martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Postfazione




Postfazione



Il motivo del doppio-fenomenologia di Hotel Vasteland

Un giorno stavo scrivendo al computer nella stanza di sotto, battevo i tasti con regolarità sotto l’influsso di una discreta ispirazione, fermando di tanto in tanto i miei pensieri su una virgola o su un avverbio. Dicono che il radon che s’infiltra nelle case dal sottosuolo, nelle cantine e nei locali sotto il livello stradale, sia nocivo. Io credo invece che il gas incrementi la creatività: come scrivo nel seminterrato, non scrivo in nessun’altra parte della casa. Così, anche quel giorno scrivevo, come sempre, sotto l’effetto del radon e, come sempre, l’orologio alla parete declamava, imperterrito e autorevole, minuti e secondi. Ma non mi accorsi del suo ticchettio finché non l’ebbi arrestato.

La stanza, priva di quel monotono e familiare rumore, mi sembrò sguarnita e fredda, come uno di quegli appartamenti da prendere in affitto e ancora da arredare. Quella stanza vuota, sebbene vi avessero echeggiato le note della mia ispirazione, creava uno strano effetto in me, come se mi trovassi a casa di qualcun altro, o non fossi più io. Avevo prodotto un minimo cambiamento e già quella sala non mi apparteneva più. E neppure la scrittura mi apparteneva, non riuscivo più a battere un solo tasto, a comporre una sola parola. Mi affrettai a far ripartire l’orologio e, come per incanto, la stanza si rianimò e ripresi a scrivere.

Il ticchettio dell’orologio alla parete della stanza in cui scrivo è lo stesso che scandisce il tempo nella camera d’albergo del signor Dammerschlaft. E sono certo che il suo arresto ha prodotto un’interruzione del flusso del tempo anche nella sua storia e l’ha scaraventato in un universo atemporale, dove non esiste passato, né futuro; tutto accade nello stesso istante, e quel tempo presente si chiama eternità.

Chi sono io?

Il volto che calza sul mio teschio, oppure la mia immagine riflessa allo specchio?

Chi sono io davvero?

Quello che credo di essere o quello che di me vedono gli altri?

Il signor Dammerschlaft si guarda allo specchio e non si riconosce, sente pronunciare il suo nome, ma gli pare quello di un perfetto estraneo, i conoscenti lo fermano per strada, ma è come se li vedesse per la prima volta. Il signor Dammerschlaft è un uomo senza memoria. E chi perde la memoria, perde anche la propria identità.

Il nucleo di Hotel Vasteland è doppio, come quei sistemi stellari composti da due astri gemelli, nei quali l’uno esiste solo perché esiste l’altro, altrimenti l’immensa forza gravitazionale li spazzerebbe via entrambi, e invece, li attrae reciprocamente. Da un lato, la crisi d’identità, dall’altro, l’impossibilità di amare. Temi antitetici e contraddittorii? Niente affatto, sono il recto e il verso della stessa moneta.

Se non so chi sono, se non so chi sono davvero, come posso amare il mio simile? Come faccio a specchiarmi in lui se non riconosco la mia immagine allo specchio? Non sono in grado di compatire nel senso letterale del termine (dal latino cum-patire, sentire insieme), sentire quello che sente l’altro, provare quello che prova l’altro. Come posso amare, se non conosco i miei limiti e i miei difetti, la mia vera natura, se non so neppure dove finisco io e dove comincia l’altro?

Se la nostra identità è smarrita, se non ci ritroviamo più, non possiamo amare, perché amare significa riconoscersi nell’altro a tal punto da annullare la nostra esistenza in quella della persona amata, perché l’altro siamo noi.

Ma lo specchio ha in sé qualcosa di diabolico. Esso riproduce una forma, un oggetto, un mondo che in realtà non esiste. L’immagine si sdoppia in una vera e un’altra falsa. Un’apparenza. Non si può andare dall’altra parte e pretendere di attraversare indenni la superficie di cristallo. Una cosa è la realtà, un’altra il suo riflesso. E la stregoneria dello specchio sta proprio nel farci desiderare quello che sta al di là, di farci innamorare dei miraggi che riflette. Per il mio Heinrich è ancora peggio, perché la realtà e il suo riflesso, reale e immaginario, sono la stessa cosa, sono entrambi un enigma dal quale vorrebbe uscire al più presto.

Il tema dello specchio è ricorrente in letteratura. Voglio ricordare la scena in cui Florentino Ariza, protagonista de L’amore ai tempi del colera di Gabo Marquez, chiede al padrone del ristorante di vendergli lo specchio nel quale si rifletteva l’immagine della sua amata, ma anche, Lo specchio deformante di Anton Céchov, che fa apparire bella una donna che non lo è affatto, Alice attraverso lo specchio di Lewis Carroll, o Lo specchio di Isaac Singer. Ma soffermiamoci un momento su quest’ultimo.

Singer scriveva in una lingua che non esisteva più, l’antico yiddish, un idioma fuori dal tempo, e raccontava di un mondo che, al pari del suo linguaggio, non c’era più: il mondo contadino dell’Europa orientale, al confine fra il mito e la dura realtà dei campi. Un piccolo mondo antico popolato da angeli e demoni e destinato a evaporare come il fumo attraverso i camini di Auschwitz. E il suo specchio si mantiene appena al di qua dei confini del reale, “racchiuso da una cornice dorata decorata con serpenti, pomoli, rose e vipere”, ma, al tempo stesso, è una porta spalancata su un altro mondo. Nello specchio si è insediato un demone.

Si tratta di una leggenda antichissima. “Quando un demone si stanca di inseguire l’ieri o di girare in circolo su un mulino a vento, può sistemarsi in uno specchio. Là aspetta come un ragno nella sua tela, ed è certo che la mosca rimarrà presa”.

E la tentazione è fortissima. Quale donna può resistere alla propria bellezza riflessa allo specchio? “Zirel aveva molto da guardare. La sua pelle era bianca come seta, aveva i seni pieni come otri, i capelli le scendevano sulle spalle e le gambe erano sottili come quelle di una cerva”. Non può neppure sospettare che la trappola sta per chiudersi.

Ma torniamo al signor Dammerschlaft e alle sue enigmatiche avventure. Di qua dallo specchio, un mondo ordinato e ordinario, anche se incomprensibile, di là dallo specchio, un mondo al rovescio, capovolto, sottosopra. Qual è il vero e qual è il falso? Qual è il reale e quale l’immaginario?

Non esiste una sola realtà, ma infiniti piani del reale fra loro connessi a tal punto che anche una trascurabile variazione del flusso degli eventi in uno di questi piani influisce inevitabilmente su tutti gli altri, determinando mutamenti e variazioni infinite. Tale è il potere di un singolo avvenimento, da alterare lo scorrere degli eventi. Come un sasso in uno stagno produce infinite onde circolari, che rompono la quieta superficie dell’acqua, così ogni cambiamento può partorire infinite realtà parallele.

Qual è il compito di uno scrittore? Narrare di tutte le realtà simultanee? Sarebbe troppo noioso. E inutile. Ingannare il protagonista (e attraverso di lui il lettore) con le finzioni e gli artifici che ha creato? O aiutarlo a trarsi d’impaccio dalle situazioni incresciose, dai raggiri e dalle falsità in cui egli stesso l’ha gettato?

Nessuno di questi.

Il suo compito è superare la finzione. Il suo compito è rivelare l’uomo nella sua nuda essenza, svelando, da un lato, la verità nella sua vulnerabilità, scoprendo, dall’altro, il lato animalesco e mostruoso della sua umanità.

L’alternanza sogno-veglia (rectius, incubo-veglia) che sovverte l’unità di tempo e di luogo del vissuto del protagonista non è un caso. Il sogno è un luogo pieno di enigmi, una collezione di simboli dei quali sfugge il senso complessivo. E non è più possibile distinguere il sogno dal reale, l’incubo dalla veglia, perché si assomigliano in modo spaventoso.

Il sogno è lo specchio della vita, esattamente come la vita è lo specchio del sogno. Tuttavia, la superficie riflettente non è più rivolta verso l’esterno, ma verso l’interno e mostra ciò che non dovrebbe mostrare mai.

Il buio dentro di noi.

A.M.







Nota dell’Autore

I versi nel Capitolo VIII sono Deuteronomio 6, 4-9.

Ascolta Israele

il Signore è il nostro Dio

il Signore è Uno

sia benedetto il santo nome del suo Regno

per sempre e in eterno.

Shemà Israel è una preghiera antichissima, la più sentita fra quelle della liturgia ebraica. Secondo alcune fonti, risalirebbe addirittura ad Amenothep IV, meglio noto come Akhenaton, passato alla storia come il faraone eretico per aver tentato di sostituire il culto del dio Amon con un embrione di monoteismo.

Heinrich e Josefine sono come il sole e la luna, la luce e il buio, il bianco e il nero, Aset e Asar (ovvero, Iside e Osiride), gli opposti che si attraggono. Ma la loro attrazione è inconcepibile, addirittura scandalosa, immorale, contro natura, nel contesto e nel tempo in cui agiscono. Sono l’unione impossibile fra El e Asherah (la moglie di Dio), le divinità pre-monoteistiche a cui faccio riferimento nel Capitolo X.

Israel, secondo alcuni studiosi, deriva dall’unione delle parole Is (da Iside), Ra (il dio egizio Rah) e El (il dio canaanita sopra citato). La spiegazione che viene fornita in proposito è che tre battaglioni egiziani di stanza nel Sinai, guidati da un generale di nome Moshéh, abbiano disertato e si siano insediati nella Terra promessa. È stato appurato che sono storicamente esistite unità da guerra egizie con nomi di divinità. Dunque, siamo noi a creare i nostri dèi e non loro noi. E, come creiamo i nostri idoli, plasmandoli dalla creta delle nostre paure, così forgiamo i nostri epigoni e li facciamo danzare sulle assi traballanti dei nostri teatri esistenziali. Mi scuso per la divagazione.

Le rime in corsivo nel Capitolo XII sono tratte da Guida al diporto nautico di Flavio Guglielmi.

E per finire, una Josefine Ascher è realmente esistita. Nata il 19 dicembre 1898, morì in uno dei tanti campi di concentramento dell’Europa occupata. Ho saputo di lei solo molto dopo aver composto il romanzo, quando il personaggio creato viveva ormai di vita propria. Ecco, questo libro potrebbe essere dedicato a lei, a quell’oscura eroina che visse i suoi ultimi giorni all’ombra dei camini.



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