martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Capitolo IX Seconda parte



IX

(Seconda parte)



Il tomo passò dalle mani aggrinzite del vecchio libraio a quelle morbide e lisce della donna, che lo aprì e ne sfogliò alcune pagine. Oltrepassata la soglia d’ombra della libreria sembrò quasi che il volume riprendesse a vivere alla luce del sole, che i dipinti raffigurati sulle sue antiche pagine riemergessero dalla densa patina del tempo e i colori riguadagnassero intatte la vitalità e il vigore perduto.

Era l’opera sul Rinascimento italiano.

Josefine strinse fra le sue le mani fredde e tremolanti del vegliardo e la sua bocca si schiuse in un sorriso colmo di gratitudine.

«Vi auguro buon viaggio» disse rientrando nel suo negozio.

Heinrich se la tirò dietro. Non c’era più tempo, dovevano correre se volevano partire. Il libro si aprì su una pagina a caso. Vi era raffigurata la Fuga in Egitto del Tiziano.

«Credi che se ne sia accorto?»

«Che stiamo fuggendo? Credo di sì.»

La strada si srotolava come un nastro impolverato sotto le ruote delle biciclette. Ai suoi margini scivolava lenta la campagna, striata dalle linee scure e regolari dei solchi dell’aratro. Apparivano, qua e là, mulini a vento e case dal tetto di paglia, le bianche mura rinforzate da travature in legno scuro. Entrambi desiderarono vivere all’ombra di quelle mura, lontano da tutto il resto, con la sola compagnia del loro amore.

Non era stata una buona idea prendere il torpedone. In primo luogo, non lo era affatto. Si trattava di uno sgangherato autocarro con il cassone stracolmo di sedie, che veniva spacciato per tale. In secondo luogo, il surrogato del torpedone, che con tutta probabilità era stato requisito, era rumoroso e puzzolente e arrancava con immensa fatica. Infine, dopo alcuni chilometri, si era sentito un forte odore di bruciato e un denso fumo nero aveva invaso loro i polmoni. Il motore era andato a fuoco. L’idea delle biciclette era stata di Josefine, Heinrich ci aveva messo il denaro, il suo ultimo gruzzolo.

Costeggiarono un canale, le nuvole vagabondavano nel cielo azzurro duplicando il loro splendore nel suo specchio di luce. A un tratto Heinrich si fermò. Puntò lo sguardo su qualcosa oltre la ripa, smontò dalla bici e svanì dietro i pruni. Josefine smise di pedalare. Una brezza d’aria translucida le sfiorò i capelli e andò a morire sui fuscelli. Era l’unica cosa mobile sulla strada. Rimase interdetta a guardarsi le scarpette impolverate, senza sapere cosa pensare.

«Presto, vieni.»

Seguì la voce che la chiamava oltre la siepe.

Heinrich aveva trovato una barca. Spiegò che avrebbero dato meno nell’occhio comportandosi come una coppia di fidanzati in una romantica gita sull’acqua. L’aiutò a salire e con una secca spinta si allontanarono dalla ripida sponda. Inserì i remi negli scalmi e iniziò a remare.

La piccola imbarcazione navigava sotto le argentee nubi. Avanzava così lenta e tranquilla, alla cadenza della voga, che il loro viaggio era quasi tedioso. Josefine si riparava dal sole con l’ombrello, del tutto a proprio agio fra le ninfee appena smosse dalla debole corrente. Heinrich remava con sicurezza e la prora legnosa separava il flusso in due sbaffi che si perdevano nell’acqua verde e placida. Il sole scagliava dardi che ne rompevano la superficie in miriadi di schegge sfavillanti e, rimbalzando nei suoi occhi, li facevano ardere di un inconsueto turchese.

«Resta così, non ti muovere.»

«Cosa c’è?»

«Se sapessi dipingere, ti ritrarrei così come sei ora, proprio in questo istante.»

Rise. «Ma tu non sai dipingere.»

«Per questo motivo, dovrò accontentarmi di guardarti.»

Il canale si aprì in un reticolo di corsi d’acqua più ampi che s’infittivano di case e palazzi. Una città cresceva sulle sue sponde come edera rampicante. Heinrich non stava più nella pelle, vogava sempre più rapidamente, anche se gli dolevano le mani e le spalle. I remi cigolavano negli scalmi. Josefine sfogliava il libro d’arte.

Ben presto alle sponde erbose si sostituirono alte e ripide mura, sulle quali scorrevano strade e marciapiedi. Rumori del traffico, voci e scampanellate di biciclette giungevano soffuse e ovattate al bordo dell’acqua. Heinrich scelse una rientranza fra gli argini, celata alla vista, dove l’acqua gorgogliava più scura nella loro ombra e attraccò.

Josefine si rassettò i vestiti, egli le porse il braccio e si arrampicarono per una stretta e ripida scalinata di pietra. Sbucarono sotto un ponte e si trovarono in strada. Amsterdam finalmente. Josefine sorrise con gli occhi velati di lacrime, Heinrich annuì senza dir nulla.

Gironzolarono per la città, costeggiando i canali e saltando di ombra in ombra sotto gli alberi fronzuti, finché non s’imbatterono in un edificio che si elevava imponente sulla monotonia delle strade. A giudicare dall’aspetto austero e un po’ decadente, un tempo doveva essere stato un orfanotrofio, o un ospizio per poveri, oppure un’antica prigione. Ora era un albergo, o almeno così recitava l’insegna. Si guardarono per un momento, scambiandosi un breve cenno d’intesa, poi, attraversarono la strada. Cinque minuti più tardi, i signori Dammerschlaft erano gli ospiti della stanza numero novantacinque, la più bella e ariosa di tutto l’Hotel Vasteland. Le sue finestre si aprivano sul cuore della città e sul tramonto.

Josefine ammirava il panorama. Heinrich la strinse a sé e lei abbandonò il capo sul suo petto, assorbendo il suo odore. Egli le sollevò il viso, la sua bocca dischiuse file di denti che erano collane di perle.

«È un sogno, Heinrich?» disse nascondendo il sorriso contro il suo petto. «Non svegliarmi se è un sogno.»

Heinrich le diede un pizzicotto, per scherzo, su un braccio. Lei trasalì, simulando, per stare al gioco, l’andatura di un sonnambulo.

«Puoi svegliarti, non è un sogno. Siamo salvi.» La prese ancora fra le braccia e la baciò.

«Vorrei svegliarmi sempre così, tutte le mattine, in questa città. Con te.»

«No, non in questa città» fece lui.

«No?»

«Andremo in Inghilterra. La nostra nuova casa.»

«Ho sempre desiderato viaggiare. Non ero mai andata via da Colonia prima d’ora.»

«Vedrai, ti piacerà. Ho studiato medicina a Londra, per un paio d’anni. È bellissima» disse in un soffio fra i suoi capelli.

«Ora, però, devo andare a cercare chi ci farà salpare per la nostra isola.»

Heinrich seguì alla lettera le istruzioni fornitegli da Becker, attraversò la strada ed entrò nel Cafè De Vrije. Il locale era deserto, un uomo dinoccolato e polveroso stava appoggiato al bancone in attesa di clienti.

«E così si è messo cattivo tempo.»

Il barista sgranò gli occhi. Heinrich ripeté la frase.

Il barista sorrise. «Tempo eccezionale per l’Olanda, signore.» Gli fece un cenno con la testa, un gesto a metà strada fra un saluto e un inchino e sparì dietro una tenda. Quando ricomparve, gli mise una tazzina sotto il naso.

«Ma io non ho ordinato niente» protestò.

«Con i miei omaggi» fece una voce alle sue spalle.

Heinrich si voltò. Un signore con il volto immerso nell’ombra gli fece cenno di accomodarsi al suo tavolo.

«Spero che il viaggio sia stato confortevole.» Aveva una voce alquanto sgradevole e in generale, in tutta la sua persona, vi era qualcosa di spiacevole, anche se in quel momento non avrebbe saputo dire cosa.

«Non molto, ma senza particolari intoppi, per fortuna.»

«Ne sono lieto. Sono Felix Van Diemen.» Scandì il suo nome come se dovesse rivelare qualcosa d’insolito. Il suo volto aveva un profilo arcuato, da mezzaluna, con la fronte e il mento sporgenti e il naso inesistente.

Heinrich sfiorò con la mano il suo ginocchio sotto il tavolino, la mano del signor Van Diemen la sfiorò a sua volta. Ebbe ribrezzo a quel contatto, ma aprì le dita e depose l’involto nel suo palmo. La faccia da mestolo del signor Van Diemen non lasciò trapelare alcuna emozione. Sentì frusciare le banconote sotto il tavolo, le stava contando. Era tutto il denaro di Josefine, a lui non era rimasto più nulla.

«Molto bene» disse Van Diemen. «Un carico al quale tengo molto – e non si faccia illusioni, non si tratta di voi, è di gran lunga più prezioso – salperà per l’Inghilterra fra qualche giorno. Quando sarà il momento sarete avvisati. Dunque, chiudetevi in camera e restateci fino ad allora.»

Il signor Van Diemen si alzò. «Allora, ha capito? Non vi muovete.»

Heinrich annuì.

Felix tossì così forte che dal suo torace venne un rumore sordo e secco allo stesso tempo, come se dentro i suoi polmoni rotolassero pietre dai bordi affilati.

«Bene. Mi farò vivo io. Buona giornata.»

Heinrich si stupì della rapidità con cui Felix era svanito nella folla. Si avviò verso l’albergo, ma si voltò subito indietro per verificare se qualcuno lo seguisse. Nessuno era interessato a lui. Eppure era sicuro che, mescolato fra la gente, mimetizzato fra centinaia di altre persone, imitando un individuo qualunque, il signor Van Diemen lo stesse osservando.



COPYRIGHT 2013 – 2015 ANGELO MEDICI

Tutti i diritti riservati

Riproduzione vietata


Nessun commento:

Posta un commento