, forse la più profonda e diretta. Con la scrittura si può fare davvero di tutto: si può decidere di spiattellare tutto e subito in faccia al lettore, oppure lasciare intuire un po’ alla volta, si possono dire cose poco digeribili e si può trovare il coraggio di parlare di sé.
Scrivere a volte è devastante. Io provo tutto quello che scrivo. Il dolore, la rabbia, la malinconia, la tristezza, l’amore il desiderio, proprio come i miei personaggi e come loro, non mi risparmio. Nello scrivere ho un forte coinvolgimento emotivo, che dopo mi lascia svuotato, un po’ come dopo il sesso; per questo, quando qualcuno legge i miei scritti e dice: “questo racconto mi ha commosso”, oppure, “ho provato rabbia per quel tuo personaggio…” io so di aver raggiunto il mio scopo, perché i miei lettori hanno provato ciò che sentivo io mentre scrivevo quelle righe.
Infine, creare, secondo me, è mettere ordine nel caos. Io sono un disordinato di tutto rispetto, ma preferisco pensare che la mia sia solo confusione materiale, apparente. O con molta ironia e autoindulgenza, un modo diverso dal solito di mettere ordine. Ho letto teorie di psicologi che affermano che i disordinati tendono a tenere tutto fuori dai cassetti in mostra, in evidenza, sotto gli occhi, come se sentissero la necessità di controllare ogni cosa, in bella vista, per il timore di smarrirle. Non so se è il mio caso, ma in tutta sincerità, sono costretto ad ammettere che con tutto quel caos, in realtà, riesco a controllare ben poco.
Per fortuna, ho dalla mia l’esperienza di alcuni scrittori.
Mostratemi un uomo che abita solo e ha la cucina perpetuamente sporca e 5 volte su 9, vi mostrerò un uomo eccezionale.”
                                                                   (Charles Bukowski, 27 giugno 1967 alla 19° birra)
E ancora,
Mostratemi un uomo che abita solo e ha una cucina perpetuamente pulita, 8 volte su 9 vi mostrerò un uomo detestabile sul piano spirituale.
                                                   (Charles Bukowski, 27 giugno 1967 alla 20° birra)
E per finire,
Tristi anime umane, che mettono tutto in ordine”.
                                           (Alberto Caerio, alias Fernando Pessoa ne, Il custode di greggi)
Post scriptum e ciliegina sulla torta,
Il disordine, amico mio, è la genuina essenza della vita stessa.”
                                                                       (Louis - Ferdinand Celine, Morte a credito).

martedì 7 maggio 2013

L'arte dei paradossi

In questi giorni di buio, incertezza, crisi economica e speculazione, sono attratto da una serie di paradossi mondiali, che scopro riflettendo sui nuovi assetti delle relazioni tra gli stati. La mia è una ricerca dai risultati casuali, che mi fa inciampare su scoperte banali, ma talmente banali, che non ci facciamo più caso. Ed è proprio questo l’aspetto più preoccupante, perché ci stiamo assuefacendo a situazioni, fatti e realtà, che diamo per scontate e inevitabili, anche se non lo sono e perchè, forse, fino a pochi anni fa non saremo stati così superficiali.
Cominciamo dal Paradosso n. 1.
Paradosso n. 1
Può un paese stalinista – leninista – marxista – maoista, o più semplicemente comunista, diventare leader dell’economia mondiale, potenza economica, impero delle esportazioni, dando vita ad un’economia di mercato selvaggia, che si fonda sullo sfruttamento dei lavoratori, costretti a una simil schiavitù in catene al posto di lavoro?
Si, è possibile, è accaduto e sta accadendo. La Cina, senza avere mai rinunciato al marxismo – leninismo – stalinismo - maoismo e tutti gli altri –ismi del caso, compresa la fantomatica rivoluzione culturale, con la dittatura del partito unico (quello comunista) e tutto ciò che ne consegue, come il bavaglio alle voci fuori dal coro (i dissidenti spariscono senza lasciare traccia) ed il livellamento coatto dei particolarismi etnici (il Tibet, in particolare) o religiosi (contro le popolazioni di religione cattolica o musulmana), ha creato quello che ha creato, cioè una nuova potenza mondiale, fondata sulle regole di mercato e sul semi-capitalismo. Già, sembrava impossibile, quasi i cinesi venissero da un altro pianeta, tanto erano culturalmente distanti, eppure è accaduto e sta accadendo, ma tutto a discapito dell’etica. Adesso l’Unione Europea s’appressa a riconoscere quella cinese come un’economia basata sul libero mercato, con la conseguenza di abbassare i dazi sulle importazioni e far fare alla ruggente tigre cinese un altro poderoso balzo in avanti, affinchè si invogli la Cina a comprarsi larghe fette del debito sovrano.
Paradosso n. 2
Conseguenza del Paradosso n. 1, è la creazione di una quantità enorme di liquidità, una cifra che non conosco esattamente, ma che immagino come una montagna di denaro, subito reimpiegabile nei circuiti economici mondiali. E cosa finanzierà a breve questo enorme flusso di denaro? I bond europei, i fondi salva Stati e tutti quegli altri strumenti messi in campo dall’Unione europea per superare il periodo di crisi nera, acquistando obbligazioni del debito sovrano dei paesi europei e salvandoli dal default, altrimenti, come in un perverso e tragico domino, cascherebbero coinvolgendo tutti gli altri in una spirale profonda verso il baratro.
Ma allora, se la Cina acquista obbligazioni europee e mette denaro nel fondo salva stati, vuol dire che acquista quote di obbligazioni del debito sovrano di Stati messi male in arnese, o di banche da ricapitalizzare. Ma se chi acquista diventa padrone, la Cina allungherà le mani (insanguinate, non dimentichiamolo mai!) su buona parte delle obbligazioni greche, spagnole o italiane, s’impadronirà di banche francesi, portoghesi e irlandesi. Se a questo aggiungiamo che anche gli Stati Uniti stanno subendo lo stesso trattamento, perché a parte l’India e il Brasile, membri del BRIC (ma su scala molto più ridotta), chi ha liquidità e quindi, potenza tra le mani è solo la Repubblica popolare cinese, significa che questa si sta mettendo in tasca il mondo intero, potendo condizionare ed orientare le scelte di molti governi del mondo, condizionandoli all’erogazione del prestito.       
Paradosso n. 3
Conseguenza dei Paradossi nn. 1 e 2 è che il comunismo, che alla fine degli anni ottanta del secolo scorso si dava tranquillamente per defunto, ha battuto il capitalismo, ora agonizzante, con le sue stesse armi (la speculazione e lo sfruttamento dei lavoratori) e nel suo stesso campo (il libero mercato). Come vogliam chiamarlo, Capimunismo, o meglio Comunconsumismo?
Conclusione
Chi persegue i principi morali dell’etica e del diritto, fondati sulla legge finirà sempre per soccombere se non ha il potere economico, mentre chi ha il potere economico, anche se non ha a riferimento tali principi, governerà sul mondo.
Io ho sempre sbagliato, perché ho ritenuto che i principi dell’etica, della giustizia e del diritto, codificati in legge, prevalessero sempre su quelli dell’economia e la indirizzassero e governassero. Infatti, fino a cinque, sei anni fa, credevo che padroni del mondo sarebbero diventati gli islamici, gli unici a credere ancora e con forza ai principi morali e religiosi (anche se a volte estremizzati), con forza talmente grande da essere capaci di dare la vita e di toglierla. Aveva proprio ragione un mio amico, che, sempre in quel periodo, senza avere dalla sua studi di economia o di diritto, aveva previsto il dominio cinese sul mondo intero, sulla sola base del suo insigne pragmatismo.