martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Parte prima Nox - Capitolo I



                                                   Hotel Vasteland



Questo romanzo non ha la pretesa dell'accuratezza storica; vi sono riportati fatti realmente accaduti, seppure in momenti storici diversi rispetto a quelli narrati.

I lettori sono avvisati.



Videmus nunc per speculum in aenigmate.

Ora vediamo attraverso uno specchio, nell’oscurità.

Paolo di Tarso, Lettera ai Corinzi




Parte prima

Nox



I

La stanza era buia e nuda. Un ticchettare ostinato, ritmico, compulsivo sconvolgeva le ultime pieghe della notte, nella luce incerta che preannuncia il giorno. La coscienza lentamente si risvegliava, la ragione si liberava dai tentacoli del sonno e spezzava le inferriate della prigione onirica nella quale era stata reclusa.

Cosa aveva sognato?

Tentò di ricordare, di riportare a galla i sogni. Scrutò nei foschi recessi dei neuroni, lungo i tortuosi meandri della coscienza, nei bui cunicoli della memoria.

Niente.

Nessun ricordo affiorava dal fiume di tenebra, nessun baluginio, seppur lieve, che potesse rivelare il riaffiorare di reminiscenze, brandelli sfilacciati di sogni rimasti impigliati, come nebbia fra i rami, nelle terminazioni nervose durante la notte. Eppure qualcosa indugiava ancora. Una lieve sensazione, uno smarrimento e un’angoscia, un vago sapore spiacevole in bocca e un ronzare persistente nelle orecchie.

Aprì gli occhi lentamente.

Dove si trovava?

La stanza era buia e spoglia, le mura nude, senza quadri, specchi e altri orpelli, incombevano sul letto. E quel ticchettio continuo, inarrestabile, ossessivo, come se mille orologi battessero il tempo all’unisono, percuoteva le membrane timpaniche tese come pelli di tamburo e, attraverso il buio delle terminazioni nervose, si insinuava nelle pieghe della mente.

Chi era?

Si guardò le mani nella luce grigia dell’alba. Non erano mani di vecchio, non erano mani di giovane. A chi appartenevano quelle mani scarne, ossute, solcate da capillari azzurrognoli, malaticce come petali appassiti? Rabbrividì, di freddo e d’angoscia. Si alzò dal letto e andò in bagno. Allo specchio comparve l’immagine di uno sconosciuto e trasalì di stupore. Lo sconosciuto rispose al suo sguardo sbalordito con un ghigno. E un’occhiata sconcertata. Si toccò il viso e le guance sulle quali affluiva bluastra l’ombra della barba e i polpastrelli affondarono impazienti nella carne delle gote. Si infilò le dita in bocca, si toccò i denti, la lingua, le pareti interne, come se potesse trovare il rovescio del suo volto ed estrarlo, e quel rovescio fosse più familiare dell’immagine riflessa nello specchio. Agganciò le dita agli angoli della bocca e tese il tessuto molle deformandola in fauci bestiali. Allo specchio, un mondo parallelo e sconosciuto, al pari di quello che si trovava dall’altra parte, faceva sfondo a una maschera orribile e deforme che lo fissava con occhi spalancati di viva curiosità.

Una giacca giaceva abbandonata sulla spalliera di una sedia, infilò le dita in una tasca e ne estrasse un portafoglio. Trovò il passaporto. Lo aprì e la foto mostrò il volto straniero che era comparso allo specchio. Heinrich Dammerschlaft diceva il documento a caratteri netti e precisi e non vi era motivo di dubitarne.

Si lavò il viso e si rase. Dunque, si chiamava Heinrich. Heinrich Dammerschlaft. Quel nome non gli diceva niente. Si guardò ancora allo specchio. Scosse la testa. Doveva esserci un errore. Il volto riflesso non si combinava affatto con quel nome pieno di forza e di energia, un nome che emanava autorevolezza. Il volto allo specchio, invece, ne scarseggiava.

Si vestì e uscì in strada. Non aveva mai visto quella città, non aveva idea di dove si trovasse. Guardò a destra, guardò a sinistra, poi dritto davanti a sé. Non sapeva dove andare.

Dall’altra parte della via c’era un caffè. Attraversò la strada ed entrò. Era prestissimo, non c’era nessuno. Si sentì molto stanco, quel sonno senza sogni non gli aveva portato il ristoro e si trascinò incerto oltre la soglia.

«Buongiorno signor Dammerschlaft.»

Trasalì, ma si riprese rapidamente, cercando di mascherare il suo stupore. Si stropicciò gli occhi cisposi, ancora intorpiditi dal sonno e guardò meglio.

Osservò a lungo quel tale, indagò sulla sua fronte ampia e calva, studiò le sopracciglia nere e folte e il viso butterato a forma di mandorla. Invano. Nei suoi lineamenti non vi era nulla di familiare. Eppure il tizio dall’altra parte del bancone aveva dato mostra di conoscerlo. Sentì lo stomaco contrarsi e tutti gli altri suoi organi interni restringersi e raggomitolarsi seguendo il suo esempio, e poi indurire come fossero diventati di legno. Nondimeno, si impose di comportarsi normalmente. Si avvicinò al banco e ordinò un caffè.

Avvicinò le labbra alla tazzina. Trovò alquanto conforto nel liquido nero e caldo che vi era nel fondo.

«Non mi par da tanto di aver assaporato un caffè magnifico come questo.»

«Certo, signor Dammerschlaft, è stato l’altro ieri.»

Accese una sigaretta senza fretta. Era Dammerschlaft, e al contempo, non lo era. Armeggiò con il cucchiaino e la tazzina e intanto i suoi occhi vagavano febbrili nell’ambiente circostante, in cerca di particolari familiari. Indugiò ancora studiando i canapè, i tavolini d’acciaio, le tende di broccato, ma nulla veniva in soccorso alla sua memoria. Quel luogo era un mistero, come il volto che si rifletteva negli specchi della scansia di fronte. Decise di averne avuto abbastanza e finì il resto del caffè tutto d’un fiato.

Attraversò la strada e si trovò di fronte il portone dal quale era uscito poco prima. L’entrata apparteneva a un grande edificio grigio dall’aspetto austero e funereo con una grande insegna a caratteri cubitali, infissa all’altezza del primo piano.

Hotel Vasteland.

Ci rimuginò su, ma neanche quel nome gli diceva nulla.

Il portiere gli porse la chiave della stanza novantacinque. «Buongiorno, signor Dammerschlaft.»

Egli rispose con cortese indifferenza e salì in camera sua. Trovò la stanza più fredda e più nuda di quando l’aveva lasciata. Si buttò sul letto e stette a considerare gli stravaganti arabeschi che la luce scialba del giorno, filtrando dalle imposte semiaperte, proiettava sul soffitto. Volle accendersi un’altra sigaretta, ma l’accendino gli scivolò dalle mani. Non udì il tonfo metallico che si sarebbe aspettato in seguito alla sua caduta, ma un suono lieve e smorzato. Si sporse per vedere e il respiro gli si fermò in gola.

Una mano spuntava da sotto il letto e teneva il suo accendino.



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