martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Capitolo XI




XI


Heinrich! Heinrich…

Il ricordo risalì dal subconscio rapido e inaspettato come un rigurgito e ne aveva lo stesso sapore. E rivide suo padre seduto in giardino in una primavera di tanti anni prima. Incideva rami di piccoli arbusti per ricavarne talee e gli diceva che aveva un nome forte e vigoroso e che non doveva aver paura perché quel nome lo poneva al sicuro dai pericoli del mondo.

«Heinrich, Heinrich,» gli diceva «la vita è una scala. Io ti aiuto a salire, tu mi aiuterai a scendere.»

Suo padre era un uomo alto e forte e non alzava mai la voce. Neanche per sgridarlo di una marachella. Bastava che lo guardasse ed era già in lacrime; ma subito sentiva il calore della sua mano sulla guancia e, come per magia, le lacrime si arrestavano. Chissà dov’era. Sotto tonnellate di mattoni e cemento dopo il bombardamento di Colonia, o forse l’ultimo di una lunga fila di vecchi in coda per il pane.

«Non aver paura.»

Sbirciò fra le tende nella strada di sotto. Era scesa la sera. Non c’era più nessuno, fin dove poteva spingersi il suo sguardo, la strada era deserta. Ma alcuni individui in abiti scuri stazionavano nell’ombra all’imbocco della via e volgevano occhiate insistenti verso l’albergo. Non v’era modo di uscire senza darlo a vedere. Heinrich si maledisse per non essersene accorto prima.

Le pareti della stanza dovevano essere solide e impenetrabili quanto le mura di una fortezza, per accordarsi con la fiducia che voleva trasmetterle con le sue parole.

Le cinse la vita e depose lievi baci alla base del collo. Lei sorrise e inarcò il suo corpo di agile gazzella. Le loro labbra si sfiorarono e i loro fiati si fusero in un solo respiro. Il loro bacio era eterno, nulla avrebbe potuto sciogliere il loro abbraccio. Non parlavano più, non ve ne era bisogno.

Lei prese ad accarezzarlo e attraverso le sue mani gli fece comprendere quanto fosse vasto il suo desiderio, quanto avesse trepidato nell’attesa che la sua forza si facesse strada in lei e la sovrastasse, la soggiogasse.

«Vieni, mia regina» sussurrò al suo orecchio.

La regina si assise in trono, gli occhi e la bocca socchiusi. Egli era insieme spalliera e cuscino, era il trono e il regno, le sue braccia una fortezza inespugnabile, il suo corpo solida roccia, era tutto il mondo che la nutriva e la sosteneva. Heinrich immobile godeva della sua danza.

La regina cantò ed era un canto lieve, una nenia remota, una melodia ancestrale. Un carme di amore e morte che si perdeva nella nebbia del tempo e narrava di giorni smarriti come gatti randagi e di notti trascorse a piangere sulla soglia dell’oscurità.

Un lungo fremito pervase il suo corpo regale, alla luce della sera. La danza si arrestò, si fermò anche il canto. La regina si preparò a ricevere il dono, nel calore profondo del suo mistero di donna dalla pelle bruna, colorata di sole. Ormai tutto era suo. La stanza d’albergo, le parole, Heinrich e lei stessa. E ogni lacrima, ogni goccia di gioia e ciascun maledetto frammento del bene e del male, ogni particella di tenebra, ogni scheggia di luce e il tempo passato e il tempo ancora da venire.

Si arrese, stupita della sua stessa forza, reclinò il capo e si abbandonò a lui, respirando fra i capelli che le ricoprivano il viso.

«E adesso cosa faremo?»

Per la prima volta nella sua vita, Heinrich non seppe cosa rispondere. Avrebbe voluto dirle che l’avrebbe portata via da quella città, che l’avrebbe condotta al sicuro, dall’altra parte del mare e l’avrebbe amata per sempre. Ma neppure una parola uscì dalla sua bocca.

Si osservò le mani. Linee rette e curve s’intersecavano solcando la pelle, come orbite di pianeti di un universo bidimensionale, una cosmologia in palmo di mano.

Si ricordò allora dove aveva nascosto una piccola scatola di latta. La prese e la depose sul letto, fra loro. Disfece lentamente la carta che l’avvolgeva, sollevò il coperchio e finalmente l’aprì. Josefine osservava la scena con apprensione via via crescente. Heinrich estrasse alla fine alcune fiale contenenti un liquido trasparente, un laccio emostatico e una siringa e le adagiò sulle coperte.

Josefine scoppiò a piangere.

Heinrich innestò l’ago che prese a brillare come una piccola baionetta. Azionò lo stantuffo e il liquido gorgogliò dentro il cilindro vitreo attraverso le linee fitte e regolari della scala graduata. Quando ebbe terminato, aprì un’altra fiala e poi un’altra e un’altra ancora, ripetendo con sapienza gli stessi movimenti. Ammirò la siringa. La innalzò con solennità verso la luce della lampada, come in un rito religioso e, nel più completo silenzio, spinse avanti il piccolo pistone per eliminare le bolle d’aria. Gocce molto chiare colarono lentamente dall’ago e scivolarono sul corpo cilindrico, fino a bagnargli le dita.

«Vieni.»

Le prese la mano. Applicò il laccio emostatico al suo esile braccio e strinse il nodo. Le vene eruppero bluastre come torrenti in piena dalla pallida pianura vergine dell’epidermide, fiumi di vita, fiumane di sangue.

Josefine non disse nulla e lo lasciò fare. Si riscosse solo al contatto col freddo metallo dell’ago che penetrava nella sua carne. Avvertì una vampa di calore incunearsi fra la testa e il cuore e si sentì mancare. Heinrich ripeté le stesse operazioni, stavolta sul suo braccio, poi si adagiò accanto a lei e le baciò la fronte.

«Ti amo» disse Josefine.

«Anch’io ti amo, ti ho sempre amata.»

La baciò sulla bocca a lungo, accarezzandole i seni bianchi e pieni, la strinse nel suo abbraccio, le membra annodate come serpenti nel Giardino proibito. La prese ancora, lentamente, annegando nel profondo mare dei suoi occhi. Lei invocò il suo nome mentre lui germogliava nel suo pallido ventre, poi si accorse di star iniziando lentamente a cadere. Il suo corpo perdeva pian piano le forze, egli lo sentiva farsi flaccido e inerte e svuotarsi fra le sue braccia.

E poi anche Heinrich cominciò a cadere, a precipitare dentro un pozzo senza fondo, nel buio fitto dell’incoscienza. Il mondo si allontanava e sfumava sotto una coltre di fitta nebbia. Non vedeva più nulla, la stanza era svanita, il mondo era stato inghiottito dalle tenebre. Non sentiva più le membra, non sapeva se avesse ancora un corpo e si chiedeva in quale angolo dell’universo o frammento di tempo si fosse incastrata la sua coscienza.

Era la fine.

Si sentì vuoto. Quel che restava del suo io aleggiava ancora come un’eco, da qualche parte, spegnendosi in una profondità che non era tempo, né spazio.

Un chiarore appena percettibile trapelava dalle imposte. Ogni cosa pareva ricomporsi nel suo ordine originale, ogni frammento si incastrava nel verso giusto, combaciando con gli altri, tutto aveva un senso. Si stropicciò gli occhi e si rese conto di non averli mai aperti. Dunque non era la luce del giorno quel bagliore che era giunto da profondità abissali fino alle sue pupille. Era come un frammento di quel bagliore primordiale, di quella luce vergine e pura che aveva esiliato le tenebre in una delle due metà esatte dell’universo all’alba della creazione. E quella luce ardeva in lui come un fuoco perenne.

Era la vita.

Soltanto quando ebbe compreso aprì gli occhi. Era giorno fatto ormai e la crudele energia del sole irrompeva dispotica nella stanza con la forza di un oceano di luce. Il violento bagliore illuminava impietoso il letto disfatto, i vestiti alla rinfusa, le membra nude, che assumevano sotto le sue onde tutte le sfumature di un colore nauseante. Heinrich richiuse gli occhi.

Subito sentì una risata isterica, una voce stridula che si prendeva gioco di lui. Stette per un po’ in ascolto. Soltanto dopo capì. La voce che lo scherniva era la sua. Quella era la sua stessa risata.

La stanza prese a roteare di colpo e non vide più nulla. Ricominciò a udire le voci. E stavolta non provenivano dalla sua gola. In verità, non erano vere e proprie voci, erano più che altro sussurri, gridolini, risate, come se tante persone bisbigliassero tutte insieme dentro un teatro, aspettando che si sollevasse il sipario. E ora le voci salivano di tono, sussultavano in gorgheggi di meraviglia e incredulità, urlavano quasi, come se il sipario si fosse sollevato davvero, mostrando scene fantastiche. Mille voci strillavano tutte insieme la loro stranezza, la loro anomalia, la loro indifferenza. Sullo sfondo, un uniforme e lontano crepitare di alte fiamme. Era l’inferno.

Sii felice oggi, perché domani morirai.

Ma Heinrich aveva cominciato a morire quella notte fuori dal tempo, un po’ alla volta, un respiro dopo l’altro, molto prima di quanto si aspettasse, molto prima che arrivasse il domani.

La morfina l’aveva ucciso, ma non completamente. Aveva ucciso soltanto la parte migliore di sé, la parte più pura, quella che aveva amato Josefine e custodiva gelosamente la sua preziosa memoria. Era sopravvissuta la parte peggiore, giacché era quella che non l’aveva amata, che non aveva saputo salvarla, che l’aveva lasciata morire nell’oblio e svanire senza lasciare traccia. Lei non c’era più, non apparteneva più al mondo, alla terra, alla vita.

A lui era toccata un’insolita sorte. La morte non l’aveva voluto. Lo aveva respinto, scacciato dal suo lago di nera pece e abbandonato sulla sponda ardente della vita. Ma poi, qualcosa era andato storto e si era malamente incastrato in qualche frammento di tempo, tra la vita e la morte, e lì era rimasto fino al suo prossimo risveglio.



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